di
Enrico Frattaroli
Astro dei giorni
di notte
rischiari la luna[1]
In base alla precessione
degli equinozi, ogni 10.500 anni, le posizioni delle stagioni sull’orbita
che la Terra percorre intorno al Sole si trovano esattamente agli antipodi. In
altre parole, tra 10.500 anni, la Primavera cadrà nel punto in cui oggi cade
l’Autunno, l’Estate nel punto in cui cade l’Inverno. Ogni 10.500 anni, quindi,
un ideale amante d’Amor di lontano si troverebbe ad enunciare le
stagioni del proprio percorso amoroso in punti opposti dell’orbita che il suo
discorso descrive intorno al proprio oggetto d’amore.
Fu lo
stratagemma concettuale che mi permise di concepire la scena teatrale d’Amor
di lontano[2] come descrizione
astronomica di stagioni còlte, contemporaneamente, in questi due estremi del
tempo. Ovvero di rappresentare, nello spazio, non i luoghi ma i tempi in cui
Jacqueline Risset articola il suo discorso amoroso. In altri termini, di fare
orbitare gli attori sulla scena come due corpi astrali: due voci agli antipodi
eppure nella stessa stagione d’amore. Due voci ma voce di un solo soggetto: la
voce del soggetto amante. Soggetto in risonanza con se stesso: soggetto flesso,
rifratto, diffratto di una medesima scrittura.
C’è un momento che dice
«sono il primo»
ma non c’è un primo momento[3]
Il primo
momento del mio amore per Amor di lontano risaliva alla prima
lettura del testo originale, al primo contatto col suo corpo linguistico
francese, nel corso del quale registrai, per la prima volta, una vaghezza, un
presagio di scena. Quando poi mi fu data occasione di attualizzare il presagio,
non portai sulla scena la versione francese, bensì la versione italiana nella
traduzione dalla stessa autrice: un altro corpo linguistico originale, quindi,
un secondo primo momento.
Nell’anno della
prima redazione scenica, il poema non era ancora stato pubblicato, lavorai, quindi,
sulla versione che Jacqueline mi consegnò in formato dattiloscritto. Il testo
apparve nelle librerie solo l’anno successivo. Era un altro testo. Molte
delle soluzioni dattiloscritte non figuravano più nella versione tipografica;
minime variazioni, piccoli slittamenti ‒ ma a miriadi ‒ avevano mosso
la superficie del poema.
Nella
versione stampata, non era cambiato solo ciò che in genere cambia nella
traduzione di un testo, era mutata, e in modo significativo, oltre e più che il
verbo, la tipografia: il modo in cui il testo si estende sulla pagina, il modo
in cui ramifica le nere arborescenze d’inchiostro sul bianco della carta. E
questo non accadeva in presenza di particolari nodi espressivi, ma anche
laddove la traduzione era lineare, dove il testo rimaneva immutato nel
passaggio da una lingua all’altra.
Cito solo questo
aspetto per dare la misura di quanto l’autrice volesse che il poema, nel passaggio
da un corpo linguistico all’altro, assumesse una fisionomia propria, ed
esattamente in ciò che lo sguardo percepisce prima ancora di leggere: la sua
immagine, la cui variazione s’inscrive e si mostra nel divario immediato fra i
due testi a fronte. La pagina di destra rinviava alla sinistra, la sinistra
alla destra, in un rapporto non lineare, ma complesso. Rapporto di oscillazione
fra due scritture in visione di parallasse, che non coincidono, nessuna delle
quali, una volta istituite, può esaurire o ridurre l’altra al silenzio.
Ripresi
il lavoro nello stesso anno e nell’anno successivo e, com’è nella mia natura,
lo variai ad ogni ripresa, ma non scelsi di sostituire il vecchio testo con il
nuovo, il ‘provvisorio’ con il ‘definitivo’. Quella prima versione ‒
che era stata per l’autrice solo una variante, un corpo di passaggio ‒ io
la conservai. Fedele d’amore, continuai ad amare quella prima traduzione
transitoria che, forse in virtù di un suo primo momento, era diventata
per me imprescindibile dal corpo del
poema. Un corpo che continuava ad esistere solo nel mio lavoro, che ne
conservava le tracce pur nella transitorietà per eccellenza del suo statuto
teatrale.
Così,
nella mia lettura del poema, continuavo a ondeggiare tra la versione
pubblicata, la versione dattiloscritta, l’originale francese. E non solo. Si
erano aperte delle distanze, dei vuoti nel testo, spazi di risonanza in cui le
diverse versioni echeggiavano l’una con l’altra in un contrappunto di scritture
in abisso. E che richiamavano altre scritture.
Amor che m’hai fatto?
strano strano oggetto
l’eccesso di amore in cui mi hai
messo
si estende ormai al di fuori di te
si estende quasi ovunque
si contrae in altri punti
di quasi nulla
echi
o venti
anche: su altri corpi[4]
Nella messa
in voce del poema, non mi limitai a far risuonare il testo in se stesso ma
volli far risonare in esso altri versi: innanzitutto, altra poesia d’amore
della stessa Risset, nel caso specifico Petits éléments de physique
amoureuse.[5] Un altro corpo testuale e linguistico
‒ tradotto in privato, amato in segreto ‒ le cui fibre si sarebbero
tessute, silenziosamente, con le fibre di Amor di lontano.
Ma una più
importante risonanza intesi porre in atto, con un corpus testuale al cui
oggetto di canto ‒ l’amor de loing, la fin’amor ‒ Jacqueline
Risset era risalita per comporre i suoi versi: i versi degli antichi trovatori
provenzali. Ancora altri corpi linguistici, altri idioletti poetici, non
semplicemente l’antico provenzale, infatti, ma l’antico provenzale di Daniel,
De Peitieu, Rudel, De Ventadorn.
Quando parlo di risonanza,
non parlo di un fenomeno concettuale, ma di un fenomeno fisico. Risonanza con
gli antichi provenzali non significava ispirazione, evocazione astratta, ma
presenza concreta, fisica, e quindi effettivo mescolamento di versi e di fibre,
di fibre poetiche.
Un
testo si inscrive nell’altro, un nuovo testo si scrive: mettere in scena
è tradurre. Tutta l’operazione avveniva attraverso un lavoro poietico
che mi appartiene, entro le cui coordinate il poema di Jacqueline Risset
s’inscriveva e riscriveva e che conduceva a un testo nuovo, a un testo trasfigurato.
Un corpo poetico imprescindibile da me quale soggetto amante e imprescindibile
dal testo della Risset quale oggetto amato. Un corpo liscio e insieme
variegato, unico eppure plurale; un corpo mosso, perturbato, increspato,
marezzato di turbolenze testuali, linguistiche, sonore, vocali. Un corpo
armonico ‒
nel senso verticale, musicale del termine ‒ coi suoi particolari gradi di
risonanza, o un corpo sparso, come il corpo amato, esteso a occupare
altri corpi, intere regioni di spazio, o ancora come un corpo sognato, trasognato...
Una poesia farò di
puro nulla:
non sopra me né
sopra gli altri,
neppur d’amore e di
gioventù,
e di null’altro,
ch’anzi fu scritta
mentre dormivo
sopra un cavallo.
... qu’enans
fo trobatz en durmen / sus un chivau. Sono i versi di Gugliemo di Poitiers
che Jacqueline cita in exergo ad Amor di Lontano. Ne scrive Giorgio Agamben: «Il cavallo su cui viaggia il poeta è, secondo
un’antica tradizione esegetica dell’Apocalisse giovannea, l’elemento sonoro e vocale
del linguaggio. Commentando Ap. 19.11, in cui il logos è descritto come un cavaliere ‘fedele e verace’ che
cavalca un cavallo bianco, Origene spiega che il cavallo è la voce, la parola
come proferimento sonoro, che ‘corre con più slancio e rapidità di
qualsiasi destriero’ e che solo il logos rende intellegibile e chiara».[6]
Il logos
si perde nella misura in cui subentra il sonno: il sogno: la poesia:
Vedo i cavalli uscire dall’acqua
azzurra
e verde
correre come alzati sulla palude
e il cavaliere che li insegue tiene
la frusta piegata
come dimentico di continuare il gesto
come fermato sognante
le cavalle che mi portano
veloci quanto può lo slancio
del cuore
avanzano[7]
Il cavallo di
Guglielmo, i cavalli di Jacqueline, le cavalle di Parmenide[8]:
il tempo dell’istante poetico è tempo di condensazione epifanica, lampo in cui
il tempo conglomera e fonde coscienza, eventi, scritture.
Corvo scuro ode. Notte! Notte! Il mio
cupo capo cade, mi sento pesa come quel sasso.[9]
Durante la
cerimonia di commemorazione per la sua morte, avrei voluto dedicare a Jacqueline le ultime righe di Anna
Livia Plurabella, quelle in cui, al cadere della notte, le due lavandaie,
spossate dal lungo lavare/parlare, cedono al sonno trasformandosi in albero e
roccia sulle rive opposte del fiume. Diversi motivi concorrevano a farmi
sentire esteticamente giusta e risonante la lettura di quelle righe:
innanzitutto che fosse Anna Livia Plurabella, quindi che fosse di Joyce,
poi che implicasse Dante, infine che fosse una scrittura trasmutante, poetica
emanazione del sonno e del sogno.
Per sua fluviale
natura, Anna Livia Plurabella corse e ricorse più volte nei miei
incontri con Jacqueline
Risset. La incontrai la prima volta in Scritti italiani, nel saggio Joyce
traduce Joyce,[10]
che Jacqueline scrisse in prefazione all'italianissima Plurabella di
Joyce. La seconda volta l’ascoltai in occasione del suo intervento al convegno Joyce
in Rome, nel 1982. Mi colpì la sua vitalità, l’esposizione libera e
appassionata, non accademica, dello stesso tema. La terza volta fu due
anni dopo, quando, lavorando in teatro sullo stream of consciousness di
Joyce, decisi di farlo precedere da una interpretazione a due voci di Anna
Livia.[11] La conobbi allora di
persona e conobbi, nella presentazione che mi scrisse per il programma di sala,
la sua disponibilità, la sua generosità, il suo contagioso entusiasmo. Qualche
anno dopo, nel 1989, ci ritrovavamo insieme a Parigi, al Centre Georges
Pompidou, per presentare fluidofiume, nel cui musicale fluire le voci di
Anna Livia si erano ormai del tutto mescolate alla voce di Bloom.[12] Il 16 giugno 2010, eravamo di nuovo insieme
ad Anna Livia per celebrare il Bloomsday, in una serata trasmessa in
diretta da Rai-Radio 3, dedicata, peraltro, alla memoria di Giorgio Melchiori.[13]
Nel suo Joyce
traduce Joyce, Jacqueline aveva messo in evidenza come Joyce, traducendo il
celebre episodio di Finnegans Wake, avesse attinto esclusivamente alla
lingua italiana, sufficientemente plurilinguistica perché l’autore non sentisse
il bisogno, come nell’originale, di ricorrere ad altre lingue. Joyce aveva giocato ‒ e goduto ‒ con la
lingua italiana il gioco di Finnegans Wake, non cercando di rimanere fedele al testo, ma alla
poetica che vi si esprime, non alla lingua d’origine ma alla lingua di arrivo
in cui, in modo inedito, l’aveva ripensata e ricreata. Joyce fece ricorso a
Dante per spiegare il linguaggio di Finnegans Wake: «Papè Satàn Papè
Satàn Aleppe! Padre Dante mi perdoni ma io sono partito da questa tecnica della
deformazione per raggiungere un’armonia
che vince la nostra intelligenza come la musica».[14]
Ripartì da Dante per raggiungere di nuovo il punto in cui il logos cede il passo al ritmo e al suono, alla poesia, in
cui il pensiero si trasmuta in sogno.
Quello della
traduzione è tema essenziale per Jacqueline, sia per la traduzione della Commedia
in francese che per quella in italiano dei suoi stessi versi. Nella nota
all’edizione italiana di Amor di lontano, Risset chiama in causa Dante,
per il quale «ogni traslazione in altro idioma ‒ cita ‒ comporta la
rottura del “legame musaico”: lacerazione irreparabile di fibre poetiche, di
quelle fibre che annodano suono e senso, facendo sì che quel suono e quel senso
appaiano da sempre votati l’uno all’altro». Jacqueline parte dalla
considerazione che nelle due lingue l’espressione non si raggiunge con gli
stessi strumenti, decide quindi di esplorare il testo dall’interno: «lasciarsi
portare dalla memoria ritmica della lingua; e, poi, creare stacchi ulteriori,
usando maiuscole, spazi tipografici, lasciare che il testo proietti un’ombra di
sé, estranea e familiare, come nell’amor di lontano, come in poesia». Nella
nota introduttiva a Il tempo dell’istante,[15]
torna sull’argomento e precisa: «Tradurre è risalire alla fonte, alla genesi
del gesto […] Tornare per un po’ nell’officina dove il poema si è preparato.
Non restituire, non ricostruire il medesimo. Ritrovare, forse, sotto le parole,
l’intento segreto...»
|
Jacqueline Risset (1936-2014)
|
Tradurre, tradursi: in un caso
come nell'altro, è fare poesia. Il saggio Joyce traduce Joyce è anche un saggio per Risset traduce Risset. Anna Livia
Plurabella è
il luogo privilegiato in cui osservare questo processo di traduzione, di
ri-creazione poetica.
Amne
Perenne latens
Anna
Perenna vocor
Evocata con antico nome da I fasti di Ovidio, «Anna Livia Plurabella / fiume dei fiumi
che scorrono e tornano», ricorre tra i versi della Ninfa dal nome che
quasi scompare,[16]
la prima delle quattro poesie inedite che chiudono Il tempo dell’istante, l’ultima raccolta italiana di versi di Jacqueline
Risset.
Il giorno della commemorazione, non lessi quelle
righe di Anna Livia Plurabella così
prossime al silenzio. Sebbene
indelebilmente inscritte nella mia memoria, il timore ingiustificato di non
ricordarle in quel momento mi fece rinunciare, non senza una stretta al cuore,
ad enunciarle. O forse mi sembrarono così ultime, così definitive e
inappellabili, da non poterle immaginare mescolate ai numerosi interventi e
attestati di amicizia che non finivano, giustamente, di avvicendarsi. Gliele
dedico ora, qui, alla fine di questo mio scritto, ma idealmente, cifrate in
bianco, enunciate in silenzio: parlando cose che ’l tacere è bello.[17]
Pensando alla sua improvvisa scomparsa, forse a me
soltanto vengono in mente le ultime righe dell’Histoire de Juliette, quelle in cui Sade scrive: «Au bout de ce temps, la mort de Mme de Lorsanges
la fit disparaitre de la scène du monde, comme s’evanouit ordinairement tout ce
qui brille sur la terre».[18]
Qualcosa che brilla, una creatura che esce di scena e svanisce, luminosa e viva.
Impossibile non accostare Jacqueline alla luce, ogni incontro con lei era un’apparizione
di occhi, capelli, sguardo, sorriso, voce: luminoso stupore di vita. Jacqueline
Risset non poteva andar via in un lasso di tempo, ma solo svanire nel tempo di
un istante. Come lei stessa ha scritto:
Quelque chose de blanc
lumière venant vite sur la
mer
s’en allant
comme
elle était venue, rapide.
Qualcosa di bianco
luce
venuta veloce dal mare
va via
com’era
venuta, rapida.[19]