Still life
(1a parte)
Da
alcuni suggerimenti di Edward Hopper
interpretati in tredici
quadri
2012
Pre-testo per una vita silenziosa
L’incontro con Edward Hopper è una rivelazione. Diresti che quel suo
mondo, così tipicamente americano, per qualche verso ti appartiene, ha un senso
anche per te. Si allontana e si avvicina, è una realtà che vuole entrare
nell’orizzonte delle tue esperienze, e nello stesso tempo risulta percepita
come distante, come fortemente simbolica.
Non so se qualcuno lo ha mai detto, ma le figure umane dei quadri di
Hopper, facendo tutt’uno con gli ambienti in gran parte domestici in cui sono
immerse, sembrano una versione tutta originale di una “Natura morta”, anzi di
una “Still Life” o “Stilleben”, traducibile col suo significato più
appropriatamente filosofico di vita
silenziosa. Ovviamente, è singolare che esseri umani siano sostitutivi dei
tradizionali oggetti che appaiono nelle “Nature morte”. In genere si tratta di
frutta di vario genere, di bottiglie, di vasi, di ciotole, di strumenti
musicali, insomma di presenze che risultano residuali, secondarie, staccate dal
loro contesto. La “Natura morta” non rinvia ad una realtà palese, ma ad una
realtà nascosta, misteriosa, non familiare. È tutto il contrario di ciò che
vorrebbe far credere, e anche del fatto di essere un genere tutto sommato più
modesto di pittura.
Basta però scorrere i cataloghi d’arte dal ’600 in poi per accorgersi che
non è così. Da Caravaggio a Morandi la “Natura morta” gode di ottima fama e
conferma all’artista la sua magistrale abilità tecnica. Quello che colpisce in
una “Natura morta” è il senso di vertigine simbolica che essa comunica. Da
oggetti così umili, e rappresentati, però, fuori da ogni contesto
significativo, “grammaticale”, sale un’interrogazione che ha a che fare con il
loro desolato abbandono allo spazio, con la loro individualità inquietante.
Che cosa c’è oltre il limite di quelle forme? Che cosa vuol dire tutto
quel silenzio che le circonda, tutta quella vita che sembra essersi arrestata?
Che cos’è quella corrente leggermente elettrica di nostalgia che attraversa
improvvisamente la scena, riportando confusamente ad un ricordo, a qualcosa che
è avvenuto, a qualcosa che stava prima che quell’immagine si formasse?
Se questo avviene per una ”Natura morta” tradizionale, si può immaginare
quale sia l’impatto di fronte alle figure umane immerse in un’atmosfera di più
o meno intensa sospensione vitale. Quasi sempre tutto questo succede nei quadri
di Hopper, e quasi sempre gli uomini e le donne che vi appaiono si trovano
all’interno di una stanza o vicini ad una casa. Perché Hopper sembra rendere la
figura umana alla maniera di una “Natura morta”? Qual è lo scopo di quegli
ambienti essenziali, di quegli spazi irreali, di quell’incombente sensazione di
angoscia?
Le creature di Hopper stanno immobili, come paralizzate da pensieri e da
meditazioni troppo pesanti per le loro fragili spalle umane. È come se stessero
per dire qualcosa, per raccontare la propria storia. Comunicano due cose
fondamentali: 1) “Sono qui e ora, arrivato/a a questa situazione”, e 2)
“L’unica ricchezza che mi rimane è la memoria”. Le immagini sono bloccate ad un
istante del tempo (la loro ‘solidità’ spaziale rimanda al vecchio mestiere
dell’autore che era pubblicitario), ma di esse si possono indovinare tutti gli
istanti che precedono e tutti quelli che seguono. Si tratta di esseri umani
sottoposti ad un’evoluzione, ad un cambiamento, ma che hanno scelto quella
posa, quella particolare ora della vita per dichiararsi.
Si può affermare che essi siano assolutamente diversi dalle bottiglie e
dai fiori di Giorgio Morandi? Una cosa che salta facilmente all’occhio è la
ripetizione ossessiva del tema sotto luminosità e prospettive
impercettibilmente modificate. In Hopper gli individui incarcerati nella loro
solitudine, in Morandi gli oggetti più-oggetti de-realizzati. La vita silenziosa avvolge ugualmente gli
uni e gli altri e si offre nuda ad una contemplazione che non lascia molte vie
di scampo sulla comprensione complessiva delle immagini rappresentate. Esse
rimandano all’Altrove, all’Altro, alla Cosa che sta oltre quella vita quasi
estratta dalla sua caducità, strappata all’istante successivo che la precipita
nel vuoto, nel nulla, nella morte.
La vita, così, si sposta di pochi millimetri, di infinitesimi segmenti di
spazio, capaci di catturare comunque infinitesime frazioni di tempo. Ogni volta
che Hopper o Morandi si rimettono ai pennelli, ogni volta sottraggono
piccolissime particelle di vita alla morte. Essi diventano, così, i custodi
stessi di quel silenzioso configurarsi del mistero, di quell’apparizione che ha
chiesto di materializzarsi. Non siamo più noi che interroghiamo il quadro, ma è
questo che ci interroga, che reclama una scossa da tutto quel silenzio. Di
quante cose ci parla quella contingenza visiva, quante impercettibili
modificazioni ha subito nel suo percorso dal passato al presente, quanta
nostalgia del già vissuto trasporta e quanto futuro si appresta a creare nella
sua compiuta tensione iconica? Il quadro è una tensione, sta in tensione, e
quanto più ripete ossessivamente il tema, tanto più ne compie un
oltrepassamento, una sorta di smaterializzazione, di elaborazione che va al di
là della contingenza, della puntualità della singola opera realizzata.
A furia di riflettere su Morandi e Hopper, sono andato convincendomi che
un ‘racconto’ che prendesse le mosse dal secondo degli artisti citati, mi
avrebbe condotto a qualcosa che somigliava all’“elaborazione del lutto” di cui
parla Freud. Dov’è che l’uomo è più sensibile, più scopertamente umano, se non
negli affetti e nelle passioni amorose? Se mi volgo attorno non vedo altro che
foreste di sentimenti e cimiteri di passioni, non vedo altro che questa
accelerazione e potenziamento della vita, che poi fatalmente si trasforma in un
carro-merci irriconoscibile, in una sequenza di ricordi ingialliti, di sogni
irrealizzati, di progetti che hanno perduto fascino e hanno dimenticato
l’antica gioia di vivere.
La sequenza dei quadri di Hopper, dopo che avevo intuito come qualunque buon
cristiano la potente visionarietà di Morandi, mi ha offerto un varco e mi ha
generosamente riempito di conferme. Quei suoi personaggi stavano là reduci da
qualcosa, sconfitti non da qualcuno in particolare o da qualche particolare
frustrazione, bensì sopraffatti dallo stupore esistenziale dell’angoscia
certificata e rinchiusa in una stanza disadorna. Erano immagini graffianti,
amare, scampate ad una tempesta, sopravvissute all’oblìo. Restituivano
soprattutto l’America degli anni Trenta, le preoccupazioni e lo smarrimento
della Grande Crisi, ma elevavano quell’epoca e quella situazione ad una
condizione universale di disagio. Bastava fissare le tele di Hopper ed ecco
esse parlavano come una nuova stupefacente Spoon
River. C’erano Susan, Dorothy, Geoff, c’erano John, Larry, il caffè di
Malony, e c’erano le lingue di terra di Cape Cod, i pub in cui sfogare
l’infelicità, le grandi vetrate che rimandavano ai “Nighthawks”, le scale che
si ha paura di scendere quasi che fossero una nuova andata all’inferno.
C’era tutto un brulicare di vite, ridotte a fantasmi di se stesse, ma
consapevoli che dall’amore si passa all’indifferenza, al disinganno, alla
irriconoscibilità del proprio volto nello specchio, all’accettazione subdola
della propria rovina. Un bilancio crudele, pronunciato nell’acre sentore di
note di un jazz sincopato, stordito, disordinato, almeno quanto sincopata,
stordita, disordinata è la coscienza degli anni affastellati uno sull’altro,
gravemente sospettati di aver svolto l’ottanta per cento di quel che resta.
1. Pub al passaggio della notte
I.
Quella sera il giorno s’era spento
con un fascio di luce azzurrognola
sul versante quasi sempre in ombra
di una strada piegata in curva,
verso direzioni di viali a forma di abat-jour.
Susan aveva sfogato i morsi di una vita
sull’asfalto rinfrescato da un’aria appena più mossa.
Forse veniva da una festa, con lo sguardo fisso
alla cornice del bancone scivoloso di whisky,
la stola di volpe riversa su due alte panche,
la bocca guastata dal rossetto
sparso ai margini di un bicchiere largo.
Toh, Geoff Lindsay s’era sposato di brutto,
improvvisamente cieco di passione
per quella mocciosa di Sonia… non una lacrima
aveva speso per me, non un dubbio sul mio dolore
che s’era infilato come un coltello
all’interno del mio equilibrio instabile.
Ah, la stagione di tre anni prima,
era primavera, sapete, era un mattino
di dannata felicità che sentivo tutta mia,
dipinta come un foulard, come un filodendro,
che m’era cresciuto al centro dell’anima.
Una nave, sì, era una nave
lungo la banchina dove eravamo arrivati
e ci baciavamo felici all’ombra gigantesca
di quella stupida balena con gli occhi bucati
da gomene possenti. Che bel bacio, Geoff,
gagliardo come uno schiocco di frusta nella schiena!
Qui c’è un tipo ora distante un palmo
dalla mia pelle inondata da gialle venature.
Non so che voglia, ma chi è?
E perché non sento niente, se non gli occhi
di quel merluzzo del barman appeso
a un moccolo di desiderio arrugginito?
Non ne posso più! E io che da bambina
facevo allibire la maestra Dorothy Auster
e le amichette Liz e Rose per certi compitini
fatti a regola d’arte e consegnati a tempo!
C’era quel micino di Jessie che faceva le fusa
e quel cagnetto di Burt sempre azzimato.
Mamma aveva le unghie laccate e mi sgridava
se facevo dispetti, se disfacevo letti
o sbattevo la porta del bagno
facendo tremare i vetri della stanza di fronte.
L’altro giorno cercavo di fare il numero di Geoff,
ma il telefono non mi veniva, il dito s’inceppava.
È finita, s’è sposato. Eccomi qui, non è male,
questo pub è carino, ha molta luce.
Finirla, arrivare qua e bere, uno scotch
che fa, in fondo? Ti fa dormire.
Ma sogno? Quello di fronte forse è Johnny,
tutto immerso nel suo dolore alcolico,
vent’anni fa mi diede un anellino col biglietto,
era scritto “Mai ti scorderò, Susan, mai ti lascerò…”.
Mi ha scordata ed ora è solo al suo sgabello,
ora forse rimpiange il suo passato.
Ho perso, ho vinto? La domanda è ferma
al braciere di quest’altra sigaretta,
si piega e si deforma tra le labbra.
Giocavo sempre a campana, fischiavo
come Mary Poppins, ero felice senza volerlo.
Qualcosa deve pur succedere in un pub
come questo…
II.
Eh, la conoscevo Susan, col suo fluente
coperchio di capelli ramati appoggiati sulle spalle
la sua bocca schiusa sui denti rattristati dall’attesa.
Sembrava sola, ma aveva molti amici
che le chiedevano al telefono quando
potessero trovarla a casa.
Ero proprio al pub quella sera, Susan,
che avevo perso quasi tutto
all’ennesima puntata di poker
e poi m’ero detto basta, non gioco più,
cambio vento. Era bella, la luce
sparata dai faretti in alto sulla faccia
la ringiovanivano specie nei semi-sorrisi.
Ricordava Maria, un fazzoletto di grano
che svettava ad un metro da terra,
come un letto vegetale, ero bambino,
e gli occhi già intinti in una panna
spumosa di tenere emozioni.
Rapide, rapide, come le ruote d’un treno
che porta vagoni di volti
e ognuno ha un senso, è un segnale
di qualcosa che avrebbe potuto accadere.
Là, sugli sgabelli, là, negli scompartimenti,
là, seduti ad ascoltare il rintocco degli annunci,
pronti a ripartire, per dove?
Eppure, siamo rimasti, io e Susan,
di fronte agli sgabelli vuoti del pub
col bicchiere che ci fa da specchio
- Bere o non bere? - ci ripetiamo incerti
su come finire davvero la serata.
So che vogliamo restare ancora un poco,
e il barman ci guarda ma non ha fretta,
dove andiamo, Susan, se continuiamo a fuggire?
Ci rinserriamo dentro il pub,
ci affidiamo all’abbraccio
caldo di queste lampadine
che sono il nostro vero paradiso
contro il buio esterno che si disperde
nelle cento strade per giungere fin qui.
Fèrmati, Susan, spècchiati nel bicchiere
e gioca col tempo che non puoi stringere.
“Giocavo nel quartiere di Greenhorn
con Maggie e Linda, tutt’e due
poi passate all’High School di Lorrain.
Passavamo intere ore, che favola!”.
2. Alba in Pennsylvania
Trapezio sospeso di città ancora dormiente
finestre e
balconi chiusi nel sonno
diventato
sobbalzo incerto di ombre
che si
contendono il chiarore all’orizzonte.
“Devo partire!”,
dicevi, e nascevi
quasi da un
treno che era giunto di notte
e la valigia era
posata silenziosa
ad aspettare la
tua mano. Intorno
occhi che
cercavano orari
sotto la tettoia
di granito a luci fredde.
Ero andato
indietro col tempo
e tu con me,
scaraventata da quella distanza
col vestito blu
e le labbra ancora rosse
rinfrescate da
un timido sorriso.
Assenti, là, su
quella piattaforma
uniforme di
partenze e di arrivi,
ti allontanavi.
E già sapevo, sentivo
che si sarebbero
diradate le strade
e poi annullate
in un giallo
territorio di
dune ondulate.
“Non puoi
partire!”, né può la volontà
e la memoria,
specialmente, se appena
si scopre un
sentiero che sale
sale nella
spirale degli anni e si avvolge
alle mille volte
che fermammo il tempo.
Ecco, è un
mulinello, un imbuto di sabbia,
un molle vortice
di immagini sparite.
3. Strada a quattro corsie
Siamo tutti
nomadi. E siamo ormai qua,
alla stazione di
servizio dove c’è un lampione
e una piccola
cabina con la luce bianca.
Sì, c’è tutta
una serie di stagioni
raccolte come un
grappolo d’uva sultanina
attorno
all’anima salita sugli alberi.
Lungo la strada,
quattro corsie,
sembra la vita
essersi quietata,
come certe
mattine col sole alle dieci
nella Piazza De
Chirico dove arrivavano
gli echi di un
mercato svolto il giorno prima.
Languide
solitudini, in cui la prima domanda
poteva essere
quella di Adamo o quella
opposta di
Napoleone sull’erba di Waterloo
e chiarire cosa
potessero mai significare
gli occhi caduti
sui bordi del marciapiede.
L’uomo che
controlla la colonna di benzina
sembra a guardia
d’un faro e non sa
quanta energia
dovrà ancora sprigionare
quell’arma tutta
rombi di motore.
Il sole è fermo
al suo estremo pomeriggio
ed è evidente
che tra Cyril e Berta
c’è un’assoluta
distanza di sguardo.
Già l’anima si
dondola in quella pace abbagliata
e si deterge la
fronte rugosa per lo sforzo
di diventare
eterna. Fissare quell’attimo,
quell’attesa,
quell’attenzione cieca,
e il silenzio
disumano di quella strada
che porta a
Finibusterrae.
Oh, perché non
ho colto la notte precedente,
ero così certo
di vivere, di muovermi,
lungo le ultime
lingue del tramonto,
e credevo così
bene di compiere l’agguato,
di non avere più
bisogno di contare il tempo.
Le auto erano
passate tutte
perdendosi oltre
i cuscini scuri del bosco.
Mi ero cullato
per anni
avevo aspettato
per anni che qualcuno
si fermasse per
me. Era stato John Snyder
a darmi l’idea
di una città diversa
mani nervose che
si azzuffano tra fogli e negozi
un inferno di
rapidi passi
e poi consolarmi
al solito break del mezzogiorno.
4. Barca a riva spinta dalla risacca
Spingendomi a nord del villino che abito
dopo aver corso per il lungomare
che mi porta come un treno pieno
di finestrini che s’illuminano di flash
di una galleria con il cielo bucato
sono arrivato ad un pezzo di riva
memorabile per gli alti volumi della risacca.
Sono le dieci del mattino e il bianco delle onde
si distingue inquieto oltre la lastra vetrosa
di larga superficie di un mare uniforme.
Dora è rimasta inchiodata alla terrazza
stregata dagli odori del profondo oceano
su una poltrona di vimini comprata l’anno scorso.
È là che il suo viso si fa più sfinge
e si gonfia di capelli leonini
e s’interroga curiosa su quale deserto
sia più disposto a carezzare gli occhi,
su quale torbido ghibli sia più propenso
a seppellire tutti i sensi in un unico tumulo.
Quante volte m’ero chiesto se nostro figlio Larry
fosse stato bravo a provare un po’ di vita
e quante volte avesse rinunciato, contento
solo di aver fatto una partita a racchette.
Fosse stato per lui, la barca mai
si sarebbe mossa da quel gorgo di risacca.
Un gruppo di uomini se n’erano impadroniti
e guardavano l’acqua dalla tolda
di quello strano animale di legno.
Nelson, ricordo, un giorno aveva preso
un caffè alla punta del molo, da Malony.
Stupendo quel giorno, il sole s’era buttato
tutto sulla spiaggia di fronte
e ritornava accecato dalle muraglie
di roccia candida ammassata
sulla punta più orientale del breve altopiano.
Nelson, seduto ad un tavolo, seguiva le orme
lasciate da una corsa di gambe più giovani,
anni prima, lì, ai lidi confinanti
con le strade rintronate dai clacson.
Era andata via, Constance, via,
improvvisa come la pioggia
che era caduta quasi subito ferendomi
negli occhi sorpresi a guardare un addio.
Lì, davanti alle rocce bianche, sotto le falesie
c’erano quattro uomini e una boa
senza quasi più peso all’onda di risacca,
senza più che ci fosse un senso, una direzione,
ricordavano l’attesa dal dentista
o i viaggiatori imbarazzati
di quei treni con i ripiani a reticella
mentre le stazioni passano e scendono gli arrivati.
Ora ho capito che forse aspettavano
il corpo gigantesco di Moby Dick.
E John guardava, e Philip, e Antonio Léjares
sbarcato giorni prima avventurosamente.
In una vecchia cioccolateria scaldandomi
una sera d’inverno avevo incontrato
tutta la dolcezza del passato
tutta la soddisfazione di sentire le storie
che una ad una gocciolavano
dal soffitto ammuffito della coscienza.
Quella sera a Cape Cod l’erba ingialliva
stanca di aver preso tutto quel sole declinante.
Ci eravamo dette parole inutili
e tacevamo su cose molto più importanti
così, per farci male e poi sorridere
verso un fiore nato quel giorno
a ridosso del bosco tenebroso.
Si era fatta sempre più sera a Cape Cod.
La porta era semiaperta. Senza fretta
la luce ci ingannava, esitava
sul limite di una caduta prevedibile.
Dove ho visto questo spazio
di finestra aperta sull’ampio
specchio d’acqua in cui s’inabissarono
i precedenti sintomi di vita?
Dove ho provato più inquietudine
se non per quell’imposta schiusa
sui volumi azzurri di una tale profondità,
parvente ingiuria ad ogni mia grettezza?
Così interno ed esterno sono specchio
di un unico mistero che ci avvolge
e la luce del meriggio dice solo
che tutto resta inesplicabile.
Fermare quell’infinito
quell’oscillare senza sosta di linee
per capire una sostanza, un porto,
una permanente verità che sfugge.
5. Lati illuminati
Ieri andando all’appuntamento
con Francis
Battlewinner
ero corsa sui
tacchi alti delle scarpe
comprate a
Riverside Londsdale.
Sorridevi
pregustando un contatto
poco
superficiale, in modo che le tue viscere
stanche della
solita minestra
si offrissero
libere a nuovi brividi.
Capelli così
rossi non se ne videro
mai attraversare
la perfida Lane
mitragliata da
varie migliaia di fari d’automobile.
Passi rapidi che
mettevano in risalto il tuo stile
modellato sui
clienti di Tiffany
o dalle
frequentatrici di avenues lontane
dalle finestre
affacciate su miseri pub.
Capivi che era
felice, come Sandra
che aveva
ricevuto un rubino
soffiato ad un
vecchio spasimante.
Cara Lisa, che
avevi quasi ceduto
alla paura di
incontrare John Slide,
e avevi rivisto
d’un tratto l’immagine
di te bambina
che esci la prima volta
di sera e sfidi
le strade traverse
e i banconi
illuminati dei bar
con la solita
folla poco raccomandabile.
Avevi un blues
nascosto nel petto
e in tasca un
sax che ti struggeva
fino a scoprirti
la pelle e a volere il caldo
di una mano
inquieta. Ecco, un mattino,
in auto
controvento andavamo correndo
al faro di
Stutford, cercando in quel luogo
un po’ di
conforto. Avevi la T-shirt
con su scritto
“Are you from Oxford?”. Non ricordo,
non riesco a
vederla, ma corre con te,
batte come una
bandiera sul tuo corpo leggero
sulle tue mani
affondate nello sterzo.
Fino a ieri,
fino a due ore fa, fino a quando
da una notte
spossante impastata di alcol
sono arrivata ad
aprire l’est della stanza
e a tuffarmi in
quella lastra abbacinante di oblìo.
Sono rinata, e
mi sono affacciata
sul lato più
illuminato di me
mentre dietro mi
lasciavo l’ombra
che mi segue,
padrona dei miei incubi.
6. Scala, dove non sai se scendere
Ascolta, si fa sera, e il giorno si dissolve
ed entra freddo
dalla piccola finestra
che si affaccia
sulle scale interne.
Dimmi, sei
pronta a lasciare il sole
ancora vinto dal
giro della Terra?
Silenti dormono
ombre appena nate
e si scaldano
negli angoli più scuri.
Pace non hai
neanche tu, Passato, né tu,
linea di foglia
alla lama estrema del tramonto.
Sai cos’è la
sera, e dove ti porta
questo affabile
corteo d’ore ruotanti,
quasi al
limitare d’una via diversa
forse dentro il
sentore d’un umido soffrire.
Sei proprio tu,
scala, che m’inviti
ad un piano più
basso di ragioni.
Vorrei scendere
i tuoi gradi dolorosi
sentirmi in te
fardello di passioni
farmi con te
pesante leggerezza
e sostenere i
passi giovanili.
Non so far altro
ora che arenarmi
alla metà di ciò
che sono stato
alla veloce
sfida d’un porto senz’approdo.
Passarvi,
attraversarla, giungere
alla terra
iniziale come reduce
da un sogno mai
finito, mai sopito,
cogliere il
segno, infrangere l’arcano
per gli anni che
verranno senza posa.
Ascolta, si fa
sera, ed io con lei
murato dentro la
tenebra del dubbio
sfibrato da
tanto giorno che s’inoltra
e fa cadere
secche bucce di rifiuti.
Ascolta, si fa
sera. E la porta resta aperta
ai piedi della
scala titubante.
Filtra la luce
d’un tardo meriggio
e mi parla con
accento servizievole:
“Non scendi,
dunque, la scala che t’aspetta,
non provi a
toglierti dall’uggia,
cosa vuoi più se
la porta è aperta?”.
Fuoco non è, ma
cenere m’è data
di tutto quanto
fu ascoltato e fatto.