Albero elettrico
Eri l’albero elettrico dell’alba, ramificavi il tuo abbaglio nelle cose,
illuminavi ogni scheletro ed i corpi
filtravano la fiamma che io vedevo in forma di chiarore: rosata si
stingeva sulle punte
di montagne ingentilite dal tuo esistere. Sembravi rosa ed eri cieco:
eri la luce, e le cose un paralume
bruciato dall’abbaglio del tuo esistere
o ero io a distruggere e bruciare, forse sì, eppure non della mia luce
ardevano le acque del mattino, oppure
era la mia la luce, sì, e tu solo la cosa
che splende rosa e dentro
è già bruciata
Paesaggio
I
Il
giorno tagliato
nel fuoco
e nel metallo
i
suoi attimi riflessi sulle nuvole
come
aghi poggiati sull’ovatta
di
schiena, la strada
forte
e disperata
si
denuda
nella curva,
dove il cielo precipita in silenzio,
una grande ruota blu appoggiata
al muro
comanda il tempo
e
vuole il tuo silenzio
precipita qualcosa
ad ogni curva perché il
tempo
ama la tua paura:
per
violarla
ricama la strada
di imboscate
al
tramonto sono tutte vecchie
storie:
il
tempo, la tua paura, il loro
amore
fatto di imboscate
e tradimenti
poi la notte
obliqua come un ladro
la
notte come un cieco
smisurato
la
sua testa di vecchio tra stelle
in
silenzio richiama il tuo silenzio
il
gioco
dei
passeri
perduto nella
vigna
il
gatto sulla vigna
bestia alata
nuova caccia
la
caccia al buio
la
luce la illumina in un lampo
perché
la caccia è attimo e non
dura
oggi non c’è più traccia della notte
l’alba
si gonfia lenta
è
una mammella
una lancia
di luce attraverso gli alberi ha bruciato
le
cose di ieri
sulla fronte
dell’alba una ferita
Paesaggio
II
Un
cielo feroce come un cane
azzanna le montagne con tristezza
il
grigio è un ordine
sfinito da se stesso
sullo sfondo
ammassi di montagne
come
duri corpi di bestie
luce di luna
sull’ossario
Dio
degli eserciti
Come
uno straccio o un lenzuolo blu
allagato da fughe
di luce
questo nuovo
acuminato giorno
mi
inchioda alla sua desolata
terra
ocra
su
questa terra il mio corpo è
nero
come
sul letto disfatto sboccano attraverso
finestre scardinate
dalla luce fiotti
innumerevoli e violenti
di fulgore,
così la gloria, così lo splendore
del nuovo
giorno
mi pervade: come un crimine
da
sempre già commesso, nato
da
se stesso, mortale come secoli
di
insonnia o come la cornea remota nel bianco
dell’occhio, indifferente
al
male che si guarda, come una donna vecchia
che spunta,
dipinta in volto, dal dosso
sulla strada:
con occhi
senza palpebre,
famelica
di
marcia come il dio
degli eserciti,
opalescente fredda e verde
al sole come un’ala
di
insetto.
Con
tacchi
orribili perfora ogni possibile dolcezza,
questo giorno che vuole la mia
gioia
ed io
so opporgli solo una tristezza
non
mia, ma delle cose in cui dimora
il
buio dove chiusa si rinnova
una preistorica
saggezza
di
testuggine: vecchissima,
rugosa dolcemente
sotto l’oro
sabbioso di ciò
che è tramontato,
brilla
la fiamma dalle lunghe dita; sale
dalla
candela al cielo per pregare
che crollino
si
dissolvano le mura
di
ogni chiesa
dio degli
eserciti, non hai imparato
la
pietà che abbraccia ogni bambino
disperato, legato al cagnolino
per
un lacciuolo
d’erba, per l’amore
dei
sassi docili all’acqua come lacrime
lasciate ai bordi
delle strade
dio degli
eserciti,
padrone
del nerbo
di bue chiamato sole
con
cui la morte illumina
di
sé la terra ocra
Papaveri
bianchi
Ascolta,
il
silenzio è un esercito
ammassato nelle
foglie
lungo un braccio
di
fiume
senti,
ripete non a te la
sua
domanda, ma al cuore
d’un
piccolo animale
che sente pulsare accanto alla sua mano
disobbedisce il silenzio
delle foglie;
non
farà nascere le rose,
perché da un’altra altezza
si
può amare: dimenticare
l’ordine e il conforto
e
la dimenticanza vendica
l’attesa; dimenticare
secca rose antiche
bianchi papaveri
vincono le rose
vince la guerra
il più triste soldato
un
fumatore d’oppio
innamorato
Il
silenzio è un esercito
La
bestia ha aspettato l’uomo, quello o qualunque altro, nella luce desertica
dell’Appennino.
È
grigioazzura, massiccia e atemporale come una divinità. Ha artigli, petto e orecchie da re: tranquillamente consapevoli della propria istanza
di dominio; qualcosa nel suo campo visivo
risplende sempre con la luce trasversa della sciabola. Di fronte al lupo c’è l’uomo.
L’uomo è grigio, ma esile e come corroso dalla luce; si può immaginare
che guardi o preghi il lupo.
La
luce è arida, sfocata dalla troppa volontà di colpire o dall’indifferenza del colpire: atemporale come il lupo. Soltanto l’uomo è solo.
Il silenzio è un esercito di muti in ascolto, e l’uomo è solo. Il silenzio è un esercito di muti che accusa l’uomo, e il lupo guarda. Il silenzio è un esercito, ed ha un capo: il lupo. L’uomo sa che il lupo comanda
il suo silenzio, e si chiede perché questo sia possibile. La donna lo raggiunge, lo
abbraccia; nella stretta qualcosa si allontana da lui come una bestia in fuga.
Giusto
e sbagliato
Il tempo ha il suo rovescio:
la poesia.
Passare il tempo a scriverne è sbagliato,
ma è più sbagliato
contarlo mentre
passa. Il peggio è contare cose
accumulate, anni
di guerre
o matrimoni,
parti
da ricomporre
un giorno
atteso
che non verrà.
Non verrà
il giorno, tu
non finirai la conta:
il tempo non edifica
ma guarda, pensoso, i pesanti anelli
alle sue dita.
Ha occhi fermi
che guardano
se stessi,
come tra loro amano fare
le solitarie
pietre
di lava, ai piedi
del vulcano.
Una luce
di fosforo
ci accende,
e questo è il sole: un grappolo
di lune
già morte in millenarie
silenziose
esplosioni
la follia
sa fissare
la luce, abbandonarsi a lei
abbagliata, percorrerla
a ritroso fino ai cieli
tranquilli
in cui buie
corone cingono
le stelle
la follia
ama sostare
in pigre
acque addormentate
al centro di tempeste, dove il tempo
è padre
del nostro
tempo:
è l’occhio
che sogna,
è l’onda
che non muove ma accarezza
la nave:
è ciò che
è fermo
La
luna e la sbarra
La luna come i fiumi
è un ammasso di detriti
un regno che splende
dopo il crollo:
la mortale
dolcezza della
fine
la luna è la mia fine
niente salva: ha un cuore
di zucchero la regola,
la legge è glassa, la morale
sciroppo che
non calma i vecchi spasmi
la luce è la mia fine
perché porto una spina
nella carne,
come fuoco: esco dal sogno
come da una madre,
nuda attraverso
l’alba
in guerra, violandola e facendomi
violare: odiandola
perché non so combattere l’assedio
che il giorno pone
ogni giorno
ai nostri occhi: la sbarra
che si leva ad ogni
alba
e si richiude
e ci sfida
a scavalcarla
chi resta dietro la sbarra,
negli ieri,
con gli occhi
coperti dalle mani,
sarà calpestato
sulla schiena
dai cavalli
selvaggi
dei domani
chi la scavalca e strappa
da sé con lento
inesauribile dolore
ciò che è stato
trascina nel
passo
una catena.
C’è in noi qualcosa di contrario ai fati.
Per questo moriremo
calpestati
*
Sonia Gentili,
docente di Letteratura Italiana (università di Roma “La Sapienza”), autrice di studi sulla letteratura medioevale (L’uomo aristotelico alle origini della
letteratura italiana, Carocci, 2005) e del Novecento (Cultura della razza e cultura
letteraria nell’Italia del Novecento, Carocci,
2008), traduttrice letteraria
dal francese di prosa
(Maurice Leblanc, Arsenio Lupin, traduzione
di S. Gentili e G. Panfili,
intr. di C. Augias, Donzelli,
2007; Xavier-Marie Bonnot, La
prima impronta, trad. di S. Gentili, Einaudi, 2007; Gilbert
Gatore, Il passato davanti a sé, trad. di S. Gentili, Fazi, 2009) e poesia (Gherasim Luca, L’eco del corpo, a cura di S. Gentili, in «Testo a Fronte», 43, 2010), vincitrice del premio per la letteratura “A. S. Novaro” (Academia dei Lincei, 2009), ha esordito con la raccolta poetica L'impero e la Gorgone, prefaz.
Di Giorgio Patrizi, Giulio Perrone
editore, 2007, finalista al
premio Brancati, ed ha pubblicato poesie in rivista («Poeti e poesia», «Forma fluens») e antologie (Il canto della
terra, Samuele editore,
2011); sue poesie sono apparse
in traduzione inglese (Inverse 2011, a cura di B. Antomarini). È appena apparsa la sua seconda raccolta
di poesie (Parva naturalia, prefaz. di Elio Pecora, Aragno editore, 2012; rec. E. Golino,
“il Venerdì di repubblica”,
19/10/2012; C. Bello, “Alias – Il Manifesto”,
13/1/2013).