LUOGO COMUNE
GIULIO FERRONI
Per maestri e allievi un terreno comune di ‘resistenza didattica’


      
Il noto critico letterario romano ha da poco pubblicato uno stimolante pamphlet “La scuola impossibile”, in cui ragiona sullo stato dell’istruzione pubblica e sui modi atti a ripensarla e a riformarla, come condizione essenziale per lo sviluppo della democrazia e della vita civile nel nostro paese. Meditata convinzione dello studioso è che “il destino della scuola è legato alla passione degli insegnanti”.
      



      

di Alberto Scarponi

 

La scoperta della scuola necessaria

 

Un irenico passaggio culturale tra le generazioni forse è sempre stato impossibile nella nostra storia di europei. Qui succede così: grosso modo ogni vent’anni, i padri vengono soppressi (simbolicamente) e i figli – a fare ora come al tempo loro i loro padri hanno fatto con i loro di padri – s’inventano di essere gli inventori del Nuovo.

Giulio Ferroni sembra voler sostenere proprio questa tesi. Almeno stando al titolo del suo polemico libello, La scuola impossibile (Roma, Salerno Editrice, 2015, pp. 124, € 9,90), ma anche stando a come lo scritto si conclude (con un accenno, un po’ ironico e un po’ no, alla storia di san Cassiano, divenuto protettore religioso dei ‘maestri’ perché sembra che, approfittando di una persecuzione, i suoi allievi lo abbiano martirizzato a colpi di calami e tavolette).

Oggi saremmo dunque nel corso di uno di tali fenomeni storici. A meno che qualcuno di noi non dica di no e riesca a cambiare la tradizione. Questo si rivela, in realtà, andando avanti nella lettura, il vero progetto del pamphlet. Ma come? Beh, occorrerebbe innanzi tutto non sopprimere il padre in figura di ‘maestro’ ponendolo, come si sta facendo, nelle condizioni oggi addirittura storiche  che semplicemente lo riducono alla impossibilità di essere. Tanto per accennare a uno dei progetti: le vuote tre i di inglese, impresa, internet, che basterebbero a formare oggi il cittadino modello.

Al contrario, Ferroni nel tempo sempre più si è «andato convincendo che il destino della scuola è legato alla passione degli insegnanti».

Oddio, davanti alla parola passione (anche a non voler equivocare, trattandosi di santi) al lettore vengono piuttosto in mente gli esauriti amori d’una volta da ‘due cuori e una capanna’, cui oggi, divenuta la capanna ormai una lurida baracca fra repellenti topi, nemmeno i nostri adolescenti, ormai così igienici, pur se avventurosi e smart, si acconcerebbero. 







E infatti, quanto ai docenti, al di là del colore locale, dell’immediata cronaca televisiva, in realtà «le ragioni più profonde del loro malessere si collocano tra le derive della società contemporanea, tra tutto ciò che ostacola il sapere autentico e blocca all’origine il sorgere della passione culturale». Il punto che rende dunque parecchio interessante la polemica di Ferroni è precisamente il suo uso della fenomenologia sociologica per andare, diciamo, all’essenza del problema. 

Essenza che sta appunto nella figura del docente. Questi risulta centrale nel progetto scolastico (sempre: dalle elementari fino all’università e oltre), ma non in quanto addetto di una categoria funzionale entro un modello organizzativo più o meno efficiente, con tutto il suo ovvio corredo di competenze, tecnologie, forme e quant’altro. Questo è l’aspetto corporativo della situazione, non la cosa, come agisce nella realtà. Se ci si ferma al corporativo, la sostanza resta sottaciuta, anzi risulta incontrollata.

Infatti, la scuola oggi, tra l’altro nella cosiddetta società di massa, è il tempo di vita (dieci-venti anni) e il luogo sociale dove si svolge di fatto il passaggio storico tra le generazioni. Il terreno fondativo dunque del suo lavoro dovrebbe essere tematizzato come «l’ipotesi di società» (p. 18) da sperimentare tramite lo sviluppo delle varie competenze selezionate nelle scelte individuali. O almeno, più in piccolo, come una qualche idea circa «il destino del proprio paese» (p. 8), dati tali futuri cittadini.

Come sempre nella pratica operativa, nel lavoro, quale che sia l’oggetto, è il fine a stabilire i mezzi e, viceversa, i mezzi, una volta scelti, stabiliscono il risultato.

Di qui a cascata gli argomenti del pamphlet contro l’inconcludente retorica riformistica di questi decenni e ministeri, immersi senza bussola nel mare delle statistiche, dei test, delle tendenze, dei parametri, delle terminologie (parole) innovatrici. In verità un tutto invece sempre più burocratizzante, e in cerca comunque, un po’ alla disperata, dei saperi ‘spendibili’ nell’economia, tra grandi disillusioni ideali.

E allora, al cospetto delle durezze della realtà indecifrata, ecco l’affidarsi radioso, radiante, alla pedagogia ‘postdemocratica’ del multimediale, svettante tra i valori cosiddetti concreti (segno di anti-intellettualismo) del consumo (segno di democrazia e dinamica), della tecnologia (segno di futuro e libertà), dell’informazione (segno di spirito critico e responsabile), della conoscenza (segno di posto di lavoro), da cui sarebbe dovuta sorgere una scuola macchina-funzionante-con-geometrica-precisione.

Una scuola in pratica senza una propria cultura, dunque priva di argomenti davanti al tempestoso tracimare dell’economia fuori dagli argini di competenza. Per forza di cose i suoi docenti – arroccati in una amara, autocompensativa, retorica di sé – vivono di fatto una vita ingabbiata dentro l’efficientismo stralunato degli scatti, dei crediti, delle qualificazioni e formazioni e retribuzioni, come all’interno di un fortino burocratico assaltato all’esterno dal potente conformismo culturale del cittadino narciso (io valgo) che, privo di impacci contenutistici, si specchia nelle derive della società, società spettacolo fatto di ritmi tv, di figure alla moda, di talenti senza ma, di successi comecchessia, di campionati d’ogni sorta, di velocità stratosferica, di rivoluzioni performance, di knowhow geniale, di stars al potere, di nativi digitali, di trasgressioni e sbandi a programma, da cui essa, la scuola imburocratichita, pensa di distinguersi proponendo, improbabile, talune invece conquiste: la bella fatica del lavoro per sapere, per acquisire contenuti, per elaborare coscienza, per essere se stessi, per vivere di parità, di complicatezza, di concreto spirito critico e, spaventoso, di senso della libertà.





Giulio Ferroni (ph. Dino Ignani)


Cosicché il discorso di Giulio Ferroni non nega i buoni propositi odierni della Buona Scuola. Afferma però di fatto che una eventuale macchina scolastica efficiente, e non scardinata come fino a ora, di per sé non affronterà il rebus davanti a cui ogni docente finisce per trovarsi, cioè: come istruire senza anche educare, senza anche produrre una cultura?

In Italia con la fine dello Stato totalitario, fascista, l’insegnamento pubblico, da impositiva «educazione nazionale», si trasformò in neutra «istruzione» che lasciava alle famiglie, al privato, la libertà di «formare», di dotare di una «cultura», le menti dei giovani. Come sempre la politica, che è di per sé temporanea soluzione di problemi, si mosse secondo l’ideologia disponibile. Nel caso in questione, fu la volontà liberale di lasciare a ciascuno il suo (al ricco la ricchezza al povero la povertà con le rispettive culture). Di qui poi – per restare al tema – la democratizzante ribellione antinozionistica degli studenti negli anni Sessanta, che rivendicava invece proprio un antiliberale insegnamento per così dire «acculturato».

Solo che poi, negli anni Ottanta e in seguito anche lungo il primo decennio del nuovo millennio, la società post ha spostato il luogo della cultura dal sociale, quindi dal privato, dov’era sempre stata dopo il medioevo, nel pubblico statale (però privatizzato dall’economia). Ed ecco così la scuola con i suoi docenti immersa nella crisi. Non ha saputo più che fare: non l’antidemocratico, oppressivo, nozionismo dell’istruzione neutra, non l’aggressiva, militarizzante, educazione antiliberale, non l’anticultura della privatizzazione economica del pubblico. Nulla.

In verità, teoricamente lo studente, in tutti i suoi gradi scolastici, non sarebbe altro che un individuo cui trasmettere democraticamente, senza discriminazioni, il modo di apprendere «la sintassi del pensiero e del linguaggio» (Ceserani), in quanto soggetto in costruzione (cioè tendente a farsi «proprietario della parola e dell’esperienza») che per questo, nella società attuale, avrebbe bisogno di sottrarsi alla massa anonima, alla «folla degli automi algoritmici» (Morozov), recuperando invece le funzionalità del pensiero sequenziale e dunque il senso di sé.

Nel dramma contemporaneo Ferroni ritrova concretamente, per tale via, sia il personaggio del maestro che il personaggio dell’allievo, ambedue comprimari di un’atto drammatico di resistenza didattica contro «il totalitarismo informatico e il normativismo pedagogistico». Ed ecco dunque il maestro che rivela di sapere qual è la sua mossa, raggiungere «il desiderio di insegnare», e l’allievo la sua: raggiungere «il desiderio di sapere».

Terreno comune: la democrazia, la vita civile, dove è necessario metodologicamente saper argomentare e saper narrare. Improvvisa torna a farsi viva e necessaria la cosiddetta funzione intellettuale: saper argomentare e saper narrare. Il maestro, proprio nel tempo della globalizzazione massificante, sa che «la disposizione argomentativa, lo sviluppo ragionato del pensiero e la sua stessa narrabilità» sono mezzi di costruzione della vita civile, dunque sono mezzi necessari (alla sopravvivenza del genere umano).  

 




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