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di Mario Lunetta
Muzzioli:
critica poetica dell’odierna Pitalia
Se in Verbigerazioni catamoderne di Francesco
Muzzioli resisteva un sottilissimo diaframma che sia pure in misura minimale
distanziava magistralmente le due sfere di ideologia
e linguaggio (soluzione a
proposito della quale osservavo: “…le proposizioni muzzoliane non implicano
alcuna concessione a schematismi di comodo, perché agiscono all’interno di una
dialettica complessa, che corre costantemente sul filo della contraddizione
storica, politica, culturale. Nel tempo, e contro il tempo che non si può
mettere tra parentesi, come invece insiste a fare la proliferante deriva di
troppa produzione poetica dei nostri giorni, contenta di sé e del proprio
effondersi subliminale e sublimato”), ora, in un libro oltraggiosamente
intitolato Il richiamo del comunismo e altre stravaganze, le due entità sono
fuse in un unico blocco di discorso analitico-antagonistico, entro una
dimensione di disputa collettiva che tiene costantemente al massimo la
temperatura delle responsabilità. È superfluo osservare che in questo modo di
procedere lo spazio del soggetto poetante è ridotto a livelli prossimi allo
zero. Ciò che importa è che il grado semantico della scrittura non circondi il
suo senso, ma lo penetri senza tregua, come un trapano elettrico a regime
elevato. Ideologia e linguaggio, appunto: ma in un’operazione
a specchio in cui sempre la prima si identifica con la seconda, e viceversa. Il
linguaggio è ideologia. L’ideologia è linguaggio. E in questo senso
l’enigmaticità del testo coincide con l’esplicitazione problematica della sua
argomentazione febbrile, lucida, sarcastica, paradossale, tutta tenuta sul filo
di un furor logico-politico che
azzera qualsiasi tentazione di abbandono oratorio.
Il gioco
muzzoliano tratta altri dadi, dei quali si preoccupa – prima di ogni lancio –
di saggiare l’autenticità. Si tratta naturalmente di lanci di diversa lunghezza
ed intento: dall’elencazione delle Modalità stilistiche, scherzevole ma neppure
tanto, alla secca conclusione filosofica (“… s’è provato un linguaggio /
debordante e sgangherato che incalza / s’impenna balbetta e intanto / si piega
zigzaga s’interrompe sballa / in sincope e deraglia – è in altre parole sempre
/ in conflitto con se stesso perché / nessun linguaggio può mai arrogarsi / il
possesso assoluto della verità”), fino alla declaratio
– di poetica e di posizioni teoriche – contro il dominante gusto della sublimazione con cui si cerca di mettere
fuori causa la contraddizione “costitutiva”
(“altro che finzioni consolatorie che inducono / all’immersione identificativa
/ altro che narrazioni buone a giustificare / e rendere simpatica qualsiasi
cosa / mediante l’immedesimazione / in una presunta essenza interiore invece /
si tratta di una scrittura questo è il termine / adatto che preferisco s’è
provata / una scrittura che si oppone / a tutte le prescrizioni preordinate e
che / esclude il facile patetismo e l’elevazione / lirica taglia i legami del
compartecipare / che attrae in base a un’emozione passeggera / per mettere il
lettore in stato di angustia / sì ma di un’angustia produttiva in cui / deve
decidere cosa fare delle proprie difese / se scartare l’identità corazzata e
rischiare / di mettersi in gioco s’è provata una scrittura / insomma che non dà
niente per scontato / e non si rassegna all’uso pedestre / acquietato nella
realtà quotidiana / in cui tutti si illudono di esistere ma sono / vissuti dai
miti dai simboli dalle merci / s’è provata una scrittura obliqua in tutti / i
sensi verso un diverso significato verso
/ un diverso punto di fuga verso / una prospettiva critica e polemica / verso
un divertimento sregolato verso / una
diversa conformazione verso / lo spostamento della finzione negli altrove /
fantastici s’è provata una scrittura che cambia / continuamente e costituisce
l’addestramento / all’agilità mentale e incentiva l’immaginazione / a
scatenarsi in modo da farsi trovare pronta / quando servirà pensare
radicalmente”).
Insomma,
appunto: “una scrittura obliqua” per un pensiero radicale. Il resto, argomenta
Muzzioli in una versificazione di estrema libertà di cursus e di percorso, anche quando non è mitologema dichiarato, è
attrazione per i Miti Odierni, che sono nient’altro che le attrattive di sempre
ultima generazione con cui i diversi Poteri travestono il principio della legge
del più forte. Egli lavora anche in questo caso, secondo gli impone la sua
cifra costante, sulla sollecitazione imperterrita della ragione che non si dà
per vinta malgrado tutte le storiche delusioni e le storiche sconfitte,
rifiutando il risarcimento dell’accensione lirica, soffocando in culla
l’assopimento elegiaco nel comodo rifugio memoriale, mettendo sul piatto del
conflitto le crude risorse di una retorica altra,
stringendo la museruola sulla bocca dell’eloquenza, per realizzare così,
trasversalmente, una poesia implacata che squaderna – contro tutte le
tentazioni di riapparizione dell’io come
portatore di alibi – le varie facce della sua facies di opposizione oggettiva di fronte allo stato presente delle
cose che, come diceva Colui, va naturalmente cambiato.
Alla fine, il
mondo di cui questa poesia è furente controcanto, è il mondo dell’accumulazione
capitalistica; per cui, necessariamente, il terzo poemetto del libro di
Muzzioli si intitola Forma come
contenuto: l’accumulazione, e sviluppa un progetto in espansione
praticamente infinita a partire da una pentapodia (“riga le cose l’incauta acredine
della possessione”) che, generando ulteriori livelli di pentapodie che
contengono in ogni verso una parola della precedente, può toccare cifre
spaventose, ad infinitum: allegoria
davvero straordinaria del funzionamento dei processi del capitale, nella sua
follia ormai neppure più “lucida”, ma semplicemente “selvaggia”. L’individuo è
assolutamente sottratto a se stesso, i suoi comportamenti sono automatizzati,
egli è solo parte della catastrofe: “considerata meglio la questione ha lati
diversi / programma da fare molto immediatamente e male / o niente esentarsi
esimersi soprassedere e marameo / guardare l’ombelico oppure l’unghia incarnita
/ partire prima tornare presto tagliare gli incroci / trovar interessante il
cretino di sicuro successo / bussare all’uscio del vicino per domandare
consiglio / il cogito opportuno si riserva per le serate magre / non si gratta
la testa né mai si scaccola le nari / per dar retta ad internet non spegne
neppure la corrente / ode l’ansimo del ragno nella penombra inquieta / un grido
rauco è l’avviso della carneficina seguente / sangue che si spande nel vecchio
parquet della / possessione”.
Di qui è quasi
ovvia la chiamata in causa della vecchia utopia: ed ecco allora il testo
seguente (Saluto l’utopia) in cui,
dopo una carrellata avventurosamente critica sulle ragioni dei vari fallimenti
utopici, scoppiano i versi dedicati alla modernità più tremendamente illusoria:
“poi nel novecento l’eclissi / delle utopie realizzate troppo / male
nell’orrore sovietico / (il nazismo una cattiva idea / realizzata bene il
comunismo / una buona idea realizzata male / io dico”; e in seguito, come dire
l’altro ieri, quindi oggi “(la crescita è necessaria la crescita / gridava un
nano) bisogna interrogarsi / se per caso un altro mondo non / sia possibile e
perciò rimettere / in funzione l’immaginazione / utopica – ma non per vani
sogni / o promesse da ingannar babbei / ci vuole ad accompagnarla il calcolo /
preciso utopie matematiche come / mai ve ne furono a queste / chiederemo aiuto
se ce ne saranno”…
Ogni libro, si
sa, comincia dal titolo. E il titolo del libro di Muzzioli rivendica una
“stravaganza” pervicacemente ribadita, oltre a quella della sua parte più “scandalosa”.
Che è, ovviamente, un’attrazione, un magnetismo forse ancora più necessario ora
che l’intero mondo sembra in preda a una bufera ingovernabile, soprattutto a
causa dell’indecente divario nel godimento delle risorse tra chi ha e chi non ha, quindi chi sa e
chi non sa; ma è anche, al contempo – parola sapientemente
caustica dell’autore – “un titolo volutamente polisenso. Indica, in primo
luogo, un istinto profondo che si fa sentire, malgrado i pesanti fallimenti del
passato: ma il ‘richiamo’ potrebbe anche essere quello di un medicinale che va
ripetuto, altrimenti non ha effetto. ‘Richiamo’ richiama réclame (una intenzione pubblicitaria?); ma anche ‘reclamo’,
protesta da elevare per l’uso distorto che ne è stato fatto nella disastrosa
esperienza novecentesca. Molti sensi, dunque, per un termine senza dubbio
problematico, oggi, e pressoché impronunciabile, tranne che per qualche fissato
paranoide che vede ‘comunisti’ dappertutto. L’ipotesi di questo libro è che si
debba ricominciare a parlarne, come necessaria utopia dell’uguaglianza e della
giustizia sociale e del ‘bene comune’; ma che per ora è bene farlo con cautela,
mettendo magari questo discorso ‘serio’ tra gli scherzi, i giochi, le
‘stravaganze’ della poesia, in mezzo a insorgenze sarcastiche e sonorità di
rima, a contatto con l’ipermanierismo o con l’accumulo della scrittura
automatica”.
Il persistere
dell’utopia, dunque, come riferimento dialettico e stella fissa, pur tra le
molte direzioni e i molti sensi prodotti da una scrittura altamente
consapevole, “rigorosamente impersonale” e soprattutto recisamente
indisponibile a un uso consolatorio e evasivo della poesia come “vaga emozione
e sfogo del vissuto”.
Si potrebbe
dire, ingenuamente e a tutta prima, che un simile testo, costruito su certe
intrattabili premesse, possa inclinare a suggestioni propagandistiche in favore
di un Progetto Defunto (e seppellito dalla storia), e magari propendere, per
eccesso antilirico, a modalità stilistiche non ignare del satireggiare
“pedantesco” dei Cantici di Fidenzio del
cinquecentista vicentino Camillo Scroffa, in arte Glottocrisio Ludimagistro... Una
serie di esercizi a calco di altissima abilità finto-arcaica realizzati da un
nostro contemporaneo come una beffa a colpi di consumatissima marca retorica? È
bene non indulgere a suggestioni professorali di questo genere, delle quali
Muzzioli sarebbe il primo a ridere: e proprio in forza del suo materialismo,
quindi di quella “scrittura materialistica” che anche qui fa le sue lucide
prove e all’interno della sua carica di indignazione ospita un acutissimo sense of humour, un formidabile gusto
del gioco, una capacità perfino capziosa di produrre calembours, jeux de mots,
rime, controrime, rimalmezzo, da sicuro maestro del linguaggio critico-satirico
di cui Il richiamo del comunismo è
solo il documento più recente, dopo Il
Corto la scorta le escort e Verbigerazioni
catamoderne.
Fatto è che
questa lingua è, sempre, una lingua-pensiero, nei tratti più esplicitamente
oppositivi come in quelli più sbarazzini (“accumulate accumulate questa è / la
legge e questo dicono i profeti / fu il dio straniero che si mise sull’altare /
accanto ai vecchi idoli dell’Europa / e che un bel giorno con una spinta /
improvvisa li fece ruzzolar via tutti / e proclamò che fare del plusvalore /
era il fine ultimo / e unico dell’umanità”; “lavora con metodo / ben scavato vecchia
talpa / l’essere sociale / il linguaggio è antico quanto / la coscienza il
linguaggio è / la coscienza reale”;
poi ecco riapparire il Corto, in una deliziosa variante in collaborazione con
Guido Gozzano: “quel coso con due gambe più
simile ad un nano / ha fatto la rovina del popol pitaliano / non solo nelle
tasche gli ha messo la sua mano / ma, come preferisce, gliel’ha messa nell’ano
/ quel coso con due gambe che fa la rima
in ‘oni’ / il più presto possibile si tolga dai coglioni”.
In questa Italia
assurta finalmente al suo vero nome (muzzolianamente, Pitalia) “nemmeno poco i poeti sono fuori del / cuore dell’ingordo
mostro così / tocca per sopracosto con fatica / non facile segare il ramo dove
si sta / e far arte praticando parallelamente / il paradosso della / critica
della scrittura”. Raramente si è visto, nella nostra anemica poesia odierna, un
libro tanto gremito di dichiarazioni di teoria letteraria in azione e di
poetica in atto. Bene fa perciò Aldo
Tortorella, nella sua più che intelligente postfazione a questo libro di poesia
così felicemente anomalo, a leggere “come un vero balsamo sulle tante antiche
ferite collettive la straordinaria vivezza dell’invenzione concettuale e
verbale in temi così poco versificabili e, anche, ormai usualmente trattati in
modo da annoiare anche i più coriacei cultori della materia”. Se perfino la
poesia è sempre ‘politica’, questa del Richiamo
del comunismo lo è al quadrato: ovverosia, nel modo più liberamente laico
con cui il Verso Civile scopre l’inciviltà della materia che tratta.
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