LETTURE
FRANCESCO MUZZIOLI
      

Il richiamo del comunismo
(e altre stravaganze)

 

Roma, Robin Edizioni, 2014, pp. 109, € 10,00

    

      


di Mario Lunetta  

 

 

Muzzioli: critica poetica dell’odierna Pitalia

 

Se in Verbigerazioni catamoderne di Francesco Muzzioli resisteva un sottilissimo diaframma che sia pure in misura minimale distanziava magistralmente le due sfere di ideologia e linguaggio (soluzione a proposito della quale osservavo: “…le proposizioni muzzoliane non implicano alcuna concessione a schematismi di comodo, perché agiscono all’interno di una dialettica complessa, che corre costantemente sul filo della contraddizione storica, politica, culturale. Nel tempo, e contro il tempo che non si può mettere tra parentesi, come invece insiste a fare la proliferante deriva di troppa produzione poetica dei nostri giorni, contenta di sé e del proprio effondersi subliminale e sublimato”), ora, in un libro oltraggiosamente intitolato Il richiamo del comunismo e altre stravaganze, le due entità sono fuse in un unico blocco di discorso analitico-antagonistico, entro una dimensione di disputa collettiva che tiene costantemente al massimo la temperatura delle responsabilità. È superfluo osservare che in questo modo di procedere lo spazio del soggetto poetante è ridotto a livelli prossimi allo zero. Ciò che importa è che il grado semantico della scrittura non circondi il suo senso, ma lo penetri senza tregua, come un trapano elettrico a regime elevato. Ideologia e linguaggio, appunto: ma in un’operazione a specchio in cui sempre la prima si identifica con la seconda, e viceversa. Il linguaggio è ideologia. L’ideologia è linguaggio. E in questo senso l’enigmaticità del testo coincide con l’esplicitazione problematica della sua argomentazione febbrile, lucida, sarcastica, paradossale, tutta tenuta sul filo di un furor logico-politico che azzera qualsiasi tentazione di abbandono oratorio.

Il gioco muzzoliano tratta altri dadi, dei quali si preoccupa – prima di ogni lancio – di saggiare l’autenticità. Si tratta naturalmente di lanci di diversa lunghezza ed intento: dall’elencazione delle Modalità stilistiche, scherzevole ma neppure tanto, alla secca conclusione filosofica (“… s’è provato un linguaggio / debordante e sgangherato che incalza / s’impenna balbetta e intanto / si piega zigzaga s’interrompe sballa / in sincope e deraglia – è in altre parole sempre / in conflitto con se stesso perché / nessun linguaggio può mai arrogarsi / il possesso assoluto della verità”), fino alla declaratio – di poetica e di posizioni teoriche – contro il dominante gusto della sublimazione con cui si cerca di mettere fuori causa la contraddizione “costitutiva” (“altro che finzioni consolatorie che inducono / all’immersione identificativa / altro che narrazioni buone a giustificare / e rendere simpatica qualsiasi cosa / mediante l’immedesimazione / in una presunta essenza interiore invece / si tratta di una scrittura questo è il termine / adatto che preferisco s’è provata / una scrittura che si oppone / a tutte le prescrizioni preordinate e che / esclude il facile patetismo e l’elevazione / lirica taglia i legami del compartecipare / che attrae in base a un’emozione passeggera / per mettere il lettore in stato di angustia / sì ma di un’angustia produttiva in cui / deve decidere cosa fare delle proprie difese / se scartare l’identità corazzata e rischiare / di mettersi in gioco s’è provata una scrittura / insomma che non dà niente per scontato / e non si rassegna all’uso pedestre / acquietato nella realtà quotidiana / in cui tutti si illudono di esistere ma sono / vissuti dai miti dai simboli dalle merci / s’è provata una scrittura obliqua in tutti / i sensi verso un  diverso significato verso / un diverso punto di fuga verso / una prospettiva critica e polemica / verso un  divertimento sregolato verso / una diversa conformazione verso / lo spostamento della finzione negli altrove / fantastici s’è provata una scrittura che cambia / continuamente e costituisce l’addestramento / all’agilità mentale e incentiva l’immaginazione / a scatenarsi in modo da farsi trovare pronta / quando servirà pensare radicalmente”).

Insomma, appunto: “una scrittura obliqua” per un pensiero radicale. Il resto, argomenta Muzzioli in una versificazione di estrema libertà di cursus e di percorso, anche quando non è mitologema dichiarato, è attrazione per i Miti Odierni, che sono nient’altro che le attrattive di sempre ultima generazione con cui i diversi Poteri travestono il principio della legge del più forte. Egli lavora anche in questo caso, secondo gli impone la sua cifra costante, sulla sollecitazione imperterrita della ragione che non si dà per vinta malgrado tutte le storiche delusioni e le storiche sconfitte, rifiutando il risarcimento dell’accensione lirica, soffocando in culla l’assopimento elegiaco nel comodo rifugio memoriale, mettendo sul piatto del conflitto le crude risorse di una retorica altra, stringendo la museruola sulla bocca dell’eloquenza, per realizzare così, trasversalmente, una poesia implacata che squaderna – contro tutte le tentazioni di riapparizione dell’io come portatore di alibi – le varie facce della sua facies di opposizione oggettiva di fronte allo stato presente delle cose che, come diceva Colui, va naturalmente cambiato.

    

Alla fine, il mondo di cui questa poesia è furente controcanto, è il mondo dell’accumulazione capitalistica; per cui, necessariamente, il terzo poemetto del libro di Muzzioli si intitola Forma come contenuto: l’accumulazione, e sviluppa un progetto in espansione praticamente infinita a partire da una pentapodia (“riga le cose l’incauta acredine della possessione”) che, generando ulteriori livelli di pentapodie che contengono in ogni verso una parola della precedente, può toccare cifre spaventose, ad infinitum: allegoria davvero straordinaria del funzionamento dei processi del capitale, nella sua follia ormai neppure più “lucida”, ma semplicemente “selvaggia”. L’individuo è assolutamente sottratto a se stesso, i suoi comportamenti sono automatizzati, egli è solo parte della catastrofe: “considerata meglio la questione ha lati diversi / programma da fare molto immediatamente e male / o niente esentarsi esimersi soprassedere e marameo / guardare l’ombelico oppure l’unghia incarnita / partire prima tornare presto tagliare gli incroci / trovar interessante il cretino di sicuro successo / bussare all’uscio del vicino per domandare consiglio / il cogito opportuno si riserva per le serate magre / non si gratta la testa né mai si scaccola le nari / per dar retta ad internet non spegne neppure la corrente / ode l’ansimo del ragno nella penombra inquieta / un grido rauco è l’avviso della carneficina seguente / sangue che si spande nel vecchio parquet della / possessione”.

Di qui è quasi ovvia la chiamata in causa della vecchia utopia: ed ecco allora il testo seguente (Saluto l’utopia) in cui, dopo una carrellata avventurosamente critica sulle ragioni dei vari fallimenti utopici, scoppiano i versi dedicati alla modernità più tremendamente illusoria: “poi nel novecento l’eclissi / delle utopie realizzate troppo / male nell’orrore sovietico / (il nazismo una cattiva idea / realizzata bene il comunismo / una buona idea realizzata male / io dico”; e in seguito, come dire l’altro ieri, quindi oggi “(la crescita è necessaria la crescita / gridava un nano) bisogna interrogarsi / se per caso un altro mondo non / sia possibile e perciò rimettere / in funzione l’immaginazione / utopica – ma non per vani sogni / o promesse da ingannar babbei / ci vuole ad accompagnarla il calcolo / preciso utopie matematiche come / mai ve ne furono a queste / chiederemo aiuto se ce ne saranno”…

 

Ogni libro, si sa, comincia dal titolo. E il titolo del libro di Muzzioli rivendica una “stravaganza” pervicacemente ribadita, oltre a quella della sua parte più “scandalosa”. Che è, ovviamente, un’attrazione, un magnetismo forse ancora più necessario ora che l’intero mondo sembra in preda a una bufera ingovernabile, soprattutto a causa dell’indecente divario nel godimento delle risorse tra chi ha e chi non ha, quindi chi sa e chi non sa;  ma è anche, al contempo – parola sapientemente caustica dell’autore – “un titolo volutamente polisenso. Indica, in primo luogo, un istinto profondo che si fa sentire, malgrado i pesanti fallimenti del passato: ma il ‘richiamo’ potrebbe anche essere quello di un medicinale che va ripetuto, altrimenti non ha effetto. ‘Richiamo’ richiama réclame (una intenzione pubblicitaria?); ma anche ‘reclamo’, protesta da elevare per l’uso distorto che ne è stato fatto nella disastrosa esperienza novecentesca. Molti sensi, dunque, per un termine senza dubbio problematico, oggi, e pressoché impronunciabile, tranne che per qualche fissato paranoide che vede ‘comunisti’ dappertutto. L’ipotesi di questo libro è che si debba ricominciare a parlarne, come necessaria utopia dell’uguaglianza e della giustizia sociale e del ‘bene comune’; ma che per ora è bene farlo con cautela, mettendo magari questo discorso ‘serio’ tra gli scherzi, i giochi, le ‘stravaganze’ della poesia, in mezzo a insorgenze sarcastiche e sonorità di rima, a contatto con l’ipermanierismo o con l’accumulo della scrittura automatica”.

Il persistere dell’utopia, dunque, come riferimento dialettico e stella fissa, pur tra le molte direzioni e i molti sensi prodotti da una scrittura altamente consapevole, “rigorosamente impersonale” e soprattutto recisamente indisponibile a un uso consolatorio e evasivo della poesia come “vaga emozione e sfogo del vissuto”.

 

Si potrebbe dire, ingenuamente e a tutta prima, che un simile testo, costruito su certe intrattabili premesse, possa inclinare a suggestioni propagandistiche in favore di un Progetto Defunto (e seppellito dalla storia), e magari propendere, per eccesso antilirico, a modalità stilistiche non ignare del satireggiare “pedantesco” dei Cantici di Fidenzio del cinquecentista vicentino Camillo Scroffa, in arte Glottocrisio Ludimagistro... Una serie di esercizi a calco di altissima abilità finto-arcaica realizzati da un nostro contemporaneo come una beffa a colpi di consumatissima marca retorica? È bene non indulgere a suggestioni professorali di questo genere, delle quali Muzzioli sarebbe il primo a ridere: e proprio in forza del suo materialismo, quindi di quella “scrittura materialistica” che anche qui fa le sue lucide prove e all’interno della sua carica di indignazione ospita un acutissimo sense of humour, un formidabile gusto del gioco, una capacità perfino capziosa di produrre calembours, jeux de mots, rime, controrime, rimalmezzo, da sicuro maestro del linguaggio critico-satirico di cui Il richiamo del comunismo è solo il documento più recente, dopo Il Corto la scorta le escort e Verbigerazioni catamoderne.

Fatto è che questa lingua è, sempre, una lingua-pensiero, nei tratti più esplicitamente oppositivi come in quelli più sbarazzini (“accumulate accumulate questa è / la legge e questo dicono i profeti / fu il dio straniero che si mise sull’altare / accanto ai vecchi idoli dell’Europa / e che un bel giorno con una spinta / improvvisa li fece ruzzolar via tutti / e proclamò che fare del plusvalore / era il fine ultimo / e unico dell’umanità”; “lavora con metodo / ben scavato vecchia talpa / l’essere sociale / il linguaggio è antico quanto / la coscienza il linguaggio è / la coscienza reale”; poi ecco riapparire il Corto, in una deliziosa variante in collaborazione con Guido Gozzano: “quel coso con due gambe più simile ad un nano / ha fatto la rovina del popol pitaliano / non solo nelle tasche gli ha messo la sua mano / ma, come preferisce, gliel’ha messa nell’ano / quel coso con due gambe che fa la rima in ‘oni’ / il più presto possibile si tolga dai coglioni”.

In questa Italia assurta finalmente al suo vero nome (muzzolianamente, Pitalia) “nemmeno poco i poeti sono fuori del / cuore dell’ingordo mostro così / tocca per sopracosto con fatica / non facile segare il ramo dove si sta / e far arte praticando parallelamente / il paradosso della / critica della scrittura”. Raramente si è visto, nella nostra anemica poesia odierna, un libro tanto gremito di dichiarazioni di teoria letteraria in azione e di poetica in atto.  Bene fa perciò Aldo Tortorella, nella sua più che intelligente postfazione a questo libro di poesia così felicemente anomalo, a leggere “come un vero balsamo sulle tante antiche ferite collettive la straordinaria vivezza dell’invenzione concettuale e verbale in temi così poco versificabili e, anche, ormai usualmente trattati in modo da annoiare anche i più coriacei cultori della materia”. Se perfino la poesia è sempre ‘politica’, questa del Richiamo del comunismo lo è al quadrato: ovverosia, nel modo più liberamente laico con cui il Verso Civile scopre l’inciviltà della materia che tratta.   

 




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