SPAZIO LIBERO
ADDII
La squisita luce artistica
di Luigi Boille


      
Un ricordo del pittore friulano nato a Pordenone nel 1926 e morto a Roma lo scorso aprile. Un importante protagonista della scena pittorica internazionale, negli ultimi anni colpevolmente ignorato e dimenticato in Italia, anche a causa della sua rigorosa indipendenza creativa. Nella sua opera si manifestava un’astrazione barocca in cui l’ingresso nel ‘vortice’ diventava esplorazione delle strutture dello spazio frantumate in pulviscoli luminosi. Secondo un gioco mai identico o ripetuto e colto piuttosto nel suo continuo divenire.
      



      

di Piero Sanavio





Luigi Boille, Spazio spirituale, 1966, olio su tela, cm. 300x180


Scommise tutto, subito, sulla pittura, lasciando Roma per Parigi giovanissimo (era il 1950),  all’indomani della laurea in architettura. Nella città sulla Senna trovò ciò che già aveva scoperto da sé e sarebbe stato chiamato “informale.” E tuttavia per la sua arte l’etichetta è, forse, un’approssimazione anche se è a quel gruppo e alla Jeune Ecole de Paris che verrà assimilato. Tutt’altre dai contemporanei francesi, comunque, le origini della sua arte. Apparteneva a una cultura nata dallo stratificarsi di civiltà nordiche e adriatiche e dove la realtà percepibile tuttora si manifesta come un conglomerato di allucinazioni, sogni, terrori, ed è quella la sua storia. Non gli occorrevano stimoli artificiali, o rifarsi alla psicanalisi, per connettersi con quel vissuto, Johann H. Füssli, emotivamente, uno dei remoti padri.

 

La luce – la sue possibilità cromatiche, le sue implicazioni formali, questa la cifra di Luigi Boille. Se ne  accorse  Cesare Vivaldi  e nella presentazione di una mostra dell’artista alla Galleria Giulia di Roma, primavera del 1986, avrebbe parlato di “segnali luminosi” che “con  violento moto impulsivo” attiravano dentro di sé “tutte le energie interne ed esterne allo spazio fisico dell’opera”. Era come se, in ogni tela, fosse rivissuto il trauma della nascita, l’affacciarsi dal magma materno all’impatto e prima percezione del vuoto. È  una pagina di Jack London che torna alla memoria, la nascita di Zanna Bianca nel romanzo eponimo.  Nell’oscurità della caverna dove è partorito, al lupacchiotto che diventerà amico dell’uomo il mondo esterno appare come una quarta  parete con segni che via via dovrà imparare a decodificare.

 

“Colore-materia”, nelle tele di Boille, il rapporto non di rado rovesciato: in tessiture materiche  dove il linguaggio cromatico è sempre definizione di valori mentali. Potremmo anche parlare di un’equazione “spazio-luce” – i due elementi percepiti come vortici interconnessi e nessun stupore, perciò, se tra le opere di Boille si troverà il saluto a uno degli ispiratori del Vorticismo, l’“Omaggio a Ezra Pound” –   sette litografie per sette  composizioni del poeta americano in tiratura di pochi esemplari per una galleria di Rapallo, maggio 1971.





Luigi Boille (1926-2015) ritratto nel suo studio nel 2010


Fu l’autorità del leggendario Michel Tapié ad apparentarlo agli informali – osservando come, coscientemente o meno,  l’avventura dell’avanguardia pittorica fosse consistita in un “mutamento di potenza” della nozione di spazio artistico dopo che una certa concezione dell’astrattismo era arrivata ormai al suo esaurimento. In Boille c’era il nuovo e, in opere come “Lueur enchevêtrées” e “Rythmes acerbes” (1967),  il critico scopriva un’esplorazione delle strutture topologiche degli spazi astratti non dissimile dalle teorizzazioni, elaborate attorno  al 1906, dal matematico  Maurice René Fréchet. Anche da ricerche personalissime, però, e sulla linea di soggettive antiche memorie, che (ancora!) procedeva  Boille – orientandosi verso un’astrazione barocca dove l’ingresso nel “vortice” diventava esplorazione delle strutture dello spazio frantumate in pulviscoli di luce.  Un rigore, al tempo stesso un’invenzione per nuove, illimitate possibilità. Sempre più decisamente  i colori gli permetteranno l’espansione dell’ambito pittorico, la struttura mai identica o ripetuta e colta piuttosto nel suo continuo divenire.

 

Di quest’operare, e di questo maestro che, in vita,  non esitò ad affrontare il rischio della povertà pur di perseguire con rigore la sua arte, dolorosamente sentiamo l’assenza. Né basta, a confortarci, nel vuoto che ha lasciato, il ricordo dell’amicizia. Ci accompagna semmai, nel dolore per la morte, l’amarezza che questo importante protagonista dell’avventura pittorica internazionale, che nel 1964, con Fontana, Capogrossi e Castellani, rappresentò l’Italia al Guggenheim International Award di New York dopo aver partecipato con il gruppo Gutai all’ormai mitico International Festival Osaka-Tokyo organizzato da Michel Tapié (nonché, sempre fuori d’Italia, ad altre importanti rassegne), non abbia mai ottenuto il giusto riconoscimento nel nostro paese. Nessuna mostra in luoghi istituzionali per lui e occasionale anche l’attenzione critica di Argan e Lionello Venturi.

 

L’impressione, spiacevole, è che, soprattutto gli ultimi anni che visse, Luigi Boille sia stato ingiustamente, colpevolmente, ignorato. Fu l’italico scotto per un’orgogliosa indipendenza da mode, partiti, salotti, una totale dedizione al lavoro, un’intransigente onestà.





Luigi Boille, Senza titolo, 1960





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