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DIARIO D’AUTORE (40)
Appunti di viaggio
Roma - Budapest


      
Note diaristiche volando dalla capitale italiana a quella magiara, mescolando riflessioni di lettura, osservazioni estemporanee e quotidiane, memorie storiche e culturali, impressioni su eventi musicali pasquali ascoltando “La passione secondo Giovanni” di Johann Sebastian Bach. Per poi secernere sottili pensieri filosofico-politici a cascata sui rapporti tra l’Ungheria e l’Europa, e sul progetto governativo del premier Orban inteso a voler superare la scelta fra modello sovietico e modello occidentale, tra dittatura comunista e democrazia liberale. Registrando le reazioni e le oscillazioni di un interlocutore ungherese, animatore di una associazione di neo-socialisti. Intanto però il partito populista filo-nazista di Jobbik avanza.
      



      

 

 

di Alberto Scarponi

 

 

domenica

 

Comincia che sono qui, ancora a Roma, e leggo un libro. I fiori blu di Queneau.

Dice: tradotto da Calvino. In verità è rifatto, esplicitamente. Calvino spiega in appendice che era complicato tradurlo, perché Queneau aveva inventato tutto, dai nomi artefatti e allusivi (a volte citano, a volte sono nomi parlanti), alle situazioni (pour cause, viene da dire) surreali. In questo caso tradurre significava reinventare tutto in italiano, anche i nomi... E spiega le cose con l’aria imbarazzata di chi vuole scusarsi per essersi trovato a dover inventare troppo... Come non sapesse che tradurre è sempre riscrivere. E cos’è riscrivere se non reinventare? E cos’è inventare se non trovare (ciò che finora non s’era trovato)?

 

Lascio andare e continuo a leggere. È che partiremo fra tre giorni e prima voglio finire il libro.

 

Così mi trovo a leggere di un guardiano che carica una pipa profferendo distrattamente frasi di un certo tipo... Lì per lì non capisco: è un refuso? oppure anche in francese è possibile questo gioco di parole per cui delle frasi possono essere proferite come profferta di un certo tipo di dialogo? o invece è un’invenzione sottile del traduttore per ridare appunto un senso altrimenti costruito dall’autore francese?

Mah!

Desolato, ricordo che ieri, una pagina prima, avendo trovato che il protagonista avrebbe potuto andare a letto, mi sono rifiutato di star lì a perdere tempo con queste minuzie. L’ho chiusa lì, ho interrotto la lettura per pensare a cose pratiche.

 

Solo che le cose pratiche sono anche taluni preparativi per la partenza e non riesco ad evitare l’accostamento del nostro volo, fra tre giorni, con quello malaugurato dell’aereo tedesco che qualche giorno fa s’è fracassato sulle montagne francesi a causa d’un copilota narciso triste fino alla follia.

C’è un nesso?

Ed è che minuzie trascurate... da un medico, da un manager... da addetti a quel lavoro intellettuale diffuso che oggi è responsabile del buon andamento della società... minuzie hanno influito sul prodursi di una catastrofe di centocinquanta vite?

 

Non era che da tre o quattro secoli eravamo entrati nel tempo della precisione?

Ora la virtù dell’azione in sé, la felice persuasività dell’atto performativo, ha di nuovo cambiato tutto?

Siamo tornati alla bella schiettezza, all’immediatezza cosmica del medioevo tutto fede e destino (e santi benedetti) (oppure Tanato)?

 

Nel frattempo mi càpita di leggere che la nioque di Francis Ponge (lì per lì uno dice: la gnocca del ventennio semi beota appena trascorso?) non è altro che una pre-sessantottina proposta di scrittura antipoetica, da Ponge allegorizzata nella scrittura invece fonetica della parola conoscenza (ma un po’ contortamente, essendo prima risalito a un supposto grecizzante gnoque da gnosi).

Lo spirito delle movenze sessantottesche starebbe dunque nell’antipoetico, nel senso di farla finita con le seduzioni e gli infingimenti della poesia-parola per andare diretti alla cosa-cosa. Si tratterebbe dunque (come dice un commentatore) del Partito preso delle cose, volume che Ponge pubblica già nel 1942, trovandosi sul sentiero tracciato da Rimbaud quando aveva detto di aspirare a una «poesia oggettiva».

 

Mi trovo davanti questo tema per merito di Marco Giovenale, di cui da tempo seguo le mosse, le mosse che vedo, senza capirle. Ed ecco che ora egli scrive con chiarezza: «A partire dalle posizioni testuali e critiche di Jean-Marie Gleize e delle rivista Nioques».

 

Posizioni che Gleize propone come «una specie di programma aperto per quanti si pongono il compito di ‘uscire’ in maniera permanente e di esplorare un dopo-la-poesia che utilizzi tutti i mezzi della ‘prosa in prosa (in prose)’, oltre ogni pretesa estetica e puntando al contrario ad alcuni effetti di conoscenza del mondo, del ‘mistero ambiente’ come diceva Ponge...»

 

Dunque a partire dalle posizioni di Gleize e di Nioques, «come del gruppo di Questions Théoriques, ma prima ancora dal lavoro di uno degli autori che potremmo pensare alle origini di un cambio di paradigma, e che può essere considerato un maestro per più generazioni di ‘postpoeti’: Denis Roche», si perviene a una volontà di poesia, precisa Marco Giovenale, come «scrittura littérale, piana, non assertiva», che si trova «in posizione diametralmente opposta rispetto a qualsiasi ritorno a formule di tipo espressionista».

 

A me sembra tuttavia che il bisogno di reale che ha oggi l’uomo, e dunque di dire il reale  prima di agirlo, se è di questo che si tratta, non possa venir confuso con il rifiuto della poesia verbigerante confusa con l’oratoria manipolativa (e dunque – forzando, ma si fa per dire – con la pubblicità o la canzonetta: che pure posseggono un loro appropriato e legittimo statuto retorico, una loro circoscritta bellezza e verità).

La poesia in realtà oggi, mi pare di capire guardando il mondo, è piuttosto fortemente interrogata dalla incalcolabile e sterminata (e anche indeterminata) rivoluzione del reale umano che stiamo vivendo. Ha dunque davanti a sé una sfida esistenziale cui non dovrebbe poter rispondere lasciando ad altri il compito suo. Infatti: ad altri chi? Che cosa sarebbe ciò che risponde a tale bisogno di verità, di scoperta, di invenzione, se non la poesia che, nella piena coscienza di sé, fa deontologicamente il suo lavoro?





lunedì

 

Quanti problemi per chi si accinge a scrivere oggi!... Mah, credo però che sia sempre stato così, consapevolmente o no.

 

 

primo aprile

 

Sull’aereo più o meno un centinaio di persone che da Roma vanno a Budapest. A occhio (e orecchio) pare che siano tutti italiani. La statistica dirà altro, ma il mio gioco mentale è che Roma voglia fare un pesce d’aprile a Budapest scaricandosi tutta lì, sopra il Danubio, con questa e con altre ondate aeree. 

Comunque nessuno dei miei aerei consorti qui associa questo volo con quello finito male altrove (ammesso che oggi altrove non sia poi qui, proprio in virtù di queste faccende di diciamo comunicazione svelta, insomma smart). Chiacchierano paciosi, osservano le nuvole ad altezza d’uomo, leggono bestsellers (o anche solo qualcosa di seller, da fatturato, ma, va da sé, comunque da viaggio), ricordano cose, rifiutano le offerte poliglotte di stewards and hostess i quali (e le quali) intanto, scorrendo inutili lungo la corsia, s’intrattengono, ragionevoli, fra colleghi su fatti loro.

 

Io ritengo di dover credere che stewards and hostess vadano così elaborando la frustrazione di quelle ridicolizzanti recite apotropaiche, ripetute prima d’ogni volo, circa punti di fuga e gesti portafortuna in caso le cose, qui, vadano storte. Brutto sarebbe, per loro ma anche per me, se mi abbandonassi a presumere che, in questa come nelle altre sette-otto situazioni che la vita disegna ogni giorno per stewards and hostess come per tutti, essi (ed esse), senza star lì troppo a pensare, recitino soltanto, sordi e atoni (sorde e atone), lungo la stereotipata schizofrenia quotidiana di un monocorde si fa così.

 

Atterraggio. Grigio. Pioviccica.

 

Infastidisce la scarpinata umida dalla pista al terminal.

Ti devono per forza far notare che il tuo è un volo low cost.

 

Il taxi invece procede spedito nel gran traffico serale e tu senti che Budapest, come ogni analogo hub dell’esistenza, a quest’ora è compiaciuta di presentarsi capitale e dunque appunto nodo di vita, motore acceso, un gran luogo, dove si elabora e decide.

Per le strade scorrono e corrono auto, autobus e tram, ma non tutti i fruitori di quei mezzi intendono volgere verso qualche loro serale intimità. C’è ancora da fare, prima che la giornata si esaurisca.

 

Al centro, però, il traffico ha un intoppo, circa all’altezza dell’Oktogon.

 

Si chiama così la piazza ottagonale più o meno a metà del nagykörút cioè del grand boulevard che, cambiando continuamente nome, attraversa l’intero centro di Pest, insomma dell’intera città, per terminare infine dove comincia l’Isola Margherita. Come dire che termina con il ponte che fa da confine tra Pest e le colline di Buda.

In onore dei costruttori dell’Ungheria moderna, ovverosia Maria Teresa d’Austria (d’Austria sì, questo il cognome, ma di quel paese lei era solo Arciduchessa, seppure regnante, mentre d’Ungheria era ‘Re Apostolico’, non so se mi spiego, in aggiunta poi era anche Regina regnante di Boemia, Regina regnante di Croazia e Regina regnante di Slavonia, Duchessa regnante di Parma, Duchessa regnante di Piacenza, Duca di Milano, Duca di Mantova, infine Granduchessa consorte di Toscana e Imperatrice, purtroppo consorte, perché il poco illuministico Sacro Romano Impero non ammetteva donne regnanti e bisognava arrangiarsi con le forme giuridiche a disposizione... come dire: fatta la legge, trovato l’inganno...).

Il costruttore seguente dell’Ungheria (moderna) poi è stato suo figlio Giuseppe II. Per cui appunto il grand boulevard budapestino (inventato quando è stata inventata a città, vale a dire nel secondo ottocento, quando Parigi era Parigi) ha nome József körút da un lato, Teréz körút nel tratto più centrale e infine nell’altro lato, in onore dell’originario santo Stefano, primo re ungherese cattolico, viene a chiamarsi Szent István körút. Alla fine del quale, il boulevard poi sfocia, come detto, nel Margit hid, ponte sul Danubio dove, nel fiume naturalmente, inizia a sua volta la Margit sziget, l’isola che nel Duecento ospitò, da monaca, una principessa reale di nome Margherita.

 

Tale monaca rimase a lungo beata. Poi però Pio XII la santificò, nel 1943 la innalzò alla gloria degli altari. Non so se abbia un significato che nel pieno, anzi – dopo Stalingrado – all’apice di quella guerra e allo snodo di tutto, con i gran pensieri che aveva per la testa, il papa trovasse invece il tempo di dedicarsi a una faccenda in fondo opzionale, dato che il relativo processo canonico di santificazione durava da secoli – leggo, in wikipedia, dal 1271 – e non era bastata ad accelerarlo, il processo, neppure la circostanza che, pare, Margherita d’Ungheria fosse una delle voci occulte di Giovanna d’Arco nel 1425.

 

Né so d’altronde se abbia un significato, poi, che oggi tale spazio valga, e non solo per le agenzie di viaggio ma di fatto, come l’attuale Woodstock europea, cioè come il luogo autentico di una lunga kermesse agostana, pop, folk, blues e soprattutto rock, per giovani liberati non-stop per un mese in una sorta di annuale island of freedom. Boh!

 

Dunque grosso modo all’Oktogon un ingorgo.

C’è un ingorgo nel senso che le auto private sono in fila e stop, anche se resta ancora libero un margine stradale per i bus e i taxi.

Il nostro taxi scorre, infatti, ma il tassista ci avverte subito che durerà poco, al massimo fino all’inizio di Szent István körút, cioè – almeno così capisco io – all’altezza della Stazione dell’Ovest (ohé, qui alla Nyugati pályaudvar ci ha messo le mani temporibus illis perfino Eiffel, sì quello, quello di Parigi, quello della torre).

Perché?

 

Beh, a far imbottigliare il traffico sono i lavori per il rinnovo delle rotaie tranviarie lungo tutto il grand boulevard, addirittura anche oltre il ponte Margherita e, una volta a Buda, fino a piazza Mosca.

Il tassista non sembra convinto della cosa, dei lavori, ma fa un gesto come a dire tant’è. Comunque lui, come tutti i tassisti, con i tempi del destino, naviga nel traffico fino a destinazione.

 

Insomma tutto il mondo è paese. Mi ritorna il ricordo, con un brivido, di come l’anno scorso, una volta che avevo preso la macchina per fare presto perché ero in ritardo, io sia finito imbottigliato dentro il traffico del centro romano, intorno a piazza Colonna, tanto che, depresso, mi ero convinto di non venirne più fuori, se non con l’aiuto della forza pubblica.

In quell’occasione, per salvarmi l’anima, ho voluto pensare che ciò fosse: una teorica claustrofobia, della vita allegoria e dunque così sia.

Sì: le canzonette, le rime, servono, sono una spinta verso il poetico, che è il reale reale, il multipiano delle cose, il loro essere complesso, che sta lì invisibile o almeno astruso, occultato dietro la banalità piatta e sbrigativa dell’emotivo quotidiano.

 

Solo che queste strade, qui a me, fanno sempre un certo che. Questi viali budapestini sono il percorso di uno dei cortei, credo quello principale, di quel giorno di fine ottobre 1956 in cui la gente andò al palazzo del parlamento per contestare il governo, dando inizio a quella celebre ribellione popolare contro il potere comunista così com’era... o contro il potere comunista comunque?... o contro il potere cattivo?... o contro il potere in sé?... ma, insomma, per che cosa?

Resta che in fondo ogni potere ha oggi un potentissimo nemico potenziale: la vita quotidiana delle persone... 





giovedì

 

Invito al Teatro dell’Opera. È Pasqua e dànno La passione secondo Giovanni di Johann Sebastian Bach. P. ha i biglietti per sabato.

 

Io in generale non sono attratto dalla musica severa delle cantate, non l’ascolto volentieri, è quasi salmodiante ma senza l’umiltà esplicita, autentica, della salmodia, e meno che meno ascolto volentieri la musica cantata in tedesco, dove le parole non hanno anche una loro melodia, sono soltanto, mi sembra, rude occasione concettuale.

Questo a mio gusto, naturalmente.

Inoltre c’è quest’altro fatto della teatralizzazione. Forse perché le cose austere mi sembrano alludere a una loro verità più schietta di quanto non appaia al primo contatto e dunque sempre, per principio, l’ambientazione, quanto più cerca di farsi valere tanto più, la senti non sufficiente, ti lascia il senso di un che di mancato per abuso.

 

Comunque non dico di no. P. d’altra parte, oltre ad essere una persona con cui sto volentieri, vuol essere persuasivo. Argomenta che la novità di questa edizione budapestina è la messinscena: l’esecuzione sarà (giustappunto!) teatralizzata dalle coreografie di un balletto all’interno di una scenografia operistica...

 

 

venerdì

 

Nei giorni trascorsi ci siamo arrangiati a fare le compere qui nel quartiere, oggi però finalmente andiamo a piazza Mosca, per rifornimenti più consoni alla nostra cucina. Potremmo anche andare al Westend della Stazione Ovest, che in fondo sta più vicino, ma è un supermercato compra e scappa, a noi non piace. Comunque la ragione vera è che non hanno niente (nel senso, credo, che non hanno i buoni beni bio).

 

Invece la passeggiata fino a Moszkva tér per me è assai gradevole: percorso l’ultimo tratto di Szent István körút, attraversi il ponte e, una volta sul territorio di Buda, ti fai l’intero Margit körút alla fine del quale sulla grande piazza (che tuttavia troveremo un po’ scombussolata da lavori stradali) regnano maestosi i due edifici Mammut, in uno dei quali, quello con davanti la statua di un mammut (piccolo e perciò giustamente un po’ stralunato, come, mi pare, sempre i mammut in condizioni di civiltà), c’è dentro, al secondo piano, un settore prezioso, ad angolo, formato da un negozio di alimentari italiani e da due negozi biologici, uno di prodotti europei in confezione e uno di frutta e verdura fresca più o meno indigena, però con un’esibita aria strapaesana. È un po’ più caro, ma insomma.

Il problema nasce dopo, quando, borse bisacce e buste stracolme, vorremmo ovviamente evitare la faticaccia del ritorno a piedi.

Ai tempi beati del prima, prendevamo tranquilli il tram, giusto quattro fermate (posso sbagliare, non le ho mai contate), poi alla fine del ponte e all’inizio di Szent István körút scendevamo e avevamo solo da scegliere se intraprendere le vie interne del quartiere o fare il giro esterno, più o meno lungo uguale, passeggiando per un tratto davanti alla facciata belle époque del Vigszínház ovvero il Teatro Comico.

 

Oggetto urbano che a me sta simpatico anche perché vi hanno sistemato davanti a gloria, con mia sorpresa, anche un busto di Sándor Petőfi, che – ma io non so quasi niente in proposito – ignoravo fosse un autore teatrale... Epperò da questo poeta ragazzo, morto a ventisei anni, c’era da aspettarsi di tutto... Se ho capito bene, non ha scritto cose teatrali sue, ha però tradotto il Coriolano di Shakespeare, probabilmente per contribuire a qualificare letterariamente il teatro nazionale ungherese. In fondo, chi l’avrebbe detto che, nato serbo-slovacco in Romania, a quell’età divenisse lo zoccolo duro in letteratura e in politica del progresso nazionale ungherese per tutto il secondo Ottocento!... e oltre! Altro che i nostri letterati bamboccioni in cerca angosciosa di padri a qualunque costo!

 

Adesso però, senza rotaie praticabili da un tram, questo trasporto su gomma, non so perché, ci risulta un’altra cosa. Di mala voglia ci adattiamo. Tutti sembriamo più impacciati. Anche loro. Non sappiamo se scendere, salire, di qua, di là. Loro seri, come con la testa altrove. Anche l’autista ho il sospetto abbia la mente occupata da un suo pensiero dominante, cioè che intenda dimostrare qualcosa, chissa che, con quel suo  torpedone lungo un treno. Fatto sta che al ponte il bus stoppa secco e, mentre tutti, anche se avventurosamente, si tengono appesi comunque, io all’opposto rotolo addosso a uno di loro tutti, seduto. Però mi tiro su, ritengo, con energia e decoro. Nell’amaro comune silenzio, estraneo, il giovanotto qui di fianco guarda ex post comprensivo... non me, guarda... poi chiede incomprensibile qualcosa, rispondo in italiano scusi, lui intende che sia un sospiro di coltivato sdegno rattenuto, sorride solidale e, scansandomi, scende ultrasvelto prima di me.

 

Noi appresso, a passo flemmatico, meditativo. Scegliamo di portarci chiacchierando davanti al Teatro Comico... e di lì poi infilarci come al solito in una delle vie disponibili, fino a casa.

 

 

sabato

 

Stasera dunque con P. e Cs., due amici. Teatro dell’Opera e Johann Sebastian Bach ammodernato. Vigilia di Pasqua. Il solito pubblico dei concerti di musica classica.  Chissà. Tutto congiura verso la serenità spirituale. 

 

Dopo invece esco sconcertato. La teatralizzazione di una cantata alla fine mi incuriosiva in sé, tanto più trattandosi di una cantata sacra... Ma una teatralizzazione totale!... Mancava addirittura un vero direttore d’orchestra... Se ho decifrato la situazione, ha diretto l’orchestra il maestro del coro...

 

Ecco perciò che il tessuto continuo di prosastici, quasi sommessi recitativi e corali, tipico della cantata, – interrotti qua e là da brevi, sobri strappi ariosi (spesso affidati alla voce del basso) o da rare arie (tenorili, certo, ma per tenori in sostanza recitanti, da cantata sacra appunto), dove persino l’urlo terribile e violento si stempera musicalmente in un coro, – tale tessuto discorsivo cupo qui è stato sceneggiato, strutturato in figure interpretative.

Si tratta di due grossi, immoti complessi corali, angelicamente biancovestiti, uno maschile e uno femminile. Due blocchi bianchi che insieme a un tenore narratore, ma teatrale, molto tenore, valgono da struttura portante di una azione scenica interpretata tramite coreografie lievi, impalpabili, o scolasticamente drammatiche ad opera di due leggiadri gruppi danzanti, di nuovo uno maschile e uno femminile, e di nuovo vestiti di bianco.

Il tutto nel contesto scenografico di uno schematico enorme ambiente chiesastico disegnato soprattutto da uno sfondo sghembo di finestre dipinte, evocante una chiesa imponente, già cattedrale.

Nel suo interno talune figure sceniche singole, tra cui spicca in primo piano un solenne Gesù solitario, alto e regale, talora seduto maestosamente, ma più spesso eretto nella famosa sua tunica inconsutile, poi drammatizzata da un mantello rosso porpora e da una corona di spine, ma ambedue figurazioni vuotamente solenni, quando arriva il loro turno, per niente strumenti stridenti, come vorrebbero essere, di volgare irrisione verso il Cristo. Un Cristo in tunica inconsutile, ma naturalmente bianca come, del resto, immancabilmente quella della Madre, una giovane Maria, coperta oltretutto da un muliebre acconcio ed edificante manto esteticamente celeste.

Sono soprattutto queste due incredibili iconografie da santino appunto edificante che, ai miei occhi, con la loro dissacrante simbologia piatta e grezza e violentemente irreale, parlano sopra una struttura artistica, poetica, incongruamente sottratta, tramite una messinscena frivola, alla sua volontà tragica.

 

Esco che dubito di me stesso. Per questo non parlo, non commento. Non mi fido. Credo di essere troppo cerebrale per comprendere con la giusta apertura la mite realtà delle cose, a volte semplice, forse inelegante, non sofisticata, ma, anche se turistica, schietta e buona. Forse.

 

Rifletto tra me e me che devo aver cominciato storto, fin dall’infanzia addirittura, e senza che qualcuno, accortamente, mi raddrizzasse.

Mentre tra la folla in dismissione dal suo ruolo di pubblico (che, nonostante le mie buonissime intenzioni, molto molto amichevoli, mi pare, sempre più, proprio turistico e anche parecchio), mentre usciamo dal teatro, la memoria mi corre da sé  a un mio episodio lontano. 

Avevo tra gli undici e i dodici anni, frequentavo una scuola che più cattolica non si può. All’aprirsi del periodo natalizio il professore di lettere ci aveva assegnato come compito per le vacanze un tema, naturalmente Il Natale. Lo svolgimento era libero. Ciascuno poteva dire, soprattutto con sincerità, quel che pensava, senza scervellarsi troppo, ed essere o lungo o breve a sua scelta.

Io riempii una sola pagina. Ricordo che dicevo più o meno come al mondo ci fosse stata un tempo una grotta, bene scavata nella roccia, la quale a un contadino serviva ottimamente da riparo per le bestie quando il sole scottava e lui poteva tenere i buoi lì all’ombra, magari a mangiare un po’, a ruminare e sonnecchiare, perché in quel momento il suo lavoro non era arare, era altro.

Era quasi una stalla, la grotta, con una mangiatoia accomodata alla bell’e meglio.

Per terra nessuno mai puliva e il puzzo era tanto. Un vero fetore. Lo sterco il contadino lo raccoglieva in un angolo tutte le volte che faceva uscire le bestie.  Solo di quando in quando però lo portava poi via, per concimare il campo.

Allora magari ne approfittava e si fermava lì dentro per qualche lavoretto secondario. La notte però mai, perché lui, pure povero, aveva una casa per dormire, come ogni famiglia.

Quella sera aveva lasciato il bue a dormire nella grotta, mentre la vacca l’aveva portata con sé, per mungerla nella stalla all’alba.

Quella sera Maria e Giuseppe, passando lungo il sentiero, lei sull’asino lui a piedi, videro che il padrone aveva dimenticato di sprangare la porta.

Decisero.

Entrarono con l’asino per riposare durante la notte, lì al coperto. Misero l’asino accanto al bue. Loro due davanti, per scaldarsi al loro fiato.

Quella notte, in quella grotta, nacque Dio.





Il Teatro dell'Opera di Budapest


Forse.

Probabile che allora si è plasmato il mio gusto narrativo, in entrata e in uscita. In ogni caso, per me oggi l’arte è scoperta della realtà vera, la realtà così com’è (agli occhi di chi la guarda e nelle mani di chi la dice), ne risulta un lavoro di scavo a cielo aperto, scombussolante e interminabile.

Un lavoro così, diviene finto quando lo si abbrevia e interrompe (rendendo il risultato incomprensibile) tramite etichette, formule, ricette, cornici, tanto più quando queste, ipocritamente, vogliono essere buone e cordiali e confortanti come i santini.

Forse è questo.

 

P. e Cs. domani, che è Pasqua, la mattina presto sono impegnati con qualcosa di sociale. Non spiegano. Ciò nonostante, poiché è una bella serata trasparente, volentieri passano un’oretta con noi.

Se proprio vogliamo, come noi diciamo di volere, possiamo anche andare lì accanto in quella immensa, grandiosa libreria-gran caffè (ex grandi magazzini a più piani, con muri dipinti a scene e figure del tempo della Secessione) dove potremmo chiacchierare amabilmente e prendere qualcosa.

La discrepanza è che noi non abbiamo cenato, loro sì, alle sei, prima di venire a teatro, come si usa qui, ma preferirebbero, data la bella occasione climatica, una giratella turistica, con noi.

Per fortuna, la libreria sta chiudendo. Anzi: è proprio chiusa – ci sorride a gesti risoluti una cameriera bella presenza – la ristorazione tanto più.

 

Loro sono venuti in macchina e hanno intenzione di accompagnarci a casa. Propongono di allungare il tragitto, con una deviazione sul monte Géllert dilà dal Danubio, sopra i bagni termali, per un’occhiata al panorama notturno della città quasi da primavera. 

 

Lassù è suggestivo.

Pari pari come, prima, – il Cristo di fronte al tradimento dell’umanità e la madre di fronte alla morte del figlio (ambedue in quel frangente sicuramente disperati) nella cantata operisticizzata per i turisti avevano subìto la manipolazione edulcorante del santino artistico, – adesso qui la città (di suo, là giù di sotto, malamente dissestata) risulta falsamente scintillante di luci, armoniosa di ombre, sentimentale come, va da sé, una cartolina illustrata.

Una cartolina, anch’essa edificante, che, forse perché poggiata sulle magnifiche terme e progressive qua sotto (le celebri, così dicono e scrivono tutti, Terme Géllert, di cui non so altro), sa di panorama a cinque stelle, di paradiso terrestre di lusso, per attingere il quale, come previsto stante la venialità dei nostri peccati (si sa, il turismo rende né buoni né cattivi), abbiamo attraversato il purgatorio, quello strano piccolo tormento delle strade cittadine maggiori dissestate, da lavori dissennati.

 

O almeno lo sembrano, dissennati. No, chiarisce P., saggio e ragionevole, non è dissennato scardinare qualche chilometro di strada in simultanea, è obbligatorio: lo impongono i finanziamenti europei all’origine di queste ristrutturazioni, fondi che vengono stanziati a termine, onde oltre una certa data scadono. Le autorità lo hanno comunicato formalmente, in tv.

È l’Europa, bellezza!

Chissà.

 

Come la vedono qui, in generale, l’Europa?

Beh, – a quanto ho capito, – se non fosse per non prestare il fianco alla chiusura autoritaria e afosamente sciovinistica del potere nazionale qui in Ungheria, un po’ da ridire ci sarebbe. Perché, insomma, un po’ più di fluidità culturale... (P. ha alzato le sopracciglia e, proprio da professore, ha aggiunto un sorriso di compatimento...)

Per esempio?...

Niente... è che qui arrivano solo prezzi, affari, finanziamenti, tasse... scambi... Per esempio, – si fa per dire, naturalmente, – da lui (P. è il preside del Liceo italiano di Budapest) quest’anno è iscritto un ragazzo italiano, più o meno un sedicenne, che impara a giocare a calcio... 

Cioè?...

Sì, è nel vivaio...

Nella cantera?...

Non sa... nella squadra giovanile di una società importante di qui...

Che squadra?

Sì, l’Újpest... e pare anche che vada bene... quindi!... invece non parla una parola di ungherese... ah!... Insomma... come dire?... culturalmente non va, è refrattario alla cultura.

Ah!

Ebbene! Si ritiene che non importi!

 

Io, nel segreto dell’anima, trovo modo di consolarmi tra me e me.

Così: cioè tra me e me voglio credere fermamente che la macchina fotografica, culturalmente nutrita da me, abbia acquisito un’anima.

Infatti, mentre la manipolo per scattare dal colle meravigliao, che panoramico gentilmente si presta, qualche foto turistica appropriata... e così non farmi mancare nulla, – date le circostanze, sto stoicamente aggeggiando, – improvvisamente quella, la macchina, riottosa s’abbuia.

Ecco, accecato controluce, non riesco proprio a orientarmi dentro la sua ricca offerta di congegni e sofisticherie tecnovisuali proliferanti tramite rotelle e pulsanti e bottoni e levette intelligenti (sì sì, smart), anzi più tocco e struscio e manipolo, più dubito di operare, inconsapevole, per lo sfascio e la rovina finale della povera macchina a suo modo liberamente contestatrice, controculturale (c’era una volta!).

Lascio perdere. Rimarrò senza la memoria dell’evento... che perciò, tragicamente, verrà da me perduto, non diverrà mai un fatto, uno dei miliardi di miliardi di eventi nell’universo in questo istante, così bello... 

 

P., giù lungo il tragitto, si consola, a sua volta vendicativo, ma mite, con Moszkva tér: gli scavi, qui condotti più culturalmente che altrove, pare abbiano prodotto un complicatissimo risultato inatteso: il blocco dei lavori, per la scoperta sotterranea di, non so, un forno o che, insomma un reperto archeologico il cui recupero prolungherà di parecchio il cosiddetto disagio della cittadinanza.

 

È l’eterogenesi dei fini, filosofeggio a buon mercato tra me e me, ma non lo dico, perché ho il dubbio che questo spunto dialettico abbia ormai spazio quotidiano soltanto in Italia, nel paese piccoloborghese delle parole che fanno scena. 

 

Però, la cultura come disagio per la cittadinanza! Ecco il tempo futuro che viene!

Anche qui, in questa città, – dove una volta il termine cittadinanza indicava le masse lavoratrici stricto iure al potere, che perciò affermavano una nuova cultura (anche se di fatto né erano al potere né era nuova la cultura che affermavano), – anche qui, dunque, pare che la cittadinanza inizi a sentirsi gente futura (tradotto e in rima: non ne può più della cultura).

 

In realtà ­– rammento a me stesso autocriticandomi – il corso genetico è inverso: la cittadinanza, se si fa prendere da un sentimento di avversione verso la cultura, diventa sic et simpliciter gente, né passata né futura. Si ha il fenomeno gente. L’uomo qualunque, senza più nessuna credenza. Infatti, è senza qualità, non ha neppure sostituito la religione con il valore pensiero. Non crede più a niente, nemmeno a se stesso come popolo. Nessuno vuol essere popolo oggi.

 

Ma, a proposito, perché questi scavi a Moszkva tér? Qui le rotaie...

È che l’Europa finanzia... sussidia la cultura, mica l’economia! Almeno così capisco. Per cui le ragioni di tali lavori devono essere culturali... l’estetica della città et similia.

 

Così forse si spiega anche che questa piazza non si chiami più piazza Mosca, ma Széll Kálmán tér, recuperando culturalmente il nome che ricevette quando fu costruita la prima volta come centro di una periferia. (Kálmán Széll era stato primo ministro agli inizi del Novecento, durante la Monarchia, e qui allora la città era pura periferia). Prese il nome di piazza Mosca anni dopo, durante il comunismo, quando divenne lo spazioso centro di una serie di nuovi quartieri sul fianco del colle che culmina con il Castello di Buda e dall’altra parte sul fianco della ricca Collina delle Rose.





Il Castello di Buda


domenica

 

Mi ricordo che ieri ho sogghignato divertito quando ho saputo che il russo Vladimir Vladimirovič, in visita calorosa qui a Budapest un paio di mesi fa, non si sa, ma pare sia rimasto assai perplesso, oltre che seccato, avvedendosi che piazza Mosca non c’era più.

Pare, ma dev’essere una storia inventata senza costrutto, pare che, per consolarlo o comunque rabbonirlo, lo abbiano portato a passeggio in non so più quale altra bella piazza (Budapest sembra Roma, ne ha più di una di piazze belle), ma che la cosa non abbia dato esito positivo: Moszkva tér era ed è Moszkva tér... È come se a una persona gli cambiassi improvvisamente nome: quello era ed è il signor Roderigo Rossi, non lo puoi chiamare d’improvviso dottor Benedetto Bianchi.

Chissà, il buon Putin, quante cose si sarà ricordato legate a Moszkva tér, cose magari del tempo in cui lavorava in Germania, lontano da Leningrad ma insomma anche da Moskva, e veniva qui in vacanza per lasciarsi cullare dal fascino lieve del panorama budapestino e dalle passeggiate serene verso quella piazza lieta.

 

Non so perché le persone – pur sempre a passo svelto, come usa qui per fare gli indaffarati, – nel territorio di piazza Mosca secondo me hanno tuttavia sistematicamente l’aria di correre perché attese da amici.

 

Oggi abbiamo visto Gy. e famiglia. E il discorso è caduto sulla situazione politica. Questo perché io vorrei sapere se il proclama dell’anno scorso di Viktor Orbán, il primo ministro, abbia o no avuto un seguito.

Orbán si è fatto ideologo e ha proclamato un nuovo progetto politico, autoritario ma non dittatoriale, che dovrebbe servire da guida per tutti quei paesi – e secondo lui sarebbero tanti e importanti – che vogliono superare la scelta fra modello sovietico e modello occidentale, tra dittatura comunista e democrazia liberale.

 

La notte passata ho riflettuto sul tema.

I modelli sono costrutti intellettuali, spesso fascinosi, ma per loro natura teorici, i quali dunque per funzionare nella realtà avrebbero bisogno di fermare l’attimo della loro elaborazione. E in sostanza fanno proprio questo, naturalmente perché quello (in soggettiva) è bello.

Invece persino davanti a un algoritmo, modello operativo così sofisticato da sembrare una sostituzione perfetta del meccanismo duttile della vita, ci rendiamo conto, al dunque, che stiamo sempre adeguando il moto vitale nostro, la scelta nostra, alla decisione sua, di fatto predeterminata da tempo e per noi predeterminante perché, per sua natura, se possiamo dire così, lui, l’algoritmo, è un preconcetto, non ci segue, è un modello, è teorico e ci precede.

 

L’andar per modelli dunque, anziché procedere tramite analisi concrete delle situazioni concrete, in politica è di destra, produce conservazione (perché è un falso movimento, assiomaticamente estraneo, quale che sia l’assioma, alla imprevedibile dinamica effettiva della struttura di potere in cui una società, mutata secondo quel modello, di fatto consisterà, struttura conoscibile solo nel suo reale divenire e nel suo ulteriore bisogno di nuove modifiche reali).

Infatti in politica può introdurre un modello di cambiamento soltanto chi abbia il potere di farlo e sarà dunque il potere di costui la contraddittoria condizione da non cambiare per cambiare la struttura di potere secondo quel modello, il quale di fatto è obbligato a reggersi sul potere esistente esattamente come la realtà che esso sarebbe destinato a cambiare. Agire per modelli è conservazione del potere esistente.

 

Il cambiamento sociale, richiesto dai nuovi bisogni, consiste dunque nel cambiamento della struttura di potere adeguandola al loro soddisfacimento. Perché ciò avvenga occorre, prima, una elaborazione culturale concreta. Senza la quale si va per modelli, verso la conservazione di un potere singolo, definito a priori. Ed ecco che l’elaborazione culturale concreta, vale a dire l’analisi strutturale dei poteri (politici, economici, sociali in ogni campo), è di sinistra, giacché è premessa di cambiamento.

Quest’ultimo ha luogo, quando ha luogo, nel continuum del concreto della vita, cioè indipendentemente dal verificarsi di eventi clamorosamente sovversivi. Giacché un evento rimane un evento, vale a dire che – anche quando assurga nella vita degli individui alla qualità di simbolo sacro – resta un momento sentimentale, quindi caduco se privo del nutrimento culturale adeguato, nutrimento sine qua non e dunque appunto da produrre o prima o durante o dopo il verificarsi di quell’evento.

Un evento rivoluzionario non è e propriamente non può essere altro che un tentativo di affermare nell’immediato materiale, drasticamente con la forza, il principio di un cambiamento. Dopo l’evento, però, resta il problema di rendere vita pratica, cioè organizzazione dei poteri e comportamento degli individui, quel principio proclamato, e cioè il problema di costruire punto per punto, nella realtà secondo la realtà, la cosa.

 

Altro che modelli preconcetti!

Anzi va aggiunto – passando ad altro, nonostante il nesso sembri tirato per i capelli, ma non lo è – sentimentale resta anche l’uso del premeditato, magari anche del prefabbricato, nell’arte in genere e in letteratura in specie. In questo campo una simile mossa sfocia di per sé nell’estetistico gratuito, e facilmente addirittura nella moda o nel preconcetto ideologico, in quanto lo sguardo preordinato dal modello teorico priva il fare artistico della propria autonomia creativa, della libertà di risposta ai problemi vitali del mondo come fonte della propria dinamica, vale a dire della originaria produttività psichica degli individui, il che deprezza, disattiva e infine devitalizza, in ipotesi e di fatto, l’io, l’intimità personale come forza di produzione di vita, soprattutto artistica.

 

Racconto a Gy. che noi in Italia, o almeno io credo che, siamo rimasti colpiti dal fatto che il primo ministro ungherese abbia decretato la inefficienza del modello democratico occidentale, il quale – secondo tale ragionamento – non potrebbe essere la soluzione dei problemi per un paese come l’Ungheria, da oltre un quarto di secolo uscito dal modello sovietico e in cerca appunto dell’efficienza. (Con i tempi che corrono, sembra che siamo tutti in cerca dell’efficienza, commento nella pacifica incomprensione di Gy.) Tant’è che persino la Russia ha imboccato la strada della invenzione di un modello nuovo.

Ora, secondo quanto io so del discorso di Orbán, l’attuale regime autoritario russo non si distingue, come modello teorico, dal modello che sta sotto al modo di funzionare della Cina e a quanto comincia a succedere, per esempio, anche in Turchia.

Ma poi la cosa attrarrebbe, appunto come modello, tutti quei paesi che hanno bisogno di efficienza operativa ai fini di un sano sviluppo nazionale. In un mondo dominato dai grandi potentati (beh, se le cose vanno male qui, qualche cattivone responsabile là fuori ci sarà pure!)...

«Dobbiamo abbandonare i metodi e i princìpi liberali nell’organizzazione di una società», ha teorizzato con ardito pensiero Orbán poco tempo fa. Cosicché gli ungheresi starebbero «costruendo uno Stato volutamente illiberale», insomma «uno Stato non liberale».

 

A questo punto non so, – confesso a Gy., che tace cortese, – a questo punto subisco l’usuale ricatto della ragione (cioè, chiarisco: domàndati sempre se, in quello che non capisci, si nasconda una verità che tu non vedi) e mi chiedo: modello democratico occidentale per lui vuol dire Stato liberale o Stato liberista? Non ce l’avrà col liberismo, che è senza dubbio il minaccioso cancro, forse congenito, dello Stato a tradizione illuminista, il quale invece è anzitutto tutore della libertà dell’uomo?

Ma ecco il chiarimento di Orbán, comunico a Gy: «I valori liberali dell’occidente oggi includono la corruzione, il sesso e la violenza». Lui, Orbán, la cosa l’ha capita così.





Viktor Orbán e Vladimir Putin


Anzi, – ne deduco per Gy., – il liberismo, inteso come libertà del privato di fare come gli pare in economia, anche l’evasore fiscale e il corruttore quando ha a che fare con lo Stato, il liberismo a Orbán non gli dispiace per niente. Vero che qui in Ungheria tutti dànno come ovvia e diffusa la corruzione. Ma (ecco il ricatto della ragione) va a sapere se è per vera conoscenza concreta o per psicologia qualunquista.

E spero che Gy. mi chiarisca il concreto, – comunico a Gy., – perché, com’è noto, l’opinione pubblica meno sa, più sparla. Anche se – per dirla alla andreottesca – poi sempre ci azzecca.

Gy. ha accolto perplesso il riferimento misterioso contenuto in quel mio concetto sconosciuto: andreottesco. Poi, accoglie la spiegazione sollevato. È d’accordo: la corruzione in Ungheria è un malanno impressionante.

E però, insisto io, può essere, come in Italia, una questione culturale, da addebitare dunque al vecchio regime.

 

È che, almeno nella società di massa, tutti gli assetti politici, a me sembra, una volta esaurito, bene o male, il compito che li ha generati, scomparsa dunque la loro giustificazione oggettiva, si assestano a regime e lì la cultura che li ha nutriti sino a quel momento si trasforma in abitudine immotivata. L’individuo non sente più dentro di sé un sensato motore etico, ma soltanto, fuori di sé, un ambiente neutro che continua ad aspettarsi da lui i vecchi comportamenti, ora immotivati, e dove egli può farsi valere unicamente in quanto mera presenza.

L’individualismo amorale e l’abitudine comportamentale immotivata, ora oggettivamente richiesti per vivere e pretesi dal regime, si fondono a quel punto in una sorta di incultura del sotterfugio, del sottobanco, del sottinteso, del sotterraneo, del sottobosco, del sottogoverno, del sottaciuto, del doppio regime mentale, insomma in una schizofrenia che dà psichicamente per scontato il guadagno mio come valore e il guadagno altrui come disvalore, decadenza.

Homo homini lupus, vige il branco. Fino al nuovo assetto, che verrà se verrà e che vedrà chi vivrà.

 

Gy. è simpaticamente desolato, cerca comunque di parlare anche lui. Fa parte di una neoassociazione di socialisti che vogliono ricominciare, trovare una strada contro questo Orbán che, forse senza nemmeno accorgersene, per eccessiva fiducia in se stesso, sta portando il paese nelle braccia dell’ultranazionalismo nazista del partito degli Jobbik (letteralmente: i destri ovvero i bravi, quelli in gamba). Perché parlano semplice, – dice Gy. che la gente dice, ­– e la gente capisce quello che dicono.

 

Io penso, tra me e me, che questa richiesta corrente di un linguaggio comprensibile a tutti sia un errore retorico, analitico. Confonde comprensibile con persuasivo. La persuasività ha componenti che non sono solo linguistiche e dunque è a queste che bisogna guardare per vedere realmente ciò che sta accadendo. Anche un parolaio, dal discorso sostanzialmente incomprensibile, può risultare persuasivo per ragioni estranee alla qualità del suo discorso, così come può risultarlo un retore squisito o, poniamo, un eruditissimo intellettuale che ne racconta di tutti i colori senza che gli ascoltatori davvero capiscano. È che l’ascoltatore ascoltando dice i suoi bisogni, cioè traduce nel linguaggio di tali bisogni il senso che ricava da quello che ascolta. Insomma manipola e non è detto che sia davvero in accordo con quanto il parlante dice. 

Oggi per esempio l’opinione pubblica, con i suoi luoghi comuni circa il linguaggio parolaio dell’intellettuale, respinge preventivamente questa figura sociale, a prescindere dalla comprensibilità di ciò che da un singolo intellettuale in concreto ascolta o può ascoltare 

Di fatto il pre-giudizio in questione è un’arma culturale, in quanto la cultura che appartiene alla figura sociale cosiddetta la gente è tutta giocata sul fare, sul pensiero immediato, e dunque corto, inoltre guarda al fare come risultato e non come processo. La figura dell’intellettuale è così svalutata pregiudizialmente: il suo modo di fare è l’opposto della vita della gente. Venire a sapere, studiare, conoscere, provare, valutare, decidere, considerare che la decisione modifica la realtà, la quale non sarà dunque un risultato definitivo).

La gente (l’uomo qualunque, la vita quotidiana) tramite tale esorcismo o scongiuro, tramite dunque il suo fare  nei modi della propria cultura, intende espellere dalla scena, propriamente, non la pratica appunto della propria cultura (che produce gli azzeccagarbugli per i quali le parole sono orpello di fatti occultati), ma il risultato reale di quella pratica: la corruttela, cioè quella particolare anomia che vede la vita quotidiana funzionare tramite canali legittimati non dalla astratta normazione giuridica (dalla riflessione intellettuale), ma dal concreto costume dell’agire per gruppi (familistici, strapaesani, lobbistici, camerateschi, corporativi, castali, amicali, tribali e simili).

Non escluderei tuttavia – vado riflettendo tra me e me – che tale gesto di ripulsa collettiva si possa interpretare come bisogno e richiesta di figure intellettuali affidabili, cioè portatrici di un ragionamento oggettivo (inteso, vulgo, come scientifico e tecnico, ma in realtà) complesso e dunque organizzato.

 

Gy. racconta come nella sua nuova associazione abbiano discusso sul che fare. E però si sono ritrovati divisi tra coloro che pensano sia necessario illuminare la gente, aiutarla a capire il presente mettendogli davanti i fatti come stanno (a me viene in mente il Lenin che, oltre un secolo fa, fondava la Pravda, la verità) e, dall’altra parte, coloro che, come Gy. stesso, intendono invece che occorra fare, organizzare, perché questo è il linguaggio che la gente capisce. (Oddio, Lenin in effetti aveva scritto il Che fare... e però alla fine del ragionamento si era ritrovato appunto davanti alla necessità di un giornale, per far circolare la verità quotidianamente...).

 

Ma lui, Gy., a che pensa, per esempio?

Organizzare un crowdfunding per aiutare i bisognosi e denunciare così il dilagare della povertà nel paese... Gy. è abbastanza fiducioso nel suo metodo, lo ritiene l’unico adatto a fermare non soltanto Viktor Orbán, ma soprattutto (per la questione del linguaggio comprensibile) la demagogia populistico-nazista degli Jobbik, che lui, Orbán, – con la corruzione quotidiana che permette, come sempre accade nei regimi autoritari, e con i suoi discorsi teorici che nessuno capisce, – alla fine fa vincere. La gente va da chi parla chiaro.

 

Oggi, per esempio, mi chiarisce Gy., è successo un fatto importante: nella circoscrizione di  Veszprem, una cittadina di circa sessantamila abitanti, c’è stata una votazione. Si trattava di eleggere un deputato, uno solo, perché l’altro era decaduto. Nessuno si aspettava niente, quella circoscrizione è da sempre un roccaforte del Fidesz, il partito di Viktor Orbán. E invece ecco, la gente, che ormai non ne può più, di fronte alla miseria che si va palesemente diffondendo, comincia a non fidarsi di loro, per cui oggi non ha votato per il candidato del Fidesz, ma per un indipendente, un indipendente proposto però dagli Jobbik.

Di più: questa sconfitta tecnicamente fa perdere a Orbán la maggioranza dei due terzi in parlamento. Per un voto, da oggi non può più fare il bello e il cattivo tempo. E però così la situazione va a tutto vantaggio degli Jobbik, che oggi si fregano le mani. La situazione era brutta, adesso sta diventando peggio. Dall’idea dell’autoritarismo stiamo entrando nella prospettiva della dittatura e neonazista.

 

Chissà, quando un paese entra nella sindrome del degrado morale, quando ciascuno pensa soltanto ad arraffare o perché vive nel bisogno o perché domani potrebbe andare peggio oppure perché ciascuno ormai è convinto (la cultura, è sempre un fatto di cultura!) che la società sia una giungla e dunque si fa così, non ci sono prospettive diverse... anzi, a un certo punto, viene che neppure si formano più bisogni altri, solo quello di sopravvivere nel gorgo delle sopraffazioni, allora...





Una manifestazione del partito filo-nazista ungherese Jobbik


Sera

 

Mi viene in mente qualcuno che tempo fa mi parlava della giungla globale cui stiamo arrivando. Propriamente – diceva – cui stiamo tornando. A suo avviso, finora siamo vissuti credendo o volendo credere che  – nel buio del fitto della giungla del mondo – un certo numero di Stati civili fossero le radure da cui emanavano, per tutti prima o poi, la luce e il profumo del bel progresso, con il suo ordine razionale, sempre più raffinato, e i suoi valori alti, sempre meglio compresi. Noi non abbiamo voluto vedere – secondo tale versione della storia – che si trattava di enclaves provvisorie, e anche occasionali, costruite in un universo di rocce su una di queste da élites eretiche avvolte nel peccato edenico di Lucifero: voler costruire un paradiso terrestre per contrastare la forza, la volontà di potenza della natura. L’uomo sarebbe natura, secondo tale narrazione, e basta.

 

Già, ma oggi sappiamo che dei fatti della natura noi sappiamo solo un miliardesimo di miliardesimi e che ogni atomo di conoscenza in più è di fatto un acquisto nuovo che aggiunge, a occhio, almeno un miliardo di nuovi fatti ai fatti da conoscere. Solo che non vogliamo, ancora, cambiare le carte in tavola.  

 

E però il momento realmente negativo è, mi pare di capire, il crollo della volontà di sapere. Curioso: siamo entrati nella società della conoscenza e tutto, lo sviluppo, la produttività, il benessere, il progresso, il futuro, il presente, il passato, la ricchezza, il potere, la sicurezza, l’ordine, la giustizia, la tolleranza, la civiltà, la felicità, il piacere, la bellezza, la creatività, la salute, la serenità, perfino la serendipità, tutto ma proprio tutto dipende (quasi completamente) dai contenuti di sapere che implica... eppure diffusissimo è l’uso, come valore, del non-sapere.

Stupidamente viviamo secondo la favola feroce delle conoscenze: qualcuno che conosco stima se stesso assai più di un suo collega di lavoro perché le proprie conoscenze, nonostante la propria minore competenza, gli garantiscono una migliore carriera... è più giovane, ma già più avanti...

 




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