LETTERATURE MONDO
PER JACQUELINE RISSET
Amor d’“Amor di lontano”

      
La poetessa, studiosa, critica e traduttrice francese, da decenni residente in Italia, è morta a settantotto anni lo scorso settembre. La ricorda qui il regista teatrale che lavorò nel 1992 sui suoi peculiari versi che entravano in risonanza concettuale e testuale con quelli degli antichi trovatori provenzali. Fu un incontro di poetiche e di stimolazioni culturali legato anche al comune, forte interesse per Joyce e il suo lavoro di ‘autotraduzione’ realizzato con “Anna Livia Plurabella”. L’autrice francese era una persona brillante e luminosa che accendeva di vita e di passione tutto ciò che avvicinava e di cui si occupava.
      




   


di Enrico Frattaroli

 

 

Astro dei giorni

di notte

rischiari la luna[1]

 

 

In base alla precessione degli equinozi, ogni 10.500 anni, le posizioni delle stagioni sull’orbita che la Terra percorre intorno al Sole si trovano esattamente agli antipodi. In altre parole, tra 10.500 anni, la Primavera cadrà nel punto in cui oggi cade l’Autunno, l’Estate nel punto in cui cade l’Inverno. Ogni 10.500 anni, quindi, un ideale amante d’Amor di lontano si troverebbe ad enunciare le stagioni del proprio percorso amoroso in punti opposti dell’orbita che il suo discorso descrive intorno al proprio oggetto d’amore.

Fu lo stratagemma concettuale che mi permise di concepire la scena teatrale d’Amor di lontano[2] come descrizione astronomica di stagioni còlte, contemporaneamente, in questi due estremi del tempo. Ovvero di rappresentare, nello spazio, non i luoghi ma i tempi in cui Jacqueline Risset articola il suo discorso amoroso. In altri termini, di fare orbitare gli attori sulla scena come due corpi astrali: due voci agli antipodi eppure nella stessa stagione d’amore. Due voci ma voce di un solo soggetto: la voce del soggetto amante. Soggetto in risonanza con se stesso: soggetto flesso, rifratto, diffratto di una medesima scrittura.

 

 


C’è un momento che dice

«sono il primo»

ma non c’è un primo momento[3]

 

Il primo momento del mio amore per Amor di lontano risaliva alla prima lettura del testo originale, al primo contatto col suo corpo linguistico francese, nel corso del quale registrai, per la prima volta, una vaghezza, un presagio di scena. Quando poi mi fu data occasione di attualizzare il presagio, non portai sulla scena la versione francese, bensì la versione italiana nella traduzione dalla stessa autrice: un altro corpo linguistico originale, quindi, un secondo primo momento.

Nell’anno della prima redazione scenica, il poema non era ancora stato pubblicato, lavorai, quindi, sulla versione che Jacqueline mi consegnò in formato dattiloscritto. Il testo apparve nelle librerie solo l’anno successivo. Era un altro testo. Molte delle soluzioni dattiloscritte non figuravano più nella versione tipografica; minime variazioni, piccoli slittamenti ‒ ma a miriadi ‒ avevano mosso la superficie del poema.

Nella versione stampata, non era cambiato solo ciò che in genere cambia nella traduzione di un testo, era mutata, e in modo significativo, oltre e più che il verbo, la tipografia: il modo in cui il testo si estende sulla pagina, il modo in cui ramifica le nere arborescenze d’inchiostro sul bianco della carta. E questo non accadeva in presenza di particolari nodi espressivi, ma anche laddove la traduzione era lineare, dove il testo rimaneva immutato nel passaggio da una lingua all’altra.

Cito solo questo aspetto per dare la misura di quanto l’autrice volesse che il poema, nel passaggio da un corpo linguistico all’altro, assumesse una fisionomia propria, ed esattamente in ciò che lo sguardo percepisce prima ancora di leggere: la sua immagine, la cui variazione s’inscrive e si mostra nel divario immediato fra i due testi a fronte. La pagina di destra rinviava alla sinistra, la sinistra alla destra, in un rapporto non lineare, ma complesso. Rapporto di oscillazione fra due scritture in visione di parallasse, che non coincidono, nessuna delle quali, una volta istituite, può esaurire o ridurre l’altra al silenzio.

 

Casella di testo:  Amor di lontano, da sinistra: Galliano Mariani, Franco Maz-zi

 

Ripresi il lavoro nello stesso anno e nell’anno successivo e, com’è nella mia natura, lo variai ad ogni ripresa, ma non scelsi di sostituire il vecchio testo con il nuovo, il ‘provvisorio’ con il ‘definitivo’. Quella prima versione che era stata per l’autrice solo una variante, un corpo di passaggio ‒ io la conservai. Fedele d’amore, continuai ad amare quella prima traduzione transitoria che, forse in virtù di un suo primo momento, era diventata per me imprescindibile dal corpo  del poema. Un corpo che continuava ad esistere solo nel mio lavoro, che ne conservava le tracce pur nella transitorietà per eccellenza del suo statuto teatrale.

Così, nella mia lettura del poema, continuavo a ondeggiare tra la versione pubblicata, la versione dattiloscritta, l’originale francese. E non solo. Si erano aperte delle distanze, dei vuoti nel testo, spazi di risonanza in cui le diverse versioni echeggiavano l’una con l’altra in un contrappunto di scritture in abisso. E che richiamavano altre scritture.

 

Amor che m’hai fatto?

strano strano oggetto

l’eccesso di amore in cui mi hai messo

si estende ormai al di fuori di te

si estende quasi ovunque

si contrae in altri punti

di quasi nulla

                                   echi o venti

anche: su altri corpi[4]

 

Nella messa in voce del poema, non mi limitai a far risuonare il testo in se stesso ma volli far risonare in esso altri versi: innanzitutto, altra poesia d’amore della stessa Risset, nel caso specifico Petits éléments de physique amoureuse.[5] Un altro corpo testuale e linguistico ‒ tradotto in privato, amato in segreto ‒ le cui fibre si sarebbero tessute, silenziosamente, con le fibre di Amor di lontano.

Ma una più importante risonanza intesi porre in atto, con un corpus testuale al cui oggetto di canto ‒ l’amor de loing, la fin’amor ‒ Jacqueline Risset era risalita per comporre i suoi versi: i versi degli antichi trovatori provenzali. Ancora altri corpi linguistici, altri idioletti poetici, non semplicemente l’antico provenzale, infatti, ma l’antico provenzale di Daniel, De Peitieu, Rudel, De Ventadorn.

Quando parlo di risonanza, non parlo di un fenomeno concettuale, ma di un fenomeno fisico. Risonanza con gli antichi provenzali non significava ispirazione, evocazione astratta, ma presenza concreta, fisica, e quindi effettivo mescolamento di versi e di fibre, di fibre poetiche.

 

Casella di testo:  Amor di lontano, Franco Mazzi

 

Un testo si inscrive nell’altro, un nuovo testo si scrive: mettere in scena è tradurre. Tutta l’operazione avveniva attraverso un lavoro poietico che mi appartiene, entro le cui coordinate il poema di Jacqueline Risset s’inscriveva e riscriveva e che conduceva a un testo nuovo, a un testo trasfigurato. Un corpo poetico imprescindibile da me quale soggetto amante e imprescindibile dal testo della Risset quale oggetto amato. Un corpo liscio e insieme variegato, unico eppure plurale; un corpo mosso, perturbato, increspato, marezzato di turbolenze testuali, linguistiche, sonore, vocali. Un corpo armonico nel senso verticale, musicale del termine ‒ coi suoi particolari gradi di risonanza, o un corpo sparso, come il corpo amato, esteso a occupare altri corpi, intere regioni di spazio, o ancora come un corpo sognato, trasognato...

 

Una poesia farò di puro nulla: 

non sopra me né sopra gli altri,

neppur d’amore e di gioventù,

                        e di null’altro,

ch’anzi fu scritta mentre dormivo

                        sopra un cavallo.

 

... qu’enans fo trobatz en durmen / sus un chivau. Sono i versi di Gugliemo di Poitiers che Jacqueline cita in exergo ad Amor di Lontano. Ne scrive Giorgio Agamben: «Il cavallo su cui viaggia il poeta è, secondo un’antica tradizione esegetica dell’Apocalisse giovannea, l’elemento sonoro e vocale del linguaggio. Commentando Ap. 19.11, in cui il logos è descritto come un cavaliere ‘fedele e verace’ che cavalca un cavallo bianco, Origene spiega che il cavallo è la voce, la parola come proferimento sonoro, che ‘corre con più slancio e rapidità di qualsiasi destriero’ e che solo il logos rende intellegibile e chiara».[6]

Il logos si perde nella misura in cui subentra il sonno: il sogno: la poesia:

 

Vedo i cavalli uscire dall’acqua azzurra

e verde

correre come alzati sulla palude

 

e il cavaliere che li insegue tiene la frusta piegata

come dimentico di continuare il gesto

come fermato    sognante

 

                le cavalle che mi portano

                veloci quanto può lo slancio del cuore

                                 avanzano[7]

 

Il cavallo di Guglielmo, i cavalli di Jacqueline, le cavalle di Parmenide[8]: il tempo dell’istante poetico è tempo di condensazione epifanica, lampo in cui il tempo conglomera e fonde coscienza, eventi, scritture.

 

Casella di testo:  Proiezione di una pagina manoscritta di Finnegans Wake
sul piano acquoreo dell’Anna Liffey, il fiume di Dublino
(immagine di scena da ALP-Bloom di Enrico Frattaroli)

 

Corvo scuro ode. Notte! Notte! Il mio cupo capo cade, mi sento pesa come quel sasso.[9]

 

Durante la cerimonia di commemorazione per la sua morte, avrei voluto dedicare a Jacqueline le ultime righe di Anna Livia Plurabella, quelle in cui, al cadere della notte, le due lavandaie, spossate dal lungo lavare/parlare, cedono al sonno trasformandosi in albero e roccia sulle rive opposte del fiume. Diversi motivi concorrevano a farmi sentire esteticamente giusta e risonante la lettura di quelle righe: innanzitutto che fosse Anna Livia Plurabella, quindi che fosse di Joyce, poi che implicasse Dante, infine che fosse una scrittura trasmutante, poetica emanazione del sonno e del sogno.

 

Per sua fluviale natura, Anna Livia Plurabella corse e ricorse più volte nei miei incontri con Jacqueline Risset. La incontrai la prima volta in Scritti italiani, nel saggio Joyce traduce Joyce,[10] che Jacqueline scrisse in prefazione all'italianissima Plurabella di Joyce. La seconda volta l’ascoltai in occasione del suo intervento al convegno Joyce in Rome, nel 1982. Mi colpì la sua vitalità, l’esposizione libera e appassionata, non accademica, dello stesso tema. La terza volta fu due anni dopo, quando, lavorando in teatro sullo stream of consciousness di Joyce, decisi di farlo precedere da una interpretazione a due voci di Anna Livia.[11] La conobbi allora di persona e conobbi, nella presentazione che mi scrisse per il programma di sala, la sua disponibilità, la sua generosità, il suo contagioso entusiasmo. Qualche anno dopo, nel 1989, ci ritrovavamo insieme a Parigi, al Centre Georges Pompidou, per presentare fluidofiume, nel cui musicale fluire le voci di Anna Livia si erano ormai del tutto mescolate alla voce di Bloom.[12]  Il 16 giugno 2010, eravamo di nuovo insieme ad Anna Livia per celebrare il Bloomsday, in una serata trasmessa in diretta da Rai-Radio 3, dedicata, peraltro, alla memoria di Giorgio Melchiori.[13]

 

Nel suo Joyce traduce Joyce, Jacqueline aveva messo in evidenza come Joyce, traducendo il celebre episodio di Finnegans Wake, avesse attinto esclusivamente alla lingua italiana, sufficientemente plurilinguistica perché l’autore non sentisse il bisogno, come nell’originale, di ricorrere ad altre lingue. Joyce aveva giocato ‒ e goduto ‒ con la lingua italiana il gioco di Finnegans Wake, non cercando di rimanere fedele al testo, ma alla poetica che vi si esprime, non alla lingua d’origine ma alla lingua di arrivo in cui, in modo inedito, l’aveva ripensata e ricreata. Joyce fece ricorso a Dante per spiegare il linguaggio di Finnegans Wake: «Papè Satàn Papè Satàn Aleppe! Padre Dante mi perdoni ma io sono partito da questa tecnica della deformazione per raggiungere un’armonia che vince la nostra intelligenza come la musica».[14] Ripartì da Dante per raggiungere di nuovo il punto in cui il logos cede il passo al ritmo e al suono, alla poesia, in cui il pensiero si trasmuta in sogno.

 

Quello della traduzione è tema essenziale per Jacqueline, sia per la traduzione della Commedia in francese che per quella in italiano dei suoi stessi versi. Nella nota all’edizione italiana di Amor di lontano, Risset chiama in causa Dante, per il quale «ogni traslazione in altro idioma ‒ cita ‒ comporta la rottura del “legame musaico”: lacerazione irreparabile di fibre poetiche, di quelle fibre che annodano suono e senso, facendo sì che quel suono e quel senso appaiano da sempre votati l’uno all’altro». Jacqueline parte dalla considerazione che nelle due lingue l’espressione non si raggiunge con gli stessi strumenti, decide quindi di esplorare il testo dall’interno: «lasciarsi portare dalla memoria ritmica della lingua; e, poi, creare stacchi ulteriori, usando maiuscole, spazi tipografici, lasciare che il testo proietti un’ombra di sé, estranea e familiare, come nell’amor di lontano, come in poesia». Nella nota introduttiva a Il tempo dell’istante,[15] torna sull’argomento e precisa: «Tradurre è risalire alla fonte, alla genesi del gesto […] Tornare per un po’ nell’officina dove il poema si è preparato. Non restituire, non ricostruire il medesimo. Ritrovare, forse, sotto le parole, l’intento segreto...»





Jacqueline Risset (1936-2014)


Tradurre, tradursi: in un caso come nell'altro, è fare poesia. Il saggio Joyce traduce Joyce è anche un saggio per Risset traduce Risset. Anna Livia Plurabella è il luogo privilegiato in cui osservare questo processo di traduzione, di ri-creazione poetica.

 

Amne Perenne latens

Anna Perenna vocor

 

Evocata con antico nome da I fasti di Ovidio, «Anna Livia Plurabella / fiume dei fiumi che scorrono e tornano», ricorre tra i versi della Ninfa dal nome che quasi scompare,[16] la prima delle quattro poesie inedite che chiudono Il tempo dell’istante, l’ultima raccolta italiana di versi di Jacqueline Risset.

 

Il giorno della commemorazione, non lessi quelle righe di Anna Livia Plurabella così prossime al silenzio. Sebbene indelebilmente inscritte nella mia memoria, il timore ingiustificato di non ricordarle in quel momento mi fece rinunciare, non senza una stretta al cuore, ad enunciarle. O forse mi sembrarono così ultime, così definitive e inappellabili, da non poterle immaginare mescolate ai numerosi interventi e attestati di amicizia che non finivano, giustamente, di avvicendarsi. Gliele dedico ora, qui, alla fine di questo mio scritto, ma idealmente, cifrate in bianco, enunciate in silenzio: parlando cose che ’l tacere è bello.[17]

 

Pensando alla sua improvvisa scomparsa, forse a me soltanto vengono in mente le ultime righe dell’Histoire de Juliette, quelle in cui Sade scrive: «Au bout de ce temps, la mort de Mme de Lorsanges la fit disparaitre de la scène du monde, comme s’evanouit ordinairement tout ce qui brille sur la terre».[18] Qualcosa che brilla, una creatura che esce di scena e svanisce, luminosa e viva. Impossibile non accostare Jacqueline alla luce, ogni incontro con lei era un’apparizione di occhi, capelli, sguardo, sorriso, voce: luminoso stupore di vita. Jacqueline Risset non poteva andar via in un lasso di tempo, ma solo svanire nel tempo di un istante. Come lei stessa ha scritto:

 

            Quelque chose de blanc

                        lumière venant vite sur la mer

s’en allant

                                    comme elle était venue, rapide.

 

            Qualcosa di bianco

                        luce venuta veloce dal mare

va via

                                   com’era venuta, rapida.[19]

 

 

 

 



[1]    J. Risset, Amor di lontano, Estate, “Astro dei giorni” p. 65, Einaudi, Torino 1993.

[2]    E. Frattaroli, Amor di Lontano, dal poema di Jacqueline Risset. Produzione Teatro Libero, Palermo 1992. Interpreti: Franco Mazzi, Galliano Mariani. Percussione Enrico Venturini. Musiche da Sainte Colombe, Giancarlo Schiaffini.

[3]    J. Risset, Amor di lontano, Primavera, “Primo momento” p. 5.

[4]    J. Risset, Amor di lontano, Autunno, “Altri corpi” p. 107.

[5]    J. Risset, Petits éléments de physique amoureuse, Gallimard, Paris 1991.

[6]    Giorgio Agamben, Idea della prosa, Feltrinelli, Milano 1985.

[7]    J. Risset, Amor di lontano, Estate, “Sulle strade in Europa d’estate” p. 89.

[8]    Parmenide, Poema sulla natura, Proemio.

[9]    J. Joyce, Anna Livia Plurabella. I fiumi scorrono, in Scritti italiani, Mondadori, Milano 1978.

[10]  J. Risset, Joyce traduce Joyce, in Scritti italiani, cit.

[11]  E. Frattaroli, Mr Bloom – ALP, da Ulisse e Anna Livia Plurabella di James Joyce, ArgotStudio, Roma 1984. Interpreti: Franco Mazzi, Vita Accardi, Mirella Mazzzeranghi.

[12]  E. Frattaroli, fluidofiume, da Ulisse e Anna Livia Plurabella  di James Joyce, Teatro Trianon, Roma 1988. Interpreti: Franco Mazzi, Carlotta Caimi, Mirella Mazzzeranghi; soprano Cristina Marano, pianoforte Paolo Pasquini.

[13]  Bloomsday 2011, “Leopold Bloom e Anna Livia Plurabella”, a cura di Enrico Frattaroli, con Jacqueline Risset.. Interpreti: Franco Mazzi, Anna Paola Vellaccio. 16 giugno, ore 21 - Sala A di via Asiago 10, Roma.

[14]  E. Settanni, James Joyce e la prima versione italiana del Finnegans Wake, Cavallino, Venezia 1955.

[15]  J. Risset, Il tempo dell’istante, Einaudi, Torino 2011.

[16]  J. Risset, Il tempo dell’istante, Inediti, “Ninfa dal nome che quasi scompare”, cit, p. 165.

[17]  D. Alighieri, Commedia, Inferno, Canto quarto.

[18]  D.A.F. De Sade, Histoire de Juliette, Tome VI, Jean-Jacques Pauvert, Sceaux 1954.

[19]  J. Risset, Il tempo dell’istante, Gli istanti, “Un’istante, venticinque secoli”, p. 165.




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