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di Rocco Cesareo
Quando la Casa del Cinema di Roma
organizzò la festa per il suo 95° compleanno Arnoldo Foà, con la sala gremita di
pubblico commosso e di amici adoranti, non seppe rinunciare ad una delle folgoranti
battute che lo hanno contraddistinto in oltre settant’anni di carriera: “Ma
siete tutti venuti qua per me, davvero? Ma allora siete tutti cretini!”
Non era certo un
uomo facile Foà, scomparso a Roma lo scorso 11 Gennaio 2014 a 98 anni. Con lui se
ne va un uomo e artista unico, inimitabile, di quelli che certamente hanno lasciato
il segno anche per l’impressionante qualità delle sue interpretazioni e per la
varietà di personaggi interpretati in centinaia di spettacoli teatrali, film,
sceneggiati televisivi, radiofonici e recital di vario genere. Fu anche ottimo
doppiatore dando la sua voce ad Anthony Quinn per ‘Zampanò’ nel felliniano La Strada;
creò la feroce, melliflua cadenza del viscido Nerone di Peter Ustinov in Quo Vadis e più recentemente la voce
narrante di ‘Oompa Loompa’ nell’immaginifico La Fabbrica di Cioccolato di Tim Burton. Un elenco sterminato d’interpretazioni
che Foà raccolse in
un’opera autobiografica che non poteva che intitolarsi: Autobiografia di un artista burbero, una confessione sincera, a
tutto tondo, di un artista e di un uomo a cui la vita non ha regalato nulla e
che ha dovuto lottare sin dall’infanzia,
quando fu abbandonato dalla madre che andando via, lo lasciò al marito
portandosi dietro Piero, il prediletto figlio maggiore.
Ad appena un
mese dalla sua morte, è uscito nelle librerie, una biografia La voce e il cinema. Arnoldo Foà attore
cinematografico (Edizioni Sensoinverso, Ravenna 2014, pp. 68, € 8,00) scritto
dal nostro amico, e collaboratore di “Le reti di
Dedalus”, Alessandro Ticozzi e credo che su questa ovviamente involontaria
coincidenza, difficilmente Foà si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di una
graffiante battuta…
Ticozzi con questa
sua ultima fatica, completa il “trittico d’attori” cominciato nel 2009 con L’Italia di Alberto Sordi, proseguito
l’anno scorso con Il grande Abbuffone. Tra
cinema e cucina con Ugo Tognazzi e concluso ora con quest’agile e accurato
viaggio nel mondo di Foà attore cinematografico che, dopo un litigio con il
padre, lasciata Firenze dove studiava teatro, si trasferì a Roma con
l’intenzione di tentare l’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia.
Vi riuscirà
grazie ad una buona dose di faccia tosta e contemporaneamente al fiuto di Alessandro
Blasetti, allora direttore della scuola, che intravide in quel giovane l’arguto
talento che lo contraddistinguerà in tutta la carriera. Ticozzi non dimentica
giustamente di raccontare questo episodio, anche perché è estremamente
rivelatore di quel mondo un po’ anarchico, istrionico ed
estremamente arguto che sarà poi una caratteristica di Arnoldo Foà.
Del resto, l’incontro
professionale fra Blasetti e Foà sarà lungo e proficuo. Già nel 1938 il regista
gli affiderà una parte nell’Ettore
Fieramosca e anni dopo nel ’46, a guerra finita, lo vorrà con sé in Un giorno nella vita con protagonisti
Amedeo Nazzari e Massimo Girotti . Nello stesso anno
Foà, a fianco di Roldano Lupi e Marina Berti, girerà Il testimone, debutto registico di Pietro Germi sotto la
supervisione dello stesso Blasetti, e nel 1952 nell’episodio “Questione d’interesse”,
inserito nel film In Altri tempi
sempre di Blasetti, con uno scatenato Folco Lulli si produrrà in un esilarante
duetto.
Per tutti gli
anni ’50 e ’60 intensificherà la sua attività cinematografica, senza mai essere
per troppo tempo assente dal teatro o dalla radio, riuscendo inoltre ad
ottenere nello stesso periodo grandi successi televisivi, basti pensare alla Freccia Nera, L’isola del tesoro, dove si misurerà con un altro grande interprete
quale Ivo Garrani e Gian Burrasca di
Lina Wertmüller.
Ma è nel 1962
che avviene uno degli incontri forse più importanti della sua lunga carriera, quello
con il grande Orson Welles.
Anche in questo caso,
Ticozzi ci fa rivivere l’incontro fra i due con una vivace capacità narrativa,
riuscendo a farci percepire quasi “fisicamente” lo scambio di opinioni fra il regista americano
e l’attore di ferrarese a proposito dell’ambiguo ispettore di polizia cui Foà
deve dare volto e voce nella trasposizione cinematografica de Il processo, tratto dall’omonimo
racconto di Kafka. Un film straordinario che qualcuno definì come l’opera più
riuscita di Welles. Attorniato da un cast che oggi non esiteremmo a definire stellare
(Anthony Perkins, Jeanne Moreau, Elsa Martinelli, Romy Schneider) Arnoldo Foà,
nell’‘accompagnare’ lo stranito impiegato Perkins negli oscuri meandri di un’infernale
burocrazia che finirà per inghiottirlo, offre un’interpretazione d’impressionante
efficacia, resa con piccoli tratti rivelatori e che oggi definiremmo quasi
minimalista.
Sarà poi la sua
fama di professionista caparbio ed esigente a permettergli di confrontarsi tranquillamente,
nei panni di un boss della mala, con altri due mostri sacri del cinema internazionale
come Alain Delon e Jean Paul Belmondo, nel film Borsalino grande successo di Jacques Deray del 1970.
Ma vi sono anche
gli incontri con i grandi autori di casa nostra, e Ticozzi giustamente ricorda,
fra i molti avvenuti, due importanti interpretazioni, quella in Il giocattolo di Giuliano Montaldo e Gente di Roma di Ettore Scola. Il
regista genovese intervistato da Ticozzi racconta come abbia pensato a Foà per
la parte di Griffo, il viscido principale del goffo ragioniere Nino Manfredi: “…
durante una seduta di lettura della sceneggiatura, nel momento in cui cercavo
di dare effetto al duro scontro fra il personaggio di Griffo e la figlia, che
metteva in evidenza il conflitto tra due personalità molto forti, ho alzato il
tono della voce per cercare maggiore autorevolezza e ricordo che Vera, mia
moglie, mi disse ‘Che fai? La patetica imitazione di Arnoldo Foà?’,
fu una folgorazione e Foà fu Griffo!”.
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Ettore Scola e Arnoldo Foà: Gente di Roma
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Da questo
episodio quasi casuale Montaldo, ricorda come l’incontro professionale con un attore
di tale impatto emotivo, sia rimasto fra i più belli della sua carriera, e come
fosse una grandissima emozione assistere al lavoro in tandem fra Manfredi e Foà.
Ettore Scola, nell’intervista concessa a Ticozzi, ricorda invece come in Gente di Roma, film corale ambientato
quasi esclusivamente in un ristorante dove a ogni tavolo coppie, gruppi o anche
clienti isolati dialogano come in un affresco o in una recita, un veloce
‘siparietto’ fosse dedicato ad un padre
e figlio che mangiano insieme prima che il padre sia accompagnato in una casa
di riposo dopo l’ennesimo grosso guaio, causato da un carattere tirannico, reso
ingestibile dall’arteriosclerosi: una specie di ultima cena.
Anche la sera
prima il regista e Foà avevano cenato insieme e l’attore, nel mostrare come
intendesse rappresentare quel personaggio di vecchio dispotico, ma vitalissimo
e pieno d’ironia, sembrò volerlo quasi volerlo ritagliare su se stesso. Per
questa interpretazione, quasi un cameo che si snoda in pochi metri di pellicola,
Foà vinse nel 2003, il Nastro d’Argento quale miglior attore non protagonista.
Un esempio da
manuale per il sempre valido detto: non esistono piccole parti ma piccoli
attori.
Un’altra
interpretazione viene ricordata con attenzione, quella di un Presidente della
Repubblica di chiara estrazione per così dire ‘Ciampiana’ in La febbre di Alessandro D’Alatri con
Fabio Volo protagonista. Nell’intervista a D’Alatri, Ticozzi fa emergere quanto
il nome di Foà fosse rispettato anche da registi molto più giovani, proprio per
la sua capacità innata di essere un giovane saggio novantenne.
“…Mi diverto a guardare i miei simili. Si
credono Dio, la terra li espellerà. E vuole saperlo? La cosa mi mette allegria.
Vedo tutti questi mammiferi
trafelati, che intrigano, s’imbrogliano l’uno con l’altro, si
credono immortali e mi viene da ridere: Rido a crepapelle. è così! Gli anziani vanno in tragedia o
in commedia. Io vado in commedia”.
“… Ricordo di essere vecchio solo perché me lo rammentano
ossessivamente gli altri. Ma non mi lamento. Non ho mai avuto la vocazione
all’infelicità. Non mi frega niente di sapere se il teatro è vivo o morto. Io
penso che il teatro sia la cosa più importante che ci sia, racconta il destino
dell’uomo. Ti pare poco”.
(intervista concessa a Giancarlo Dotto per La Stampa nell’agosto del
2007)
L’unico pensiero
angoscioso che riusciva a scuotere la sua forte tempra era il ricordo della
guerra. Lo riportava ai tempi bui delle leggi razziali, quando per lavorare,
dovette cambiare nome.
Foà aveva visto
tutto, era nato quando Einstein pubblicava la teoria della relatività, era un
uomo del ‘Secolo breve’ e proprio per la logicità innata che ne deriva, non
riusciva ad afferrare il senso dell’inutilità del male e dello spreco che
l’essere umano fa di sé assecondando la ‘bestia’ invece del sano ‘animale’.
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