di Alberto Scarponi
domenica
Comincia che sono qui, ancora a
Roma, e leggo un libro. I fiori blu
di Queneau.
Dice: tradotto da Calvino. In
verità è rifatto, esplicitamente. Calvino spiega in appendice che era
complicato tradurlo, perché Queneau aveva inventato tutto, dai nomi artefatti e
allusivi (a volte citano, a volte sono nomi parlanti), alle situazioni (pour cause, viene da dire) surreali. In
questo caso tradurre significava reinventare tutto in italiano, anche i nomi...
E spiega le cose con l’aria imbarazzata di chi vuole scusarsi per essersi
trovato a dover inventare troppo... Come non sapesse che tradurre è sempre
riscrivere. E cos’è riscrivere se non reinventare? E cos’è inventare se non
trovare (ciò che finora non s’era trovato)?
Lascio andare e continuo a leggere.
È che partiremo fra tre giorni e prima voglio finire il libro.
Così mi trovo a leggere di un
guardiano che carica una pipa profferendo
distrattamente frasi di un certo tipo... Lì per lì non capisco: è un refuso?
oppure anche in francese è possibile questo gioco di parole per cui delle frasi
possono essere proferite come profferta di un certo tipo di dialogo? o invece è
un’invenzione sottile del traduttore per ridare appunto un senso altrimenti
costruito dall’autore francese?
Mah!
Desolato, ricordo che ieri, una
pagina prima, avendo trovato che il protagonista avrebbe potuto andare a letto, mi sono rifiutato di star lì a
perdere tempo con queste minuzie. L’ho chiusa lì, ho interrotto la lettura per
pensare a cose pratiche.
Solo che le cose pratiche sono
anche taluni preparativi per la partenza e non riesco ad evitare l’accostamento
del nostro volo, fra tre giorni, con quello malaugurato dell’aereo tedesco che
qualche giorno fa s’è fracassato sulle montagne francesi a causa d’un copilota
narciso triste fino alla follia.
C’è un nesso?
Ed è che minuzie trascurate... da
un medico, da un manager... da addetti a quel lavoro intellettuale diffuso che
oggi è responsabile del buon andamento della società... minuzie hanno influito
sul prodursi di una catastrofe di centocinquanta vite?
Non era che da tre o quattro secoli
eravamo entrati nel tempo della precisione?
Ora la virtù dell’azione in sé, la
felice persuasività dell’atto performativo, ha di nuovo cambiato tutto?
Siamo tornati alla bella
schiettezza, all’immediatezza cosmica del medioevo tutto fede e destino (e
santi benedetti) (oppure Tanato)?
Nel frattempo mi càpita di leggere
che la nioque di Francis Ponge (lì
per lì uno dice: la gnocca del ventennio semi beota appena trascorso?) non è
altro che una pre-sessantottina proposta di scrittura antipoetica, da Ponge allegorizzata nella scrittura invece fonetica della parola conoscenza (ma un po’ contortamente,
essendo prima risalito a un supposto grecizzante gnoque da gnosi).
Lo spirito delle movenze
sessantottesche starebbe dunque nell’antipoetico,
nel senso di farla finita con le seduzioni e gli infingimenti della
poesia-parola per andare diretti alla cosa-cosa. Si tratterebbe dunque (come
dice un commentatore) del Partito preso
delle cose, volume che Ponge pubblica già nel 1942, trovandosi sul sentiero
tracciato da Rimbaud quando aveva detto di aspirare a una «poesia oggettiva».
Mi trovo davanti questo tema per
merito di Marco Giovenale, di cui da tempo seguo le mosse, le mosse che vedo,
senza capirle. Ed ecco che ora egli scrive con chiarezza: «A partire dalle
posizioni testuali e critiche di Jean-Marie Gleize e delle rivista Nioques».
Posizioni che Gleize propone come
«una specie di programma aperto per quanti si pongono il compito di ‘uscire’ in
maniera permanente e di esplorare un dopo-la-poesia
che utilizzi tutti i mezzi della ‘prosa in prosa (in prose)’, oltre ogni
pretesa estetica e puntando al contrario ad alcuni effetti di conoscenza del
mondo, del ‘mistero ambiente’ come diceva Ponge...»
Dunque a partire dalle posizioni di
Gleize e di Nioques, «come del gruppo
di Questions Théoriques, ma prima
ancora dal lavoro di uno degli autori che potremmo pensare alle origini di un
cambio di paradigma, e che può essere considerato un maestro per più
generazioni di ‘postpoeti’: Denis Roche», si perviene a una volontà di poesia,
precisa Marco Giovenale, come «scrittura littérale,
piana, non assertiva», che si trova «in posizione diametralmente opposta
rispetto a qualsiasi ritorno a formule di tipo espressionista».
A me sembra tuttavia che il bisogno di reale che ha oggi l’uomo, e
dunque di dire il reale prima di agirlo, se è di questo che si tratta,
non possa venir confuso con il rifiuto della poesia verbigerante confusa con
l’oratoria manipolativa (e dunque – forzando, ma si fa per dire – con la
pubblicità o la canzonetta: che pure posseggono un loro appropriato e legittimo
statuto retorico, una loro circoscritta bellezza e verità).
La poesia in realtà oggi, mi pare
di capire guardando il mondo, è piuttosto fortemente interrogata dalla
incalcolabile e sterminata (e anche indeterminata) rivoluzione del reale umano
che stiamo vivendo. Ha dunque davanti a sé una sfida esistenziale cui non
dovrebbe poter rispondere lasciando ad altri il compito suo. Infatti: ad altri
chi? Che cosa sarebbe ciò che risponde a tale bisogno di verità, di scoperta, di invenzione,
se non la poesia che, nella piena coscienza di sé, fa deontologicamente il suo lavoro?
lunedì
Quanti problemi per chi si accinge
a scrivere oggi!... Mah, credo però che sia sempre stato così, consapevolmente
o no.
primo
aprile
Sull’aereo più o meno un centinaio
di persone che da Roma vanno a Budapest. A occhio (e orecchio) pare che siano
tutti italiani. La statistica dirà altro, ma il mio gioco mentale è che Roma
voglia fare un pesce d’aprile a Budapest scaricandosi tutta lì, sopra il
Danubio, con questa e con altre ondate aeree.
Comunque nessuno dei miei aerei
consorti qui associa questo volo con quello finito male altrove (ammesso che
oggi altrove non sia poi qui, proprio in virtù di queste faccende di diciamo
comunicazione svelta, insomma smart).
Chiacchierano paciosi, osservano le nuvole ad altezza d’uomo, leggono bestsellers (o anche solo qualcosa di seller, da fatturato, ma, va da sé,
comunque da viaggio), ricordano cose, rifiutano le offerte poliglotte di stewards and hostess i quali (e le
quali) intanto, scorrendo inutili lungo la corsia, s’intrattengono,
ragionevoli, fra colleghi su fatti loro.
Io ritengo di dover credere che stewards and hostess vadano così
elaborando la frustrazione di quelle ridicolizzanti recite apotropaiche,
ripetute prima d’ogni volo, circa punti di fuga e gesti portafortuna in caso le
cose, qui, vadano storte. Brutto sarebbe, per loro ma anche per me, se mi
abbandonassi a presumere che, in questa come nelle altre sette-otto situazioni
che la vita disegna ogni giorno per stewards
and hostess come per tutti, essi (ed esse), senza star lì troppo a pensare,
recitino soltanto, sordi e atoni (sorde e atone), lungo la stereotipata schizofrenia
quotidiana di un monocorde si fa così.
Atterraggio. Grigio. Pioviccica.
Infastidisce la scarpinata umida
dalla pista al terminal.
Ti devono per forza far notare che
il tuo è un volo low cost.
Il taxi invece procede spedito nel
gran traffico serale e tu senti che Budapest, come ogni analogo hub dell’esistenza, a quest’ora è
compiaciuta di presentarsi capitale e dunque appunto nodo di vita, motore
acceso, un gran luogo, dove si
elabora e decide.
Per le strade scorrono e corrono
auto, autobus e tram, ma non tutti i fruitori di quei mezzi intendono volgere
verso qualche loro serale intimità. C’è ancora da fare, prima che la giornata
si esaurisca.
Al centro, però, il traffico ha un
intoppo, circa all’altezza dell’Oktogon.
Si chiama così la piazza ottagonale
più o meno a metà del nagykörút cioè
del grand boulevard che, cambiando
continuamente nome, attraversa l’intero centro di Pest, insomma dell’intera
città, per terminare infine dove comincia l’Isola Margherita. Come dire che
termina con il ponte che fa da confine tra Pest e le colline di Buda.
In onore dei costruttori
dell’Ungheria moderna, ovverosia Maria Teresa d’Austria (d’Austria sì, questo
il cognome, ma di quel paese lei era solo Arciduchessa, seppure regnante,
mentre d’Ungheria era ‘Re Apostolico’, non so se mi spiego, in aggiunta poi era
anche Regina regnante di Boemia, Regina regnante di Croazia e Regina regnante
di Slavonia, Duchessa regnante di Parma, Duchessa regnante di Piacenza, Duca di
Milano, Duca di Mantova, infine Granduchessa consorte di Toscana e Imperatrice,
purtroppo consorte, perché il poco illuministico Sacro Romano Impero non
ammetteva donne regnanti e bisognava arrangiarsi con le forme giuridiche a
disposizione... come dire: fatta la legge, trovato l’inganno...).
Il costruttore seguente
dell’Ungheria (moderna) poi è stato suo figlio Giuseppe II. Per cui appunto il grand boulevard budapestino (inventato
quando è stata inventata a città, vale a dire nel secondo ottocento, quando
Parigi era Parigi) ha nome József körút da un lato, Teréz körút nel tratto più
centrale e infine nell’altro lato, in onore dell’originario santo Stefano,
primo re ungherese cattolico, viene a chiamarsi Szent István körút. Alla fine
del quale, il boulevard poi sfocia,
come detto, nel Margit hid, ponte sul Danubio dove, nel fiume naturalmente,
inizia a sua volta la Margit sziget, l’isola che nel Duecento ospitò, da
monaca, una principessa reale di nome Margherita.
Tale monaca rimase a lungo beata.
Poi però Pio XII la santificò, nel 1943 la innalzò alla gloria degli altari.
Non so se abbia un significato che nel pieno, anzi – dopo Stalingrado –
all’apice di quella guerra e allo snodo di tutto, con i gran pensieri che aveva
per la testa, il papa trovasse invece il tempo di dedicarsi a una faccenda in
fondo opzionale, dato che il relativo processo canonico di santificazione
durava da secoli – leggo, in wikipedia,
dal 1271 – e non era bastata ad accelerarlo, il processo, neppure la
circostanza che, pare, Margherita d’Ungheria fosse una delle voci occulte di Giovanna d’Arco nel
1425.
Né so d’altronde se abbia un
significato, poi, che oggi tale spazio valga, e non solo per le agenzie di
viaggio ma di fatto, come l’attuale Woodstock europea, cioè come il luogo autentico di una lunga kermesse
agostana, pop, folk, blues e soprattutto rock, per giovani liberati non-stop
per un mese in una sorta di annuale island
of freedom. Boh!
Dunque grosso modo all’Oktogon un
ingorgo.
C’è un ingorgo nel senso che le
auto private sono in fila e stop, anche se resta ancora libero un margine
stradale per i bus e i taxi.
Il nostro taxi scorre, infatti, ma
il tassista ci avverte subito che durerà poco, al massimo fino all’inizio di
Szent István körút, cioè – almeno così capisco io – all’altezza della Stazione
dell’Ovest (ohé, qui alla Nyugati pályaudvar ci ha messo le mani temporibus illis perfino Eiffel, sì
quello, quello di Parigi, quello della torre).
Perché?
Beh, a far imbottigliare il
traffico sono i lavori per il rinnovo delle rotaie tranviarie lungo tutto il grand boulevard, addirittura anche oltre il ponte Margherita e, una volta a Buda, fino
a piazza Mosca.
Il tassista non sembra convinto
della cosa, dei lavori, ma fa un gesto come a dire tant’è. Comunque lui, come tutti i tassisti, con i tempi del
destino, naviga nel traffico fino a destinazione.
Insomma tutto il mondo è paese. Mi
ritorna il ricordo, con un brivido, di come l’anno scorso, una volta che avevo
preso la macchina per fare presto perché ero in ritardo, io sia finito
imbottigliato dentro il traffico del centro romano, intorno a piazza Colonna,
tanto che, depresso, mi ero convinto di non venirne più fuori, se non con
l’aiuto della forza pubblica.
In quell’occasione, per salvarmi
l’anima, ho voluto pensare che ciò fosse: una teorica claustrofobia, della vita
allegoria e dunque così sia.
Sì: le canzonette, le rime,
servono, sono una spinta verso il poetico,
che è il reale reale, il multipiano delle cose, il loro essere complesso, che
sta lì invisibile o almeno astruso, occultato dietro la banalità piatta e
sbrigativa dell’emotivo quotidiano.
Solo che queste strade, qui a me,
fanno sempre un certo che. Questi viali budapestini sono il percorso di uno dei
cortei, credo quello principale, di quel giorno di fine ottobre 1956 in cui la
gente andò al palazzo del parlamento per contestare il governo, dando inizio a
quella celebre ribellione popolare contro il potere comunista così com’era... o
contro il potere comunista comunque?... o contro il potere cattivo?... o contro
il potere in sé?... ma, insomma, per che cosa?
Resta che in fondo ogni potere ha
oggi un potentissimo nemico potenziale: la vita quotidiana delle
persone...
giovedì
Invito al Teatro dell’Opera. È
Pasqua e dànno La passione secondo
Giovanni di Johann Sebastian Bach. P. ha i biglietti per sabato.
Io in generale non sono attratto
dalla musica severa delle cantate, non l’ascolto volentieri, è quasi
salmodiante ma senza l’umiltà esplicita, autentica, della salmodia, e meno che
meno ascolto volentieri la musica cantata in tedesco, dove le parole non hanno
anche una loro melodia, sono soltanto, mi sembra, rude occasione concettuale.
Questo a mio gusto, naturalmente.
Inoltre c’è quest’altro fatto della
teatralizzazione. Forse perché le cose austere mi sembrano alludere a una loro
verità più schietta di quanto non appaia al primo contatto e dunque sempre, per
principio, l’ambientazione, quanto più cerca di farsi valere tanto più, la
senti non sufficiente, ti lascia il senso di un che di mancato per abuso.
Comunque non dico di no. P. d’altra
parte, oltre ad essere una persona con cui sto volentieri, vuol essere
persuasivo. Argomenta che la novità di questa edizione budapestina è la
messinscena: l’esecuzione sarà (giustappunto!) teatralizzata dalle coreografie
di un balletto all’interno di una scenografia operistica...
venerdì
Nei giorni trascorsi ci siamo
arrangiati a fare le compere qui nel quartiere, oggi però finalmente andiamo a
piazza Mosca, per rifornimenti più consoni alla nostra cucina. Potremmo anche
andare al Westend della Stazione
Ovest, che in fondo sta più vicino, ma è un supermercato compra e scappa, a noi
non piace. Comunque la ragione vera è
che non hanno niente (nel senso,
credo, che non hanno i buoni beni bio).
Invece la passeggiata fino a
Moszkva tér per me è assai gradevole: percorso l’ultimo tratto di Szent István
körút, attraversi il ponte e, una volta sul territorio di Buda, ti fai l’intero
Margit körút alla fine del quale sulla grande piazza (che tuttavia troveremo un
po’ scombussolata da lavori stradali) regnano maestosi i due edifici Mammut, in
uno dei quali, quello con davanti la statua di un mammut (piccolo e perciò
giustamente un po’ stralunato, come, mi pare, sempre i mammut in condizioni di
civiltà), c’è dentro, al secondo piano, un settore prezioso, ad angolo, formato
da un negozio di alimentari italiani e da due negozi biologici, uno di prodotti
europei in confezione e uno di frutta e verdura fresca più o meno indigena,
però con un’esibita aria strapaesana. È un po’ più caro, ma insomma.
Il problema nasce dopo, quando,
borse bisacce e buste stracolme, vorremmo ovviamente evitare la faticaccia del
ritorno a piedi.
Ai tempi beati del prima,
prendevamo tranquilli il tram, giusto quattro fermate (posso sbagliare, non le
ho mai contate), poi alla fine del ponte e all’inizio di Szent István körút
scendevamo e avevamo solo da scegliere se intraprendere le vie interne del
quartiere o fare il giro esterno, più o meno lungo uguale, passeggiando per un
tratto davanti alla facciata belle époque
del Vigszínház ovvero il Teatro Comico.
Oggetto urbano che a me sta
simpatico anche perché vi hanno sistemato davanti a gloria, con mia sorpresa,
anche un busto di Sándor Petőfi, che – ma io non so quasi niente in
proposito – ignoravo fosse un autore teatrale... Epperò da questo poeta ragazzo,
morto a ventisei anni, c’era da aspettarsi di tutto... Se ho capito bene, non
ha scritto cose teatrali sue, ha però tradotto il Coriolano di Shakespeare, probabilmente per contribuire a
qualificare letterariamente il teatro nazionale ungherese. In fondo, chi
l’avrebbe detto che, nato serbo-slovacco in Romania, a quell’età divenisse lo
zoccolo duro in letteratura e in politica del progresso nazionale ungherese per
tutto il secondo Ottocento!... e oltre! Altro che i nostri letterati
bamboccioni in cerca angosciosa di padri a qualunque costo!
Adesso però, senza rotaie
praticabili da un tram, questo trasporto su gomma, non so perché, ci risulta
un’altra cosa. Di mala voglia ci adattiamo. Tutti sembriamo più impacciati.
Anche loro. Non sappiamo se scendere, salire, di qua, di là. Loro seri, come
con la testa altrove. Anche l’autista ho il sospetto abbia la mente occupata da
un suo pensiero dominante, cioè che intenda dimostrare qualcosa, chissa che,
con quel suo torpedone lungo un treno.
Fatto sta che al ponte il bus stoppa secco e, mentre tutti, anche se
avventurosamente, si tengono appesi comunque, io all’opposto rotolo addosso a
uno di loro tutti, seduto. Però mi tiro su, ritengo, con energia e decoro.
Nell’amaro comune silenzio, estraneo, il giovanotto qui di fianco guarda ex post comprensivo... non me, guarda...
poi chiede incomprensibile qualcosa, rispondo in italiano scusi, lui intende che sia un sospiro di coltivato sdegno
rattenuto, sorride solidale e, scansandomi, scende ultrasvelto prima di me.
Noi appresso, a passo flemmatico,
meditativo. Scegliamo di portarci chiacchierando davanti al Teatro Comico... e
di lì poi infilarci come al solito in una delle vie disponibili, fino a casa.
sabato
Stasera dunque con P. e Cs., due
amici. Teatro dell’Opera e Johann Sebastian Bach ammodernato. Vigilia di
Pasqua. Il solito pubblico dei concerti di musica classica. Chissà. Tutto congiura verso la serenità
spirituale.
Dopo invece esco sconcertato. La
teatralizzazione di una cantata alla fine mi incuriosiva in sé, tanto più
trattandosi di una cantata sacra... Ma una teatralizzazione totale!... Mancava
addirittura un vero direttore d’orchestra... Se ho decifrato la situazione, ha
diretto l’orchestra il maestro del coro...
Ecco perciò che il tessuto continuo
di prosastici, quasi sommessi recitativi
e corali, tipico della cantata, –
interrotti qua e là da brevi, sobri strappi ariosi
(spesso affidati alla voce del basso) o da rare arie (tenorili, certo, ma per tenori in sostanza recitanti, da
cantata sacra appunto), dove persino l’urlo terribile e violento si stempera
musicalmente in un coro, – tale
tessuto discorsivo cupo qui è stato sceneggiato,
strutturato in figure interpretative.
Si tratta di due grossi, immoti
complessi corali, angelicamente biancovestiti, uno maschile e uno femminile.
Due blocchi bianchi che insieme a un tenore narratore, ma teatrale, molto
tenore, valgono da struttura portante di una azione scenica interpretata
tramite coreografie lievi, impalpabili, o scolasticamente drammatiche ad opera
di due leggiadri gruppi danzanti, di nuovo uno maschile e uno femminile, e di
nuovo vestiti di bianco.
Il tutto nel contesto scenografico
di uno schematico enorme ambiente chiesastico disegnato soprattutto da uno
sfondo sghembo di finestre dipinte, evocante una chiesa imponente, già
cattedrale.
Nel suo interno talune figure
sceniche singole, tra cui spicca in primo piano un solenne Gesù solitario, alto
e regale, talora seduto maestosamente, ma più spesso eretto nella famosa sua
tunica inconsutile, poi drammatizzata da un mantello rosso porpora e da una
corona di spine, ma ambedue figurazioni vuotamente solenni, quando arriva il
loro turno, per niente strumenti stridenti, come vorrebbero essere, di volgare
irrisione verso il Cristo. Un Cristo in tunica inconsutile, ma naturalmente
bianca come, del resto, immancabilmente quella della Madre, una giovane Maria,
coperta oltretutto da un muliebre acconcio ed edificante manto esteticamente
celeste.
Sono soprattutto queste due
incredibili iconografie da santino appunto edificante che, ai miei occhi, con
la loro dissacrante simbologia piatta e grezza e violentemente irreale, parlano
sopra una struttura artistica,
poetica, incongruamente sottratta, tramite una messinscena frivola, alla sua
volontà tragica.
Esco che dubito di me stesso. Per
questo non parlo, non commento. Non mi fido. Credo di essere troppo cerebrale
per comprendere con la giusta apertura la mite realtà delle cose, a volte
semplice, forse inelegante, non sofisticata, ma, anche se turistica, schietta e
buona. Forse.
Rifletto tra me e me che devo aver
cominciato storto, fin dall’infanzia addirittura, e senza che qualcuno,
accortamente, mi raddrizzasse.
Mentre tra la folla in dismissione
dal suo ruolo di pubblico (che, nonostante le mie buonissime intenzioni, molto
molto amichevoli, mi pare, sempre più, proprio turistico e anche parecchio),
mentre usciamo dal teatro, la memoria mi corre da sé a un mio episodio lontano.
Avevo tra gli undici e i dodici
anni, frequentavo una scuola che più cattolica non si può. All’aprirsi del
periodo natalizio il professore di lettere ci aveva assegnato come compito per
le vacanze un tema, naturalmente Il
Natale. Lo svolgimento era libero. Ciascuno poteva dire, soprattutto con
sincerità, quel che pensava, senza scervellarsi troppo, ed essere o lungo o
breve a sua scelta.
Io riempii una sola pagina. Ricordo
che dicevo più o meno come al mondo ci fosse stata un tempo una grotta, bene
scavata nella roccia, la quale a un contadino serviva ottimamente da riparo per
le bestie quando il sole scottava e lui poteva tenere i buoi lì all’ombra,
magari a mangiare un po’, a ruminare e sonnecchiare, perché in quel momento il
suo lavoro non era arare, era altro.
Era quasi una stalla, la grotta,
con una mangiatoia accomodata alla bell’e meglio.
Per terra nessuno mai puliva e il
puzzo era tanto. Un vero fetore. Lo sterco il contadino lo raccoglieva in un
angolo tutte le volte che faceva uscire le bestie. Solo di quando in quando però lo portava poi
via, per concimare il campo.
Allora magari ne approfittava e si
fermava lì dentro per qualche lavoretto secondario. La notte però mai, perché
lui, pure povero, aveva una casa per dormire, come ogni famiglia.
Quella sera aveva lasciato il bue a
dormire nella grotta, mentre la vacca l’aveva portata con sé, per mungerla
nella stalla all’alba.
Quella sera Maria e Giuseppe,
passando lungo il sentiero, lei sull’asino lui a piedi, videro che il padrone
aveva dimenticato di sprangare la porta.
Decisero.
Entrarono con l’asino per riposare
durante la notte, lì al coperto. Misero l’asino accanto al bue. Loro due
davanti, per scaldarsi al loro fiato.
Quella notte, in quella grotta,
nacque Dio.
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Il Teatro dell'Opera di Budapest
|
Forse.
Probabile che allora si è plasmato
il mio gusto narrativo, in entrata e in uscita. In ogni caso, per me oggi
l’arte è scoperta della realtà vera, la realtà così com’è (agli occhi di chi la
guarda e nelle mani di chi la dice), ne risulta un lavoro di scavo a cielo
aperto, scombussolante e interminabile.
Un lavoro così, diviene finto
quando lo si abbrevia e interrompe (rendendo il risultato incomprensibile)
tramite etichette, formule, ricette, cornici, tanto più quando queste,
ipocritamente, vogliono essere buone e cordiali e confortanti come i santini.
Forse è questo.
P. e Cs. domani, che è Pasqua, la
mattina presto sono impegnati con qualcosa di sociale. Non spiegano. Ciò nonostante, poiché è una bella serata
trasparente, volentieri passano un’oretta con noi.
Se proprio vogliamo, come noi
diciamo di volere, possiamo anche andare lì accanto in quella immensa,
grandiosa libreria-gran caffè (ex grandi magazzini a più piani, con muri
dipinti a scene e figure del tempo della Secessione) dove potremmo
chiacchierare amabilmente e prendere qualcosa.
La discrepanza è che noi non
abbiamo cenato, loro sì, alle sei, prima di venire a teatro, come si usa qui,
ma preferirebbero, data la bella occasione climatica, una giratella turistica,
con noi.
Per fortuna, la libreria sta
chiudendo. Anzi: è proprio chiusa – ci sorride a gesti risoluti una cameriera
bella presenza – la ristorazione tanto più.
Loro sono venuti in macchina e
hanno intenzione di accompagnarci a casa. Propongono di allungare il tragitto,
con una deviazione sul monte Géllert dilà dal Danubio, sopra i bagni termali,
per un’occhiata al panorama notturno della città quasi da primavera.
Lassù è suggestivo.
Pari pari come, prima, – il Cristo
di fronte al tradimento dell’umanità e la madre di fronte alla morte del figlio
(ambedue in quel frangente sicuramente disperati) nella cantata operisticizzata
per i turisti avevano subìto la manipolazione edulcorante del santino
artistico, – adesso qui la città (di suo, là giù di sotto, malamente
dissestata) risulta falsamente scintillante di luci, armoniosa di ombre,
sentimentale come, va da sé, una cartolina illustrata.
Una cartolina, anch’essa
edificante, che, forse perché poggiata sulle magnifiche terme e progressive qua
sotto (le celebri, così dicono e scrivono tutti, Terme Géllert, di cui non so
altro), sa di panorama a cinque stelle, di paradiso terrestre di lusso, per
attingere il quale, come previsto stante la venialità dei nostri peccati (si
sa, il turismo rende né buoni né cattivi), abbiamo attraversato il purgatorio,
quello strano piccolo tormento delle strade cittadine maggiori dissestate, da
lavori dissennati.
O almeno lo sembrano, dissennati.
No, chiarisce P., saggio e ragionevole, non è dissennato scardinare qualche
chilometro di strada in simultanea, è obbligatorio: lo impongono i
finanziamenti europei all’origine di queste ristrutturazioni, fondi che vengono
stanziati a termine, onde oltre una certa data scadono. Le autorità lo hanno
comunicato formalmente, in tv.
È l’Europa, bellezza!
Chissà.
Come la vedono qui, in generale,
l’Europa?
Beh, – a quanto ho capito, – se non
fosse per non prestare il fianco alla chiusura autoritaria e afosamente
sciovinistica del potere nazionale qui in Ungheria, un po’ da ridire ci
sarebbe. Perché, insomma, un po’ più di fluidità culturale... (P. ha alzato le
sopracciglia e, proprio da professore, ha aggiunto un sorriso di
compatimento...)
Per esempio?...
Niente... è che qui arrivano solo
prezzi, affari, finanziamenti, tasse... scambi... Per esempio, – si fa per
dire, naturalmente, – da lui (P. è il preside del Liceo italiano di Budapest)
quest’anno è iscritto un ragazzo italiano, più o meno un sedicenne, che impara
a giocare a calcio...
Cioè?...
Sì, è nel vivaio...
Nella cantera?...
Non sa... nella squadra giovanile
di una società importante di qui...
Che squadra?
Sì, l’Újpest... e pare anche che
vada bene... quindi!... invece non parla una parola di ungherese... ah!...
Insomma... come dire?... culturalmente non va, è refrattario alla cultura.
Ah!
Ebbene! Si ritiene che non importi!
Io, nel segreto dell’anima, trovo
modo di consolarmi tra me e me.
Così: cioè tra me e me voglio
credere fermamente che la macchina fotografica, culturalmente nutrita da me,
abbia acquisito un’anima.
Infatti, mentre la manipolo per
scattare dal colle meravigliao, che panoramico gentilmente si presta, qualche
foto turistica appropriata... e così non farmi mancare nulla, – date le
circostanze, sto stoicamente aggeggiando, – improvvisamente quella, la
macchina, riottosa s’abbuia.
Ecco, accecato controluce, non
riesco proprio a orientarmi dentro la sua ricca offerta di congegni e
sofisticherie tecnovisuali proliferanti tramite rotelle e pulsanti e bottoni e
levette intelligenti (sì sì, smart),
anzi più tocco e struscio e manipolo, più dubito di operare, inconsapevole, per
lo sfascio e la rovina finale della povera macchina a suo modo liberamente
contestatrice, controculturale (c’era una volta!).
Lascio perdere. Rimarrò senza la
memoria dell’evento... che perciò, tragicamente, verrà da me perduto, non
diverrà mai un fatto, uno dei miliardi di miliardi di eventi nell’universo in
questo istante, così bello...
P., giù lungo il tragitto, si
consola, a sua volta vendicativo, ma mite, con Moszkva tér: gli scavi, qui
condotti più culturalmente che
altrove, pare abbiano prodotto un complicatissimo risultato inatteso: il blocco dei lavori, per la scoperta
sotterranea di, non so, un forno o che, insomma un reperto archeologico il cui
recupero prolungherà di parecchio il cosiddetto disagio della cittadinanza.
È l’eterogenesi dei fini,
filosofeggio a buon mercato tra me e me, ma non lo dico, perché ho il dubbio
che questo spunto dialettico abbia ormai spazio quotidiano soltanto in Italia,
nel paese piccoloborghese delle parole che fanno scena.
Però, la cultura come disagio per
la cittadinanza! Ecco il tempo futuro che viene!
Anche qui, in questa città, – dove
una volta il termine cittadinanza
indicava le masse lavoratrici stricto
iure al potere, che perciò affermavano una nuova cultura (anche se di fatto
né erano al potere né era nuova la cultura che affermavano), – anche qui,
dunque, pare che la cittadinanza inizi a sentirsi gente futura (tradotto e in rima: non ne può più della cultura).
In realtà – rammento a me stesso
autocriticandomi – il corso genetico è inverso: la cittadinanza, se si fa
prendere da un sentimento di avversione verso la cultura, diventa sic et simpliciter gente, né passata né
futura. Si ha il fenomeno gente.
L’uomo qualunque, senza più nessuna credenza. Infatti, è senza qualità, non ha
neppure sostituito la religione con il valore
pensiero. Non crede più a niente, nemmeno a se stesso come popolo. Nessuno vuol
essere popolo oggi.
Ma, a proposito, perché questi
scavi a Moszkva tér? Qui le rotaie...
È che l’Europa finanzia... sussidia
la cultura, mica l’economia! Almeno così capisco. Per cui le ragioni di tali
lavori devono essere culturali... l’estetica della città et similia.
Così forse si spiega anche che
questa piazza non si chiami più piazza Mosca, ma Széll Kálmán tér, recuperando culturalmente il nome che ricevette
quando fu costruita la prima volta come centro di una periferia. (Kálmán Széll
era stato primo ministro agli inizi del Novecento, durante la Monarchia, e qui
allora la città era pura periferia). Prese il nome di piazza Mosca anni dopo,
durante il comunismo, quando divenne lo spazioso centro di una serie di nuovi
quartieri sul fianco del colle che culmina con il Castello di Buda e dall’altra
parte sul fianco della ricca Collina delle Rose.
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Il Castello di Buda
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domenica
Mi ricordo che ieri ho sogghignato
divertito quando ho saputo che il russo Vladimir Vladimirovič, in visita
calorosa qui a Budapest un paio di mesi fa, non si sa, ma pare sia rimasto
assai perplesso, oltre che seccato, avvedendosi che piazza Mosca non c’era più.
Pare, ma dev’essere una storia
inventata senza costrutto, pare che, per consolarlo o comunque rabbonirlo, lo
abbiano portato a passeggio in non so più quale altra bella piazza (Budapest
sembra Roma, ne ha più di una di piazze belle), ma che la cosa non abbia dato
esito positivo: Moszkva tér era ed è Moszkva tér... È come se a una persona gli
cambiassi improvvisamente nome: quello era ed è il signor Roderigo Rossi, non
lo puoi chiamare d’improvviso dottor Benedetto Bianchi.
Chissà, il buon Putin, quante cose
si sarà ricordato legate a Moszkva tér, cose magari del tempo in cui lavorava
in Germania, lontano da Leningrad ma insomma anche da Moskva, e veniva qui in vacanza per lasciarsi cullare
dal fascino lieve del panorama budapestino e dalle passeggiate serene verso
quella piazza lieta.
Non so perché le persone – pur
sempre a passo svelto, come usa qui per fare gli indaffarati, – nel territorio
di piazza Mosca secondo me hanno tuttavia sistematicamente l’aria di correre
perché attese da amici.
Oggi abbiamo visto Gy. e famiglia.
E il discorso è caduto sulla situazione politica. Questo perché io vorrei
sapere se il proclama dell’anno scorso di Viktor Orbán, il primo ministro,
abbia o no avuto un seguito.
Orbán si è fatto ideologo e ha
proclamato un nuovo progetto politico, autoritario ma non dittatoriale, che
dovrebbe servire da guida per tutti quei paesi – e secondo lui sarebbero tanti
e importanti – che vogliono superare la scelta fra modello sovietico e modello
occidentale, tra dittatura comunista e democrazia liberale.
La notte passata ho riflettuto sul
tema.
I modelli sono costrutti intellettuali, spesso fascinosi, ma per loro
natura teorici, i quali dunque per funzionare nella realtà avrebbero bisogno di
fermare l’attimo della loro elaborazione. E in sostanza fanno proprio questo,
naturalmente perché quello (in soggettiva) è bello.
Invece persino davanti a un
algoritmo, modello operativo così sofisticato da sembrare una sostituzione perfetta del meccanismo duttile della vita, ci rendiamo conto, al dunque, che
stiamo sempre adeguando il moto vitale nostro, la scelta nostra, alla decisione sua,
di fatto predeterminata da tempo e per noi predeterminante perché, per sua
natura, se possiamo dire così, lui, l’algoritmo, è un preconcetto, non ci segue, è un modello, è teorico e ci precede.
L’andar per modelli dunque, anziché
procedere tramite analisi concrete delle situazioni concrete, in politica è di destra, produce conservazione (perché è un falso
movimento, assiomaticamente estraneo, quale che sia l’assioma, alla
imprevedibile dinamica effettiva della struttura di potere in cui una società,
mutata secondo quel modello, di fatto consisterà, struttura conoscibile solo
nel suo reale divenire e nel suo ulteriore bisogno di nuove modifiche reali).
Infatti in politica può introdurre
un modello di cambiamento soltanto chi abbia il potere di farlo e sarà dunque
il potere di costui la contraddittoria condizione da non cambiare per cambiare
la struttura di potere secondo quel modello, il quale di fatto è obbligato a
reggersi sul potere esistente esattamente come la realtà che esso sarebbe
destinato a cambiare. Agire per modelli è conservazione del potere esistente.
Il cambiamento sociale, richiesto
dai nuovi bisogni, consiste dunque nel cambiamento
della struttura di potere adeguandola al loro soddisfacimento. Perché ciò
avvenga occorre, prima, una elaborazione culturale concreta. Senza la quale si
va per modelli, verso la conservazione di un potere singolo, definito a priori. Ed ecco che l’elaborazione
culturale concreta, vale a dire l’analisi strutturale dei poteri (politici,
economici, sociali in ogni campo), è di sinistra, giacché è premessa di
cambiamento.
Quest’ultimo ha luogo, quando ha
luogo, nel continuum del concreto
della vita, cioè indipendentemente dal verificarsi di eventi clamorosamente
sovversivi. Giacché un evento rimane un evento, vale a dire che – anche quando
assurga nella vita degli individui alla qualità di simbolo sacro – resta un
momento sentimentale, quindi caduco se privo del nutrimento culturale adeguato,
nutrimento sine qua non e dunque
appunto da produrre o prima o durante o dopo il verificarsi di quell’evento.
Un evento rivoluzionario non è e
propriamente non può essere altro che un
tentativo di affermare nell’immediato materiale, drasticamente con la
forza, il principio di un
cambiamento. Dopo l’evento, però, resta il problema di rendere vita pratica, cioè organizzazione dei
poteri e comportamento degli individui, quel principio proclamato, e cioè il
problema di costruire punto per punto, nella realtà secondo la realtà, la cosa.
Altro che modelli preconcetti!
Anzi va aggiunto – passando ad
altro, nonostante il nesso sembri tirato per i capelli, ma non lo è –
sentimentale resta anche l’uso del premeditato, magari anche del prefabbricato,
nell’arte in genere e in letteratura in specie. In questo campo
una simile mossa sfocia di per sé nell’estetistico gratuito, e facilmente
addirittura nella moda o nel preconcetto ideologico, in quanto lo sguardo
preordinato dal modello teorico priva il fare
artistico della propria autonomia creativa, della libertà di risposta ai
problemi vitali del mondo come fonte della propria dinamica, vale a dire della
originaria produttività psichica degli individui, il che deprezza, disattiva e
infine devitalizza, in ipotesi e di fatto, l’io, l’intimità personale come forza di produzione di vita, soprattutto
artistica.
Racconto a Gy. che noi in Italia, o
almeno io credo che, siamo rimasti colpiti dal fatto che il primo ministro
ungherese abbia decretato la inefficienza del modello democratico occidentale, il quale – secondo tale
ragionamento – non potrebbe essere la soluzione dei problemi per un paese come
l’Ungheria, da oltre un quarto di secolo uscito dal modello sovietico e in cerca appunto dell’efficienza. (Con i tempi
che corrono, sembra che siamo tutti in cerca dell’efficienza, commento nella
pacifica incomprensione di Gy.) Tant’è che persino la Russia ha imboccato la
strada della invenzione di un modello
nuovo.
Ora, secondo quanto io so del
discorso di Orbán, l’attuale regime autoritario russo non si distingue, come
modello teorico, dal modello che sta sotto al modo di funzionare della Cina e a
quanto comincia a succedere, per esempio, anche in Turchia.
Ma poi la cosa attrarrebbe, appunto
come modello, tutti quei paesi che
hanno bisogno di efficienza operativa ai fini di un sano sviluppo nazionale. In un mondo dominato dai
grandi potentati (beh, se le cose vanno
male qui, qualche cattivone responsabile là fuori ci sarà pure!)...
«Dobbiamo abbandonare i metodi e i
princìpi liberali nell’organizzazione di una società», ha teorizzato con ardito
pensiero Orbán poco tempo fa. Cosicché gli ungheresi starebbero «costruendo uno
Stato volutamente illiberale», insomma «uno Stato non liberale».
A questo punto non so, – confesso a
Gy., che tace cortese, – a questo punto subisco l’usuale ricatto della ragione
(cioè, chiarisco: domàndati sempre se, in
quello che non capisci, si nasconda una verità che tu non vedi) e mi chiedo:
modello democratico occidentale per lui vuol dire Stato liberale o Stato
liberista? Non ce l’avrà col liberismo, che è senza dubbio il minaccioso
cancro, forse congenito, dello Stato a tradizione illuminista, il quale invece
è anzitutto tutore della libertà
dell’uomo?
Ma ecco il chiarimento di Orbán,
comunico a Gy: «I valori liberali dell’occidente oggi includono la corruzione,
il sesso e la violenza». Lui, Orbán, la cosa l’ha capita così.
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Viktor Orbán e Vladimir Putin
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Anzi, – ne deduco per Gy., – il
liberismo, inteso come libertà del privato di fare come gli pare in economia,
anche l’evasore fiscale e il corruttore quando ha a che fare con lo Stato, il
liberismo a Orbán non gli dispiace per niente. Vero che qui in Ungheria tutti
dànno come ovvia e diffusa la corruzione. Ma (ecco il ricatto della ragione) va a sapere se è per vera conoscenza
concreta o per psicologia qualunquista.
E spero che Gy. mi chiarisca il
concreto, – comunico a Gy., – perché, com’è noto, l’opinione pubblica meno sa,
più sparla. Anche se – per dirla alla andreottesca – poi sempre ci azzecca.
Gy. ha accolto perplesso il
riferimento misterioso contenuto in quel mio concetto sconosciuto:
andreottesco. Poi, accoglie la spiegazione sollevato. È d’accordo: la
corruzione in Ungheria è un malanno impressionante.
E però, insisto io, può essere,
come in Italia, una questione culturale,
da addebitare dunque al vecchio regime.
È che, almeno nella società di
massa, tutti gli assetti politici, a me sembra, una volta esaurito, bene o
male, il compito che li ha generati, scomparsa dunque la loro giustificazione
oggettiva, si assestano a regime e lì
la cultura che li ha nutriti sino a quel momento si trasforma in abitudine immotivata. L’individuo non
sente più dentro di sé un sensato motore
etico, ma soltanto, fuori di sé, un ambiente neutro che continua ad
aspettarsi da lui i vecchi comportamenti, ora immotivati, e dove egli può farsi
valere unicamente in quanto mera presenza.
L’individualismo amorale e l’abitudine comportamentale immotivata,
ora oggettivamente richiesti per vivere e pretesi dal regime, si fondono a quel
punto in una sorta di incultura del
sotterfugio, del sottobanco, del sottinteso, del sotterraneo, del
sottobosco, del sottogoverno, del sottaciuto, del doppio regime mentale,
insomma in una schizofrenia che dà psichicamente per scontato il guadagno mio come valore e il guadagno altrui come disvalore, decadenza.
Homo
homini lupus, vige il branco. Fino al nuovo assetto, che verrà se verrà e
che vedrà chi vivrà.
Gy. è simpaticamente desolato,
cerca comunque di parlare anche lui. Fa parte di una neoassociazione di
socialisti che vogliono ricominciare,
trovare una strada contro questo Orbán che, forse senza nemmeno accorgersene,
per eccessiva fiducia in se stesso, sta portando il paese nelle braccia
dell’ultranazionalismo nazista del partito degli Jobbik (letteralmente: i destri ovvero i bravi, quelli in gamba).
Perché parlano semplice, – dice Gy. che la gente dice, – e la gente capisce
quello che dicono.
Io penso, tra me e me, che questa
richiesta corrente di un linguaggio comprensibile a tutti sia un errore
retorico, analitico. Confonde comprensibile
con persuasivo. La persuasività
ha componenti che non sono solo linguistiche e dunque è a queste che bisogna
guardare per vedere realmente ciò che sta accadendo. Anche un parolaio, dal
discorso sostanzialmente incomprensibile, può risultare persuasivo per ragioni estranee alla qualità del suo discorso, così
come può risultarlo un retore squisito o, poniamo, un eruditissimo
intellettuale che ne racconta di tutti i colori senza che gli ascoltatori
davvero capiscano. È che l’ascoltatore ascoltando dice i suoi bisogni, cioè
traduce nel linguaggio di tali bisogni il senso che ricava da quello che
ascolta. Insomma manipola e non è detto che sia davvero in accordo con quanto
il parlante dice.
Oggi per esempio l’opinione
pubblica, con i suoi luoghi comuni
circa il linguaggio parolaio dell’intellettuale, respinge preventivamente questa figura sociale, a prescindere dalla comprensibilità di ciò che da un singolo
intellettuale in concreto ascolta o può ascoltare
Di fatto il pre-giudizio in
questione è un’arma culturale, in quanto la cultura che appartiene alla figura
sociale cosiddetta la gente è tutta
giocata sul fare, sul pensiero immediato, e dunque corto,
inoltre guarda al fare come risultato
e non come processo. La figura dell’intellettuale è così svalutata pregiudizialmente: il suo modo di fare è l’opposto della vita della gente.
Venire a sapere, studiare, conoscere, provare, valutare, decidere, considerare
che la decisione modifica la realtà, la quale non sarà dunque un risultato
definitivo).
La gente (l’uomo qualunque, la vita
quotidiana) tramite tale esorcismo o scongiuro, tramite dunque il suo fare nei modi della propria cultura, intende
espellere dalla scena, propriamente, non la pratica appunto della propria
cultura (che produce gli azzeccagarbugli per i quali le parole sono orpello di fatti occultati), ma il risultato reale di quella pratica: la
corruttela, cioè quella particolare anomia che vede la vita quotidiana
funzionare tramite canali legittimati non dalla astratta normazione giuridica (dalla riflessione intellettuale), ma
dal concreto costume dell’agire per
gruppi (familistici, strapaesani, lobbistici, camerateschi, corporativi,
castali, amicali, tribali e simili).
Non escluderei tuttavia – vado
riflettendo tra me e me – che tale gesto di ripulsa collettiva si possa
interpretare come bisogno e richiesta di figure intellettuali affidabili, cioè portatrici di un
ragionamento oggettivo (inteso, vulgo,
come scientifico e tecnico, ma in realtà) complesso e dunque organizzato.
Gy. racconta come nella sua nuova
associazione abbiano discusso sul che fare. E però si sono ritrovati divisi tra
coloro che pensano sia necessario illuminare
la gente, aiutarla a capire il presente mettendogli davanti i fatti come stanno
(a me viene in mente il Lenin che, oltre un secolo fa, fondava la Pravda, la verità) e, dall’altra parte, coloro che, come Gy. stesso,
intendono invece che occorra fare,
organizzare, perché questo è il linguaggio che la gente capisce. (Oddio, Lenin
in effetti aveva scritto il Che fare...
e però alla fine del ragionamento si era ritrovato appunto davanti alla
necessità di un giornale, per far circolare la verità quotidianamente...).
Ma lui, Gy., a che pensa, per
esempio?
Organizzare un crowdfunding per aiutare i bisognosi e denunciare così il dilagare
della povertà nel paese... Gy. è abbastanza fiducioso nel suo metodo, lo
ritiene l’unico adatto a fermare non soltanto Viktor Orbán, ma soprattutto (per
la questione del linguaggio comprensibile) la demagogia populistico-nazista
degli Jobbik, che lui, Orbán, – con la corruzione quotidiana che permette, come
sempre accade nei regimi autoritari, e con i suoi discorsi teorici che nessuno
capisce, – alla fine fa vincere. La gente va da chi parla chiaro.
Oggi, per esempio, mi chiarisce
Gy., è successo un fatto importante: nella circoscrizione di Veszprem, una cittadina di circa sessantamila
abitanti, c’è stata una votazione. Si trattava di eleggere un deputato, uno
solo, perché l’altro era decaduto. Nessuno si aspettava niente, quella
circoscrizione è da sempre un roccaforte del Fidesz, il partito di Viktor
Orbán. E invece ecco, la gente, che ormai non ne può più, di fronte alla
miseria che si va palesemente diffondendo, comincia a non fidarsi di loro, per
cui oggi non ha votato per il candidato del Fidesz, ma per un indipendente, un
indipendente proposto però dagli Jobbik.
Di più: questa sconfitta
tecnicamente fa perdere a Orbán la maggioranza dei due terzi in parlamento. Per
un voto, da oggi non può più fare il bello e il cattivo tempo. E però così la
situazione va a tutto vantaggio degli Jobbik, che oggi si fregano le mani. La
situazione era brutta, adesso sta diventando peggio. Dall’idea
dell’autoritarismo stiamo entrando nella prospettiva della dittatura e
neonazista.
Chissà, quando un paese entra nella
sindrome del degrado morale, quando ciascuno pensa soltanto ad arraffare o
perché vive nel bisogno o perché domani potrebbe andare peggio oppure perché
ciascuno ormai è convinto (la cultura, è sempre un fatto di cultura!) che la
società sia una giungla e dunque si fa così, non ci sono prospettive diverse...
anzi, a un certo punto, viene che neppure si formano più bisogni altri, solo quello di sopravvivere nel gorgo delle
sopraffazioni, allora...
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Una manifestazione del partito filo-nazista ungherese Jobbik
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Sera
Mi viene in mente qualcuno che
tempo fa mi parlava della giungla globale cui stiamo arrivando. Propriamente –
diceva – cui stiamo tornando. A suo avviso, finora siamo vissuti credendo o
volendo credere che – nel buio del fitto
della giungla del mondo – un certo numero di Stati civili fossero le radure da
cui emanavano, per tutti prima o poi, la luce e il profumo del bel progresso,
con il suo ordine razionale, sempre più raffinato, e i suoi valori alti, sempre
meglio compresi. Noi non abbiamo voluto vedere – secondo tale versione della
storia – che si trattava di enclaves
provvisorie, e anche occasionali, costruite in un universo di rocce su una di
queste da élites eretiche avvolte nel
peccato edenico di Lucifero: voler costruire un paradiso terrestre per
contrastare la forza, la volontà di potenza della natura. L’uomo sarebbe
natura, secondo tale narrazione, e basta.
Già, ma oggi sappiamo che dei fatti
della natura noi sappiamo solo un miliardesimo di miliardesimi e che ogni atomo
di conoscenza in più è di fatto un acquisto nuovo che aggiunge, a occhio,
almeno un miliardo di nuovi fatti ai fatti da conoscere. Solo che non vogliamo,
ancora, cambiare le carte in tavola.
E però il momento realmente
negativo è, mi pare di capire, il crollo della volontà di sapere. Curioso: siamo entrati nella società della conoscenza e tutto, lo
sviluppo, la produttività, il benessere, il progresso, il futuro, il presente,
il passato, la ricchezza, il potere, la sicurezza, l’ordine, la giustizia, la
tolleranza, la civiltà, la felicità, il piacere, la bellezza, la creatività, la
salute, la serenità, perfino la serendipità, tutto ma proprio tutto dipende
(quasi completamente) dai contenuti di sapere che implica... eppure
diffusissimo è l’uso, come valore, del non-sapere.
Stupidamente viviamo secondo la
favola feroce delle conoscenze:
qualcuno che conosco stima se stesso assai più di un suo collega di lavoro
perché le proprie conoscenze, nonostante la propria minore competenza, gli
garantiscono una migliore carriera... è più giovane, ma già più avanti...