CHECKPOINT POETRY
SONIA GENTILI
 


Albero elettrico

 

Eri l’albero elettrico dell’alba, ramificavi il tuo abbaglio nelle cose,

illuminavi ogni scheletro ed i corpi

filtravano la fiamma che io vedevo in forma di chiarore: rosata si stingeva sulle punte

di montagne ingentilite dal tuo esistere. Sembravi rosa ed eri cieco:

eri la luce, e le cose un paralume

bruciato dall’abbaglio del tuo esistere

o ero io a distruggere e bruciare, forse sì, eppure  non della mia luce

ardevano le acque del mattino, oppure     

era la mia la luce, sì, e tu solo la cosa

che splende rosa e dentro

è già bruciata

 

 

 

Paesaggio I

 

Il giorno tagliato

nel fuoco e nel metallo

 

i suoi attimi riflessi sulle nuvole

come aghi poggiati sull’ovatta

 

di schiena, la strada

forte e disperata

si denuda

 

nella curva, dove il cielo precipita in silenzio,

una grande ruota blu appoggiata al muro

comanda il tempo

e vuole il tuo silenzio

 

precipita qualcosa ad ogni curva perché il tempo

ama la tua paura:

per violarla

ricama la strada di imboscate

 

al tramonto sono tutte vecchie storie:

il tempo, la tua paura, il loro amore

fatto di imboscate e tradimenti

 

poi la notte obliqua come un ladro

la notte come un cieco

smisurato

la sua testa di vecchio tra stelle

in silenzio richiama il tuo silenzio

 

il gioco

dei passeri

perduto nella vigna

 

il gatto sulla vigna

bestia alata

nuova caccia

 

la caccia al buio

la luce la illumina in un lampo

perché la caccia è attimo e non dura

 

oggi non c’è più traccia della notte

 

l’alba si gonfia lenta

è una mammella

 

una lancia di luce attraverso gli alberi ha bruciato

le cose di ieri

 

sulla fronte dell’alba una ferita

 

 

 

Paesaggio II

 

Un cielo feroce come un cane

azzanna le montagne con tristezza

 

il grigio è un ordine

sfinito da se stesso

 

sullo sfondo ammassi di montagne

come duri corpi di bestie

 

luce di luna sull’ossario

 

 

 

Dio degli eserciti

 

Come uno straccio o un lenzuolo blu

allagato da fughe di luce

questo nuovo acuminato giorno

mi inchioda alla sua desolata

terra ocra

 

su questa terra il mio corpo è nero

 

 

come sul letto disfatto sboccano attraverso

finestre scardinate dalla luce fiotti

innumerevoli e violenti di fulgore,

così la gloria, così lo splendore del nuovo

giorno mi pervade: come un crimine

da sempre già commesso, nato

da se stesso, mortale come secoli

di insonnia o come la cornea remota nel bianco

dell’occhio, indifferente

al male che si guarda, come una donna vecchia

che spunta, dipinta in volto, dal dosso

sulla strada: con occhi

senza palpebre, famelica

di marcia come il dio

degli eserciti, opalescente fredda e verde al sole come un’ala

di insetto.

Con tacchi

orribili perfora ogni possibile dolcezza,

questo giorno che vuole la mia gioia

ed io so opporgli solo una tristezza

non mia, ma delle cose in cui dimora

il buio dove chiusa si rinnova

una preistorica saggezza

di testuggine: vecchissima,

rugosa dolcemente sotto l’oro

sabbioso di ciò che è tramontato,

brilla la fiamma dalle lunghe dita; sale

dalla candela al cielo per pregare

che crollino

si dissolvano le mura

di ogni chiesa

 

dio degli eserciti, non hai imparato

la pietà che abbraccia ogni bambino

disperato, legato al cagnolino

per un lacciuolo

d’erba, per l’amore

dei sassi docili all’acqua come lacrime

lasciate ai bordi delle strade

 

dio degli eserciti,

padrone

del nerbo di bue chiamato sole

con cui la morte illumina

di la terra ocra

 

 

 

Papaveri bianchi

 

Ascolta,

il silenzio è un esercito

ammassato nelle foglie

lungo un braccio

di fiume

 

senti, ripete non a te la

sua domanda, ma al cuore

d’un piccolo animale

che sente pulsare accanto alla sua mano

 

disobbedisce il silenzio delle foglie;

non farà nascere le rose, perché da un’altra altezza

si può amare: dimenticare

l’ordine e il conforto

 

e la dimenticanza vendica

l’attesa; dimenticare

secca rose antiche

 

bianchi papaveri vincono le rose

vince la guerra il più triste soldato

un fumatore d’oppio

innamorato

 

 

 

Il silenzio è un esercito

 

La bestia ha aspettato l’uomo, quello o qualunque altro, nella luce desertica dell’Appennino.

È grigioazzura, massiccia e atemporale come una divinità. Ha artigli, petto e orecchie da re: tranquillamente consapevoli della propria istanza di dominio; qualcosa nel suo campo visivo risplende sempre con la luce trasversa della sciabola. Di fronte al lupo c’è l’uomo.

L’uomo è grigio, ma esile e come corroso dalla luce; si può immaginare che guardi o preghi il lupo.

La luce è arida, sfocata dalla troppa volontà di colpire o dall’indifferenza del colpire: atemporale come il lupo. Soltanto l’uomo è solo.

 Il silenzio è un esercito di muti in ascolto, e l’uomo è solo. Il silenzio è un esercito di muti che accusa l’uomo, e il lupo guarda. Il silenzio è un esercito, ed ha un capo: il lupo. L’uomo sa che il lupo comanda il suo silenzio, e si chiede perché questo sia possibile. La donna lo raggiunge, lo abbraccia; nella stretta qualcosa si allontana da lui come una bestia in fuga.

 

 

 

Giusto e sbagliato

 

Il tempo ha il suo rovescio:

la poesia.

 

Passare il tempo a scriverne è sbagliato,

ma è più sbagliato

contarlo mentre passa. Il peggio è contare cose

accumulate, anni di guerre

o matrimoni, parti

da ricomporre un giorno

atteso

che non verrà.

 

Non verrà il giorno, tu

non finirai la conta:

il tempo non edifica ma guarda, pensoso, i pesanti anelli

alle sue dita. Ha occhi fermi

che guardano

se stessi, come tra loro amano fare

le solitarie pietre

di lava, ai piedi del vulcano.

 

Una luce di fosforo

ci accende, e questo è il sole: un grappolo di lune

già morte in millenarie

silenziose

esplosioni

 

la follia sa fissare

la luce, abbandonarsi a lei

abbagliata, percorrerla

a ritroso fino ai cieli

tranquilli

in cui buie

corone cingono

le stelle

 

la follia ama sostare

in pigre acque addormentate

al centro di tempeste, dove il tempo

è padre

del nostro tempo:

è l’occhio

che sogna,

è l’onda

che non muove ma accarezza

la nave:

è ciò che è fermo

 

 

 

La luna e la sbarra

 

La luna come i fiumi

è un ammasso di detriti

 

un regno che splende

dopo il crollo: la mortale

dolcezza della fine

 

la luna è la mia fine

 

niente salva:  ha un cuore

di zucchero la regola,

la legge è glassa, la morale

sciroppo che non calma i vecchi spasmi

 

la luce è la mia fine

 

perché porto una spina

nella carne,

come fuoco: esco dal sogno

come da una madre,

nuda attraverso l’alba

in guerra, violandola e facendomi

violare: odiandola

 

perché non so combattere l’assedio

che il giorno pone ogni giorno

ai nostri occhi: la sbarra

che si leva ad ogni alba

e si richiude

e ci sfida

a scavalcarla

 

chi resta dietro la sbarra,

negli ieri, con gli occhi

coperti dalle mani,

sarà calpestato sulla schiena

dai cavalli selvaggi

dei domani

 

chi la scavalca e strappa

da con lento

inesauribile dolore

ciò che è stato

trascina nel passo

una catena.

 

C’è in noi qualcosa di contrario ai fati. Per questo moriremo

calpestati

 

 

 

 

*  Sonia Gentili, docente di Letteratura Italiana (università di Roma “La Sapienza”), autrice di studi sulla letteratura medioevale (L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, Carocci, 2005) e del Novecento (Cultura della razza e cultura letteraria nell’Italia del Novecento, Carocci, 2008), traduttrice letteraria dal francese di prosa (Maurice Leblanc, Arsenio Lupin, traduzione di S. Gentili e G. Panfili, intr. di C. Augias, Donzelli, 2007; Xavier-Marie Bonnot, La prima impronta, trad. di S. Gentili, Einaudi, 2007; Gilbert Gatore, Il passato davanti a , trad. di S. Gentili, Fazi, 2009) e poesia (Gherasim Luca, L’eco del corpo, a cura di S. Gentili, in «Testo a Fronte», 43, 2010), vincitrice del premio per la letteratura “A. S. Novaro” (Academia dei Lincei, 2009), ha esordito con la raccolta poetica L'impero e la Gorgone, prefaz. Di Giorgio Patrizi, Giulio Perrone editore, 2007, finalista al premio Brancati, ed ha pubblicato poesie in rivistaPoeti e poesia», «Forma fluens») e antologie (Il canto della terra, Samuele editore, 2011); sue poesie sono apparse in traduzione inglese (Inverse 2011, a cura di B. Antomarini). È appena apparsa la sua seconda raccolta di poesie (Parva naturalia, prefaz. di Elio Pecora, Aragno editore, 2012; rec. E. Golino, “il Venerdì di repubblica”, 19/10/2012; C. Bello, “Alias – Il Manifesto”, 13/1/2013).

 




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