RESISTENZE
Insomma Fëdor, siamo qui ancora a ricordare
il buio
sottosuolo della tua casa morta
dove dannati
incoscienti resistevano
perché la libertà
sognata pareva loro più libera
della vera
libertà di chi abitava fuori
conserviamo memoria di
quella casa che tu,
Fed’ka definivi
morta – ot mertvogo dama,
“da una morta casa”, propriamente:
mertvyj è un
aggettivo, riguarda il “contenente”
se volevi
indicare il “contenuto”
usavi mertvec, colui
che è deceduto –
e se tali
eravate, memorie allora
a noi non ne
avreste lasciate
“... e noi, fratelli, davvero, che stiamo a fare qui?
Che siamo noi? Vivi, non siamo uomini;
morti, non siamo
defunti...” disse qualcuno
che voleva
andarsene e non come voi resistere
quasi lo
rimpiangi quel lurido cantuccio
compiacendoti, Fedja, certo, ma con orrore
come se nella
grandezza del dolore
ci fosse un
vero godimento
ma quelli come
te da questo lato
chiusi dentro la
palizzata
non stavano
peggio di chi era dall’altro
e si credeva
al sicuro
invece non lo era
poi del tutto
se un niente,
uno sgarro da niente
lo avrebbe
invitato al tuo tavolo
a mangiare
ogni giorno la zuppa di cavolo
la volontà ti
sostenne, Fëdor Michailovič
di tener duro
e riuscire un giorno
per te e per
gli altri a spezzare le catene
ed ecco che i
ferri, batjuška, caddero alla fine
ti appariva
strano di averli avuti sulle gambe
che si potesse
camminare senza, dopo tanti
tribolati anni. Un
nuovo passo
una nuova vita,
“la resurrezione dai morti”
finalmente quel
giorno tra canzoni e saluti uscivate
e la
fortezza dietro di voi si sbriciolava
(prestito/pretesto da Fëdor M. Dostoevskij)