di Gualberto
Alvino
Un poeta, si perdoni la parola grossa, si aggira per la Rete (non
disdegnando di firmare quintali di fogli a stampa che, è certo, non lasceranno
segno alcuno): il poeta Claudio
Damiani (cofondatore, tra l’altro, di «Viva. Una rivista in carne e ossa»:
rivista? niente affatto: una serie d’incontri d’amatori di poesia con tanto di
tarallucci e vinsanto; manco Sua
Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti
ebbe mai il ghiribizzo di chiamar riviste le sue serate futuriste).
Ecco uno dei suoi ultimi parti:
Caro Sole, tu ogni giorno
non so quante tonnellate di materia perdi
e anch’io, ogni giorno, perdo qualcosa,
ogni giorno perdiamo un giorno
ma quando sarà finito il tuo tempo
si potrà dire di te: è stata una stella generosa,
per tutto il tempo ha illuminato e scaldato
i corpi intorno, senza fermarsi mai
dando tutto il possibile di sé,
sempre al massimo delle sue possibilità,
tutto quello che poteva fare l’ha fatto
e tutti sempre l’hanno ringraziato
e l’hanno adorato, l’hanno benedetto
e nella sua lunga vita lui ha sempre gioito
della riconoscenza di tutti.
Un Assisiate con ottocent’anni anni
di ritardo, ma quanto piccino al confronto («Et ellu è bellu e radiante cum
grande splendore»); un ammannitore di balbettii tanto stipati di bons
sentiments da
disgradarne un De Amicis («si potrà dire di te: è stata una stella generosa, / per
tutto il tempo ha illuminato e scaldato / i corpi intorno, senza fermarsi mai /
dando tutto il possibile di sé»); un crepuscolare fuori stagione stragonfio di
melassa («e tutti sempre l’hanno ringraziato / e l’hanno adorato, l’hanno
benedetto / e nella sua lunga vita lui ha sempre gioito / della riconoscenza di
tutti»: verrebbe da chiedergli: lo ringraziamo, il
sole, anche per i melanomi e gli altri disastri che combina?), lo
spessore dei cui prodotti non supera quello di una canzonetta o d’un carosello
televisivo canterino; eppure ‒
hear! hear! ‒ osannato da una non infima quota della comunità letteraria
(massime capitolina, il che ci è di gran conforto). Che ciò sia possibile, anzi
vero, dia l’esatta misura dello scempio cui ci tocca assistere.
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Silvano Tessarollo, Senza titolo, mostra "Twister", Napoli 2014
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Anni fa allestimmo in meno di dieci
minuti una parodiola che, se non c’inganniamo, vale ben più d’un’analisi
testuale con tutt’i crismi:
I vermicini bianchi e neri che della tovaglia ai bordi
tutti in fila come soldatini camminano
della pioggerella incuranti che dal cielo scende,
amore, non li vedi? Oh, della fila l’ultimo,
quello piccolino che un carico
a fatica più grande di lui trasporta
e nella mostarda scava del tuo panino
circospetto si guarda intorno, oh, non vedi,
amore, com’è dolce? Ecco, un altro dalla fila si stacca
e a camminarti inizia sul piede, sulla gamba,
sulla coscia, poi sull’inguine,
quella deliziosa scia di bava lasciando,
non hai, tesoro, di leccarla voglia?
I suoi compagni lo vedono
e uno dopo l’altro lo seguono
proprio come fossero tutti quanti dei soldatini.
Adesso sono decine, centinaia. Tra poco,
tesorino, saranno migliaia.
La tua gamba che formicola, guarda,
non è del mondo la cosa più tenera e dolce?
Ma perché, amore, tutta quanta spalanchi
la bocca e un urlo cacci
che i timpani mi ferisce? (oh, come sei carina,
hai d’insalata una fogliolina tra i denti
e le gengive tutte quante sono di mostarda piene,
c’è sul tuo canino anche un vermicino
che sembra mormorarti ti amo).
Ma perché, dimmi, la pelle ti si accappona
come quella delle oche
che felici sguazzano nel laghetto
circondato dall’erbetta verde
che sulla terra cresce sotto la pioggia
che dall’alto a cadere continua?
Non vedi come teneri e dolci
sono questi vermicini
mentre spariscono dentro di te?
Oh, come essere vorrei,
amore, uno di loro.
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