di
Alberto Scarponi
Günter
Grass e la nostra coscienza
Vivere vuol dire combattere contro i troll del cuore e del pensiero
Ibsen
Günter Grass in
vita ha ruvidamente scosso l’opinione pubblica – tedesca prima di tutto ma poi mondiale
– con due atti assai rumorosi: pubblicando nel 1959 il romanzo intitolato Die
Blechtrommel (Il tamburo di latta) e, nel 2006, di nuovo pubblicando
un libro, – gli scrittori possono solo pubblicare libri, non altro, – un volume
autobiografico intitolato Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando la
cipolla).
In questo secondo
atto la metafora della cipolla rimandava a Ibsen, alla differenza fra ‘essere
sé stesso’ e ‘chiudersi in sé stesso’, che costituisce l’alternativa drammatica
dell’intero Peer Gynt, il testo di Ibsen dove il protagonista, che ha
scelto lungo la propria esistenza di seguire il precetto «energico ed incisivo»
degli spiriti cattivi, i troll, di pensare solo a sé – e dunque è divenuto un uomo vuoto, un io desiderio,
bisogno, passione, che vive una vita solo sua, la cui legge è stare alla larga
dai problemi, dai pensieri, da tutto ciò che non sia: io basto a me stesso, – Peer
Gynt, che ora si trova ad essere un sé composto soltanto di pensieri respinti, di parole non dette, di canzoni
non cantate, di lacrime non versate, di azioni non compiute, che si vede uomo
senza fede, dal cuore inerte come una stanza disabitata, e sa che sulla propria
tomba andrà scritto «qui non giace nessuno», Peer Gynt nella solitudine di un bosco
assai folto va monologando attorno a una cipolla e la sbuccia, e toglie da quel
bulbo, una pellicola, poi un’altra, poi un’altra fino alla fine, quando scopre
che non si arriva a niente, la cipolla è quelle pellicole sempre più inconsistenti.
Ma allora dove sarà mai stato il sé stesso di quest’uomo ‘nella sua verita’? Stava
fuori di lui, nelle tre virtù divine della madre: la fede, la speranza, l’amore
possedute da ogni donna che partorisce un figlio riversando sopra di lui le sue
aspettative.
In questo secondo
caso il rumore, senz’altro, era voluto. Infatti l’uscita del libro veniva
scortata, nel campo dell’informazione, da una intervista alla FAZ
(l’autorevolissima Frankfurter Allgemeine Zeitung, portavoce e artefice
in Germania dell’opinione pubblica mainstream) in cui Grass esclamava, a
proposito di sé e della faccenda che sapeva avrebbe portato tempesta: «Doveva
venir fuori, finalmente!». Si trattava del fatto che nel 1944, diciassettenne,
era entrato volontario nelle SS. Il punto dolente tuttavia non era il
fatto in sé, ma aver taciuto, aver nascosto la circostanza fino ad allora.
Forse è che le
grandi personalità sono problematiche in tutto ciò che loro accade. Così anche
nel morire lasciano il segno. I commenti nel loro caso non sono incolori,
abulici omaggi che non si negano a nessuno. È che, morendo, le grandi
personalità se non altro creano il problema della loro scomparsa. Il bilancio: cosa
resta?
Allora, per cominciare
a rispondere, di solito si parte dall’evidenza dei fatti. Così: con lo
scrittore tedesco Günter Grass scompare uno dei grandi della terra, un Nobel
della letteratura.
In effetti nel
1999 – dopo lunga attesa, nota maligno un giornalista della FAZ – Grass diviene,
nel campo letterario, l’ultimo Nobel del ventesimo secolo e questo a distanza
di quarant’anni dalla pubblicazione nel 1959 di Tamburo di latta, la sua
opera più importante.
Commento del
giornalista: la lista dei Nobel predecessori di Grass nel suo campo era
iniziata nel 1901 con un lirico francese oggi tranquillamente dimenticato,
Sully Prudhomme, che aveva preso parte alla guerra franco-tedesca del 1870-1871
e aveva però impiegato solo un anno per parlare delle sue esperienze belliche (in
realtà, se si va a controllare, circa una ventina di pagine di quartine pur attentamente
rimate, sotto il titolo, allora aggiornato ma in quel caso un po’ aereo, di Impressions
de la guerre), mentre Grass «ha taciuto per più di sessanta anni» circa il
fatto che diciassettenne, nel 1944, era entrato volontario nelle Waffen-SS (le
quali non erano proprio le SS famigerate – erano le SS da guerra, una sorta di
truppe scelte – ma insomma sempre SS erano).
Conclusione:
l’iniziale trionfo letterario del 1959, da un lato, e la tarda confessione personale
del 2006, dall’altro, «sono eventi di una vita che oscurano tutto il resto». Vero
che si potrebbe in proposito parlare, magari, di uno snodo tragico, e però, insiste
implacabile il giornalista, resta che quelle date sono due «ferree parentesi dentro
cui Grass sta come blindato, al contempo protetto e prigioniero».
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Günter Grass
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Naturalmente la
riflessione suscitata in Germania dalla morte di Günter Grass ha una portata più
ampia di quanto non dica questa mia citazione, furba, di un furbo passo
polemico a suo modo brillante. E ciò era inevitabile, non fosse altro per la
statura weltliterarisch dello scrittore, che ad esempio ha indotto
Gabriel García Márquez e Salman Rushdie a ritenere la propria narrativa, pur
linguisticamente altra, nata sotto l’influenza di Grass narratore. Ma, a
prescindere da tali indizi – fuori mercato – di Weltliteratur in
ipotesi, nessuno può sottovalutare in Germania, sul piano interno, la
circostanza che questo letterato artista è stato per molti decenni, come
intellettuale, la voce tedesca più prestigiosa e forse più seguita dall’opinione
pubblica del paese. Ed è appunto quanto viene unanimemente ricordato, a volte
per segnalare il valore epocale di questa presenza e il momento storico che la
scomparsa dello scrittore ora marca, altre volte invece proprio per insistere sulla inaffidabilità degli
intellettuali che, arroganti, predicano bene ma poi, peggio di noi tutti, gente
qualsiasi, sempre razzolano male.
In ogni caso con
Günter Grass abbiamo davanti una personalità intellettuale in sé assai rilevata:
oltre che scrivere dipinge, disegna, incide, scolpisce, avendo tra l’altro a
suo tempo, dopo la guerra, negli anni 1948-1952, regolarmente frequentato a
Düsseldorf i corsi della locale Accademia di Belle Arti (Kunstakademie
Düsseldorf). Frequentazione preceduta – a dire la determinazione del giovanotto
– da un apprendistato d’un anno come tagliapietre (titolo necessario, non
possedendo il diploma liceale, per essere ammesso all’accademia per apprendere
la scultura) e poi accompagnata, a fini di auto sostentamento, anche da lavori svariati,
incluso (forse scanzonato marchio generazionale sessantottino ante litteram)
il mestiere di buttafuori, in coppia con un amico, il pittore Herbert Zangs,
presso un locale della città vecchia.
L’apprendimento
artistico verrà da lui proseguito poi, dal 1953 al 1956, sempre nella classe di
scultura, presso l’Istituto superiore di Arti Figurative (Hochschule für
Bildende Künste) di Berlino. Città dove in aggiunta in quel periodo, oltre a
venir ammesso nel Gruppo 47, si sposa.
Quest’ultimo cenno
biografico non è affatto gratuito, se si considera quanto la viva presenza di
una famiglia, e volutamente numerosa, abbia giocato come mito personale nella
sua sentimentalità. In argomento scriverà fra l’altro un romanzo autobiografico
Die Box (La fotocamera – di quelle vecchie, a cassetta) con protagonisti
tutti i suoi figli, otto, includendovi quelli extramatrimoniali e i due da lui
felicemente acquisiti tramite il secondo matrimonio. Ma ciò risulta chiaro anche
ai lettori del Tamburo di latta, dove la narrazione prende le mosse per
l’appunto da una reinvenzione dell’esperienza familiare e ambientale dell’autore
nei suoi primi anni di vita.
A Danzica, la
città dove nasce, si parla prevalentemente tedesco, ma in realtà a Günter Grass
capita di viverci in un tempo di forte tensione interna fra culture e
popolazioni diverse. Diversità che fra l’altro inevitabilmente assumono, dato
il periodo di fermento postbellico, presto anche colore politico.
Nella Città
Libera di Danzica, dopo la prima guerra mondiale giuridicamente indipendente
sia dalla Polonia che dalla Germania, si parlano ufficialmente il tedesco, il
polacco e il casciubo (anch’esso parlata slava, dialetto o lingua che sia) e,
quanto a culture, intrecciandosi con le varie tradizioni popolari ci si
distingue tra protestanti, cattolici ed ebrei, e forse altro ancora. In tale
contesto fumoso, imprevedibile, Günter è figlio di un piccolo negoziante, un
droghiere, tedesco protestante e di una casciuba cattolica. Famigliola più o
meno piccoloborghese (abitano, genitori e due figli, in un appartamento di due
stanze e servizi, dove però non è incluso il bagno, che è esterno, come usa), il
bambino dapprima segue la madre e diviene persino chierichetto, poi più
grandicello segue il padre e si orienta verso il diffuso nazionalismo nazista
della maggioranza tedesca. Dirà poi che a quindici anni, nel 1942, aveva voluto
arruolarsi soldato per uscire dall’angusta atmosfera familiare.
Di fatto si
arruola e, dopo una trafila di situazioni militari varie, dagli ultimi mesi del
1944 partecipa, come sappiamo, direttamente alla guerra in quanto assegnato
infine a una divisione corazzata di SS. Viene ferito e ricoverato in ospedale. Al
termine della convalescenza, si trova poi prigioniero degli americani, nel
maggio 1945. Rimane quindi in un campo di prigionia fino all’aprile 1946,
quando viene liberato in Baviera. Dal 1947 si stabilisce dove trova lavoro per
entrare in una scuola d’arte, a Düsseldorf, rispetto a Danzica dall’altra parte
del mondo.
E dall’altra
parte del mondo, tanto più, sarà quando, dopo gli anni di Berlino, nel 1956 si
trasferisce con la moglie a Parigi, dove rimane per alcuni anni sopravvivendo
da giovane artista: è grafico, incisore, e poeta. Ma anche narratore: a Parigi
lavora anche al suo primo romanzo. Negli anni precedenti, a Berlino ha maturato
il proprio talento di artista figurativo aggiungendo alla grafica e alla scultura
la scenografia teatrale. E ha scritto anche libretti per coreografie (la
ragazza che sposa è appunto una danzatrice classica) e testi che definisce di teatro
dell’assurdo oppure di teatro poetico, ma prima ancora ha scritto versi e
prose.
E sono proprio le
sue uscite poetiche ad attrarre su di lui l’attenzione di Hans Werner Richter,
che nel 1955 lo invita a una delle letture organizzate dal Gruppo 47, di
cui è a capo. Di qui l’esordio letterario di Günter Grass anche a stampa (presso
un grosso editore) l’anno successivo con un volume di testi poetici e disegni
intitolato Die Vorzüge der Windhühner (I pregi dei gallinacei segnavento),
con probabile allusione allegorica al galletto meteorologico Wetterhahn (lett.
gallo del tempo, ma in italiano detto galletto segnavento) usato frequentemente
nelle campagne prima che si diffondessero le previsioni del tempo ufficiali. Pare
che il venduto annuale sia stato allora ‘soltanto’ di 700 copie. Ad ogni modo è
alle porte lo strepitoso successo, nel 1959, del Tamburo di latta, la
cui pubblicazione ha avuto le medesime premesse critiche: infatti, dopo una apposita lettura, nel
1958 il romanzo si è visto assegnare addirittura il Premio Gruppo 47.
Il tamburo di latta racconta i primi cinque decenni del Novecento tedesco a Danzica, dall’inizio
del secolo alla prima guerra mondiale, al primo dopoguerra, all’avvento del
nazismo, alla seconda guerra mondiale, al secondo dopoguerra, mezzo secolo
quale appare tramite un personaggio inventato dall’autore per essere al
contempo, nel moto irrefrenabile delle cose, un soggetto critico e un oggetto
travolto. Insomma un testimone ma discutibile, forse inaffidabile,
della storia che si verifica davanti suoi occhi, come dirà anni più tardi parlando di se stesso proprio a
partire dal fatto di essere autore di questo romanzo.
Tale protagonista
è Oskar Matzerath, uno strano essere umano che a tre anni d’età ha deciso di
rimanere bambino, di non crescere più fisicamente, al fine di non appartenere
al mondo degli adulti e conservare invece la propria prospettiva infantile
nel giudicare la realtà, ma giudicarla con piena capacità cognitiva, pur
situata questa in un corpo nano appositamente storpiato attraverso un incidente
voluto. Oltre che nano voluto Oskar è però anche un po’ gnomo, giacché sa
descrivere e annunciare persino fatti cui non ha assistito, come ad esempio la
nascita della propria madre, e lo fa picchiando fragoroso sopra un suo
giocattolo, un tamburo di latta. Possiede inoltre la strana capacità di
impressionare la gente infrangendo i vetri con la voce.
Tale favolosa
allegoria narrativa, immersa in un gioco linguistico fortemente figurato, dai
toni liberamente surreali e grotteschi, con cui l’autore intende raccontare,
per così dire, l’osservazione veritiera del vissuto tedesco
nel secolo attuale, fa immediatamente di Grass uno scrittore di peso non
soltanto per il mercato. Tanto che egli sarà indotto, da quel riconoscimento esplicitamente
letterario, a proseguire il lavoro sul tema con altri due libri, il racconto
lungo Gatto e topo (Katz und Maus, 1961) e il romanzo Anni di
cani (Hundejahre, 1963), componendo la cosiddetta Trilogia di
Danzica.
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I libri della cosiddetta Trilogia di Danzica
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Iniziava così oggettivamente
la costruzione di un arco trionfale per Günter Grass artista, ma anche un suo
rapporto complicato con la cultura tedesca a lui contemporanea. Il senso della
sua narrativa, che parlava di una cosa di cui si evitava di parlare, il tempo
del nazismo, rimandava palesemente all’atteggiamento cosiddetto dell’impegno,
e tuttavia soltanto in subordine era un comportamento che si esplicitava come
politico. Il punto d’origine dell’impulso intellettuale, che di questo artista
visivo faceva un’inevitabile scrittore, era uno scatto vitale (le sue
poesie, chiarirà una volta ricordando, nascevano in gioventù da un impulso
spontaneo di dire, mai avrebbe pensato di pubblicarle). Era un agire che
partiva dalla percezione di un vuoto di vita, il quale infatti poteva essere riempito
soltanto tramite una necessaria Geschichtsaufarbeitung (rielaborazione
della storia), tramite un ripensamento ricostruttivo di un rapporto con la realtà
storica trascorsa, la quale avrebbe in verità dovuto fungere da base della vita
presente, mentre invece, così com’era, nebulosa e ambigua, mancava ogni possibilità
di un contatto autentico con essa. Si viveva una vita senza base.
Di questo in
Germania e forse in Europa in vario modo erano in molti a sentire il bisogno.
Solo che Grass prende il problema di petto, anzi vi applica intera la propria risolutezza
creativa. Questo lo fa diventare, nel suo paese, oltre che una figura
letteraria di primo piano, anche e presto una bandiera per l’opinione pubblica
democratica impegnata nella ricerca di una, ricostruttiva, rottura con il
passato. La situazione dunque lo schiera oggettivamente con una parte politica,
cui egli, a un certo punto impegnatosi anche in qualità di cittadino, si affida
in tempi e modi diversi: dal 1982 al 1992 sarà iscritto al Partito
socialdemocratico, dopo aver negli anni Sessanta e Settanta sostenuto
direttamente la persona di Willy Brandt (Cancelliere tedesco dal 1969 al 1974),
offrendosi anche, talora, a funzionare da suo ghost writer. A
prescindere inoltre dalla circostanza, non irrilevante, che gli anni Sessanta e
Settanta sono ovviamente intrisi anche per lui di problemi, fatti e spirito sintetizzabili
come tempo del Sessantotto.
Tutto questo avrà
la sua eco nelle pagine pubblicate da Günter Grass sia come narratore o poeta
che come saggista. Di più, ogni scritto gli si colora facilmente di tensione personale.
Non è soltanto la Trilogia di Danzica a giocare sull’autobiografico. Se si
guarda al complesso della sua scrittura, la cosa salta agli occhi. D’altronde,
– forse per un fenomeno tutto novecentesco, probabilmente dovuto al costituirsi
in Europa della società di massa, – anche una realtà squisitamente collettiva
come la politica si presenta spesso nelle vesti della quotidianità individuale.
Günter Grass è del
tutto consapevole della situazione, anche prima che nel 2006 un suo processo
intimo lo induca a parlare in pubblico del proprio segreto (covato per decenni
«con vergogna crescente»). Nel 1998 infatti pubblica una raccolta di piccole
storie e riflessioni autobiografiche cui dà questo titolo generale: Der
Autor als fragwürdiger Zeuge (L’autore come testimone discutibile). Lo
scrittore è certo un testimone dei suoi scritti e dunque della realtà che lì è verbalizzata,
ma testimone dubbio, discutibile.
Inoltre tale
tropo definitorio era stato già usato da Grass nel 1973 per intestare quel
Versuch in eigener Sache (traduciamo: un ‘saggio’, una esplorazione a
tentoni, quindi vera, nelle proprie faccende), per titolare cioè un autoesame
retrospettivo appunto intorno al Tamburo di latta (e tale ‘saggio’ del
1973 risulta ben presente e centrale nella successiva raccolta del 1998 che
accoglie la formula dell’autore testimone problematico come titolo esplicito,
che lo fa interlocutore ‘discutibile’, per così dire, al di là d’ogni ragionevole
dubbio).
Tale discorso
circa se stesso autore di testi, e dunque intellettuale che parla a un
pubblico, dunque ad altri, si concludeva con tre domande e tre risposte: «Ho
detto tutto? – Più di quanto volessi. Ho taciuto qualcosa d’importante? –
Certamente. Ci sarà un poscritto? – No». Lo scrittore ha verità e mire
più complesse di un autore. Quindi lo scrittore vuole che l’autore,
nella sua relativa autonomia, non dica tutto, lasciandolo nelle péste del
commercio culturale, dove deve risponderne.
Grass infatti ci
dice che questi, l’autore, merita ogni volta di essere ulteriormente
interrogato, perché la sua testimonianza è sempre reticente. Tuttavia la
‘discutibilità’ del testimone per la sua reticenza ha in sé una intrinseca duplicità
semantica, anche se spesso, nel breve del pensiero quotidiano, viene sentita come
mera doppiezza morale. E però l’autore davvero mente? Oppure soltanto
semplifica? Oppure, genuino, intende essere persuasivo, se non addirittura
performativo, e perciò evita le articolazioni, le sottigliezze della verità? E allora la domanda è: va messo in discussione,
va ancora interrogato, perché inaffidabile (come del resto tutti gli
intellettuali figura retorica)? oppure perché ha da dire ancora altro che
non ha potuto ancora dire, qualcosa di importante ancora non bene elaborato
(come tutti gli intellettuali nel loro campo di competenza, cioè qui lo scrittore
nel suo)?
Per Grass lo
scrittore è un autore che ha sempre da dire ancora altro per ora non elaborato,
giacché narrare è analizzare interminabilmente il reale, che si presenta
materia infinita non solo in quanto fenomeno quantitativo, ma prima ancora e
soprattutto come cosa qualitativa, da conoscere nella sua essenza di oggetto
del soggetto uomo. Questo scrittore, che sembra dover lavorare seguendo un
comandamento (magari il verso di Ibsen: «scrivere vuol dire farsi giudice
implacabile di se stessi», ma non sappiamo), nella pratica traduce tale suo
compito-impulso in un’analisi interminabile di sé in quanto parte dell’umanità,
della storia, ma anche in quanto individuo. Cosicché, come già accennato, in
Grass narratore tende perciò a prevalere il momento autobiografico,
dall’iniziale romanzo di formazione, pur sui generis, fino a tutto il
successivo suo narrare che vuol essere uno «scrivere contro le amnesie», intenzionali
e no. In fondo ciò di cui parla viene da lui definito, secondo il titolo di un
suo romanzo, il mio secolo in ambedue i versi del rapporto di appartenenza.
Così, quanto al
problema che l’autore Günter Grass ha creato tacendo la storia
dell’appartenenza adolescenziale alle SS, un episodio in sé abbastanza
irrilevante, che diventa invece caso politico-culturale proprio, ma soltanto,
perché quell’appartenenza viene occultata, anche se «con vergogna», l’autore
non sa nemmeno utilizzare nella polemica giornalistica la circostanza
attenuante offertagli dal prestigioso intellettuale Klaus Wagenbach (il quale
rende pubblica la pagina di un suo diario del 1963 in cui è registrata la
confidenza dell’amico Grass circa tale episodio giovanile). L’autore non
sa agire, perché lo scrittore ha avuto bisogno di trovare prima le
parole per dirlo. La mancanza delle parole rende muti, come si è scoperto
anche in altri contesti.
Ed è un tema,
questo, che presente anche nell’approccio al mondo delle battaglie politiche
che caratterizza lo scrittore quando indossa la divisa dell’intellettuale
impegnato. Le sue parole hanno spesso qualcosa di impolitico.
Un esempio
esplicito sarà la sua partecipazione al sindacato degli scrittori. Nel 1969 partecipa
insieme a Heinrich Böll, Martin Walser e altri alla fondazione del VS (Verband
deutcher Schriftsteller, Federazione degli scrittori tedeschi, che non può far
sua la sigla completa VDS per non confondersi con il già esistente VDS del
movimento studentesco). In esso si unificano le precedenti associazioni dei
traduttori, dei critici e appunto degli scrittori tramite un congresso in cui
Böll sostiene che occorre essere uniti al massimo grado, per trattare, aldilà
di ogni idealismo, da posizioni di forza con le controparti, i gestori di tutte
le imprese culturali: gli editori e i direttori di riviste, giornali, teatri,
mentre Martin Walser poco dopo propone di fondare un unico Sindacato Cultura.
Da allora a oggi, l’idea che unità faccia forza ha condotto infine al ver.di (Vereinte
Dienstleistungsgewerkschaft), al Sindacato unificato dei Servizi (sottinteso
della comunicazione), con la motivazione che occorra reagire organizzati alla
impetuosa avanzata della società della comunicazione e dell’informazione.
Il percorso di
Grass all’interno di tale processo politico è del tutto personale. Lungo gli
anni Settanta è preso dalla politica in quanto politica e si dedica piuttosto a
collaborare dall’esterno, posizionato genericamente alla sinistra del centro,
con la socialdemocrazia. Negli anni Ottanta invece, accanto alla iscrizione
ufficiale al Partito socialdemocratico, si dedica di più anche al sindacato
per, nel 1984, tramite il cosiddetto “gruppo berlinese” (Günter Grass, Heinrich
Böll, il giovane Friedrich Christian Delius e altri), contestarne la politica
del presidente, Bernt Engelmann, secondo il gruppo troppo condiscendente verso
la Germania orientale nella prospettiva fallace di arrivare a una politica di
pace pantedesca. Nei documenti della Repubblica democratica tedesca il gruppo
veniva indicato come “le forze di destra”. D’altronde va ricordato che nel
1989, al momento del crollo della Repubblica democratica tedesca, Grass si
pronuncerà per una persistenza separata di quello Stato, ritenendo pericoloso
in Europa ogni fenomeno che si presentasse come pantedesco.
Nel 1987 accetta
la presidenza del VS, ma l’anno successivo si dimette per produrre una
scissione di protesta contro il rifiuto da parte della DGB, la Confederazione
generale dei sindacati tedeschi, di discutere la formazione, nel proprio
ambito, di uno specifico Sindacato degli Autori, perché ha deciso al contrario
di sussumere questo tipo di lavoratori al sindacato dei Media (IG Medien). Più
tardi si avrà, come detto, un ulteriore processo unificatorio nei Servizi.
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Günter Grass (a destra) nel 1968, durante un incontro letterario
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Che l’eredità di
Günter Grass sia la persuasione di un’autonomia della cultura, se non di un suo
primato strutturale cui anche la politica ha la necessità di subordinarsi, pena
la catastrofe storica, soprattutto nella società contemporanea, la società di
massa, e dunque che lavorare a una cultura concretamente all’altezza dei
bisogni della contemporaneità sia un compito decisivo
dell’intellettuale-artista, è alla fine documentato da due suoi gesti non
recentissimi ma purtroppo ancora attuali.
Nel 2012 egli, a
distanza di pochi giorni una dall’altra, pubblica su un quotidiano due poesie
di argomento esplicitamente politico. Ogni aura è andata a farsi benedire. Due,
diremmo qui in Italia citando Pasolini, scritti corsari: il primo, intitolato Quello
che deve essere detto (Was gesagt werden muss), è un fervido
ragionare contro la pretesa di Israele di affidare la propria esistenza al possesso
dell’arma atomica e non invece cercare sicurezza nel, diciamo, concorso paritario
fra le culture e politiche presenti in quella zona del mondo, in una visione di
ordine mondiale. L’altro, intitolato Lo sconcio di Europa (Europas
Schande) è una invettiva contro l’Europa accusata di guardare alla Grecia
come a un disastro economico e non come alla madre della cultura europea, colei
che ha concepito l’anima di questo continente, una madre da curare nel bisogno.
È, scritto in
versi non sempre armoniosi, tradotto in immagini talora stente, un messaggio
ultimo che sintetizza quanto lo scrittore Günter Grass ha saputo dire con
l’intero suo percorso letterario alla nostra terra europea.
Neppure la
migliore Realpolitik e tantomeno
il mero gioco economico chiuso in sé sono oggi sufficienti a governare la
società umana nelle dimensioni e prospettive che essa ha raggiunto. La cultura
in generale e il lavoro letterario in particolare hanno qui e ora il dovere di
dire le cose che la politica e l’economia da sole non sanno dire.
Alla terribilità
delle esperienze storiche che la coscienza degli uomini non voleva sapere,
perché non aveva le parole per dire il male, ora si sostituisce il non-detto
quotidiano nella distrazione degli occhi che amano il gradevole, nella moralità
della psiche che ama l’ignoto, nell’energia della chiacchiera che ama l’evento
scoppiettante, l’anima europea non vuole sapere, perché non ha tempo, con la
vita che urge.
In verità, dice
Grass, l’uomo europeo non sa più di avere un’anima, ha dimenticato che la madre
Grecia gliel’ha inventata, l’ha
dimenticato e così può contentarsi di gesti. Va, senza anima, in Grecia a
portare guerra e crede che mettere un libro di poesie nello zaino lo trasformi
in portatore di cultura. Il compito dello scrittore è però proprio questo, scrivere
quanto è necessario per tenere in vita il mondo, fornire le parole per dire quello
che deve essere detto: quella non è poesia, è guerra, è male. La poesia, la
letteratura ha il compito di trovare le parole per dire che l’uomo, oggi più
che mai, ha da governare il possibile, non semplicemente il reale.
Günter Grass ha
trovato le parole per dirlo in Germania nel secondo Novecento: l’intellettuale
artista, lo scrittore non deve fare politica e tantomeno economia, deve parlare
loro. Questo sapere è il grande lascito di un grande scrittore per noi.