SPAZIO LIBERO
ADDII
Il secolo lungo
e vitalissimo
di Arnoldo Foà


      
È morto lo scorso gennaio a 98 anni il grande attore ferrarese di origine ebraica. Pressocché in contemporanea è stato pubblicato un agile volumetto critico di Alessandro Ticozzi che ripercorre la sua vasta attività cinematografica. Iniziata negli anni Trenta con Blasetti e proseguita nel dopoguerra, tra gli altri, con Germi e la Wertmüller. Spicca il suo incontro nel 1962 con Orson Welles per il film “Il processo” da Kafka. Altre interpretazioni di rilievo in “Il giocattolo” di Montaldo e in “Gente di Roma” di Ettore Scola, per cui vinse nel 2003 il Nastro d’Argento quale miglior attore non protagonista.
      



      

di Rocco Cesareo

 

                   

Quando la Casa del Cinema di Roma organizzò la festa per il suo 95° compleanno Arnoldo Foà, con la sala gremita di pubblico commosso e di amici adoranti, non seppe rinunciare ad una delle folgoranti battute che lo hanno contraddistinto in oltre settant’anni di carriera: “Ma siete tutti venuti qua per me, davvero? Ma allora siete tutti cretini!”

Non era certo un uomo facile Foà, scomparso a Roma lo scorso 11 Gennaio 2014 a 98 anni. Con lui se ne va un uomo e artista unico, inimitabile, di quelli che certamente hanno lasciato il segno anche per l’impressionante qualità delle sue interpretazioni e per la varietà di personaggi interpretati in centinaia di spettacoli teatrali, film, sceneggiati televisivi, radiofonici e recital di vario genere. Fu anche ottimo doppiatore dando la sua voce ad Anthony Quinn per ‘Zampanò’ nel felliniano La Strada; creò la feroce, melliflua cadenza del viscido Nerone di Peter Ustinov in Quo Vadis e più recentemente la voce narrante di ‘Oompa Loompa’ nell’immaginifico La Fabbrica di Cioccolato di Tim Burton. Un elenco sterminato d’interpretazioni che Foà raccolse  in un’opera autobiografica che non poteva che intitolarsi: Autobiografia di un artista burbero, una confessione sincera, a tutto tondo, di un artista e di un uomo a cui la vita non ha regalato nulla e che ha dovuto  lottare sin dall’infanzia, quando fu abbandonato dalla madre che andando via, lo lasciò al marito portandosi dietro Piero, il prediletto figlio maggiore.





Ad appena un mese dalla sua morte, è uscito nelle librerie, una biografia La voce e il cinema. Arnoldo Foà attore cinematografico (Edizioni Sensoinverso, Ravenna 2014, pp. 68, € 8,00) scritto dal nostro amico, e collaboratore di “Le reti di Dedalus”, Alessandro Ticozzi e credo che su questa ovviamente involontaria coincidenza, difficilmente Foà si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di una graffiante battuta…

Ticozzi con questa sua ultima fatica, completa il “trittico d’attori” cominciato nel 2009 con L’Italia di Alberto Sordi, proseguito l’anno scorso con Il grande Abbuffone. Tra cinema e cucina con Ugo Tognazzi e concluso ora con quest’agile e accurato viaggio nel mondo di Foà attore cinematografico che, dopo un litigio con il padre, lasciata Firenze dove studiava teatro, si trasferì a Roma con l’intenzione di tentare l’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Vi riuscirà grazie ad una buona dose di faccia tosta e contemporaneamente al fiuto di Alessandro Blasetti, allora direttore della scuola, che intravide in quel giovane l’arguto talento che lo contraddistinguerà in tutta la carriera. Ticozzi non dimentica giustamente di raccontare questo episodio, anche perché è estremamente rivelatore di quel  mondo un po’ anarchico, istrionico ed estremamente arguto che sarà poi una caratteristica di Arnoldo Foà.

Del resto, l’incontro professionale fra Blasetti e Foà sarà lungo e proficuo. Già nel 1938 il regista gli affiderà una parte nell’Ettore Fieramosca e anni dopo nel ’46, a guerra finita, lo vorrà con sé in Un giorno nella vita con protagonisti Amedeo Nazzari e Massimo Girotti . Nello stesso anno Foà, a fianco di Roldano Lupi e Marina Berti, girerà Il testimone, debutto registico di Pietro Germi sotto la supervisione dello stesso Blasetti, e nel 1952 nell’episodio “Questione d’interesse”, inserito nel film In Altri tempi sempre di Blasetti, con uno scatenato Folco Lulli si produrrà in un esilarante duetto.

Per tutti gli anni ’50 e ’60 intensificherà la sua attività cinematografica, senza mai essere per troppo tempo assente dal teatro o dalla radio, riuscendo inoltre ad ottenere nello stesso periodo grandi successi televisivi, basti pensare alla Freccia Nera, L’isola del tesoro, dove si misurerà con un altro grande interprete quale Ivo Garrani e Gian Burrasca di Lina Wertmüller.

Ma è nel 1962 che avviene uno degli incontri forse più importanti della sua lunga carriera, quello con il grande Orson Welles.

Anche in questo caso, Ticozzi ci fa rivivere l’incontro fra i due con una vivace capacità narrativa, riuscendo a farci percepire quasi “fisicamente” lo scambio di opinioni fra il  regista americano e l’attore di ferrarese a proposito dell’ambiguo ispettore di polizia cui Foà deve dare volto e voce nella trasposizione cinematografica de Il processo, tratto dall’omonimo racconto di Kafka. Un film straordinario che qualcuno definì come l’opera più riuscita di Welles. Attorniato da un cast che oggi non esiteremmo a definire stellare (Anthony Perkins, Jeanne Moreau, Elsa Martinelli, Romy Schneider) Arnoldo Foà, nell’‘accompagnare’ lo stranito impiegato Perkins negli oscuri meandri di un’infernale burocrazia che finirà per inghiottirlo, offre un’interpretazione d’impressionante efficacia, resa con piccoli tratti rivelatori e che oggi definiremmo quasi minimalista.

Sarà poi la sua fama di professionista caparbio ed esigente a permettergli di confrontarsi tranquillamente, nei panni di un boss della mala, con altri due mostri sacri del cinema internazionale come Alain Delon e Jean Paul Belmondo, nel film Borsalino grande successo di Jacques Deray del 1970.

Ma vi sono anche gli incontri con i grandi autori di casa nostra, e Ticozzi giustamente ricorda, fra i molti avvenuti, due importanti interpretazioni, quella in Il giocattolo di Giuliano Montaldo e Gente di Roma di Ettore Scola. Il regista genovese intervistato da Ticozzi racconta come abbia pensato a Foà per la parte di Griffo, il viscido principale del goffo ragioniere Nino Manfredi: “… durante una seduta di lettura della sceneggiatura, nel momento in cui cercavo di dare effetto al duro scontro fra il personaggio di Griffo e la figlia, che metteva in evidenza il conflitto tra due personalità molto forti, ho alzato il tono della voce per cercare maggiore autorevolezza e ricordo che Vera, mia moglie, mi disse ‘Che fai? La patetica imitazione di Arnoldo Foà?’, fu una folgorazione e Foà fu Griffo!”.





Ettore Scola e Arnoldo Foà: Gente di Roma


Da questo episodio quasi casuale Montaldo, ricorda come l’incontro professionale con un attore di tale impatto emotivo, sia rimasto fra i più belli della sua carriera, e come fosse una grandissima emozione assistere al lavoro in tandem fra Manfredi e Foà. Ettore Scola, nell’intervista concessa a Ticozzi, ricorda invece come in Gente di Roma, film corale ambientato quasi esclusivamente in un ristorante dove a ogni tavolo coppie, gruppi o anche clienti isolati dialogano come in un affresco o in una recita, un veloce ‘siparietto’ fosse dedicato ad un  padre e figlio che mangiano insieme prima che il padre sia accompagnato in una casa di riposo dopo l’ennesimo grosso guaio, causato da un carattere tirannico, reso ingestibile dall’arteriosclerosi: una specie di ultima cena.

Anche la sera prima il regista e Foà avevano cenato insieme e l’attore, nel mostrare come intendesse rappresentare quel personaggio di vecchio dispotico, ma vitalissimo e pieno d’ironia, sembrò volerlo quasi volerlo ritagliare su se stesso. Per questa interpretazione, quasi un cameo che si snoda in pochi metri di pellicola, Foà vinse nel 2003, il Nastro d’Argento quale miglior attore non protagonista.

Un esempio da manuale per il sempre valido detto: non esistono piccole parti ma piccoli attori.

Un’altra interpretazione viene ricordata con attenzione, quella di un Presidente della Repubblica di chiara estrazione per così dire ‘Ciampiana’ in La febbre di Alessandro D’Alatri con Fabio Volo protagonista. Nell’intervista a D’Alatri, Ticozzi fa emergere quanto il nome di Foà fosse rispettato anche da registi molto più giovani, proprio per la sua capacità innata di essere un giovane saggio novantenne.

 

“…Mi diverto a guardare i miei simili. Si credono Dio, la terra li espellerà. E vuole saperlo? La cosa mi mette allegria. Vedo tutti questi mammiferi  trafelati, che intrigano, s’imbrogliano l’uno con l’altro, si credono immortali e mi viene da ridere: Rido a crepapelle. è così! Gli anziani vanno in tragedia o in commedia. Io vado in commedia”.

 

“… Ricordo di essere vecchio solo perché me lo rammentano ossessivamente gli altri. Ma non mi lamento. Non ho mai avuto la vocazione all’infelicità. Non mi frega niente di sapere se il teatro è vivo o morto. Io penso che il teatro sia la cosa più importante che ci sia, racconta il destino dell’uomo. Ti pare poco”.

(intervista concessa a Giancarlo Dotto per La Stampa nell’agosto del 2007)

 

L’unico pensiero angoscioso che riusciva a scuotere la sua forte tempra era il ricordo della guerra. Lo riportava ai tempi bui delle leggi razziali, quando per lavorare, dovette cambiare nome.

 

Foà aveva visto tutto, era nato quando Einstein pubblicava la teoria della relatività, era un uomo del ‘Secolo breve’ e proprio per la logicità innata che ne deriva, non riusciva ad afferrare il senso dell’inutilità del male e dello spreco che l’essere umano fa di sé assecondando la ‘bestia’ invece del sano ‘animale’.

 




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