di
Sarah Panatta
Corridoio ibrido, pellicola di
carne umida su gomma rugosa. Ferita spazio-temporale. Incapsulato ristagno di
desideri contraddetti e di responsabilità non contrattabili. Geometria spiccia
di turni, veglia ansiosa e sonno breve, sotto stelle mute. Stretta tra un
budello di cemento e uno scarico di tossine e rabbia repressa. Ressa di
inquiete parvenze, di stati mentali alter(n)ati. È la cabina di Branko e Maki,
compagni di viaggio, ostaggi dello stesso lavoro, stessa solitudine
condivisibile. La loro storia, la loro attualità stringente, è un cappio/strappo.
Ulisse e Ulisse sulla nave che cambia spesso bandiera e scambia diversi
bottini, su una rotta imprevedibile, lontana da famiglie che crescono in
contumacia, bloccati sulle ruote di padroni sconosciuti. Ulisse e Ulisse
diventano Nessuno, cartelli su piazzole battute dal vento. Vivi per scommessa,
eroi della precarietà, che abbandonano il proprio diritto alla dignità come
traccia di pane su un viale di carestia infinita.
TIR,
tasso italiano di rendimento da-documentario? Treno italico per rimozioni
controllate? Tele inversione del ricordo? Mentre la “nuvola” iper mediale, cantiere
perenne, si nutre di acronimi, sigle, protocolli di demarcazione, ed evacua
stereotipi e incaute tecno-assuefazioni. Tir (1)
transita sulle arterie del sacro GRA mitteleuropeo e tenta l’abolizione del
filtro autoriale, andando oltre Rosi e srotolando in fasci di nervi, muscoli e
gas le mappe di processi vitali ultra quotidiani. Di esistenze asfaltate dal
traballante ritmo industrializzato, mummificate negli abitacoli rimpiazzabili
di occupazioni in (bianco e) nero. Certo l’opera di Alberto Fasulo, Marco
Aurelio D’oro al Festival Internazionale del Film di Roma, offre il fianco alla
promozione del nuovo documentario all’italiana battezzato da Venezia 2013, che
brama il catalogo antropologico, e cerca nei territori di emarginazione i
non-luoghi dell’umanità coeva. Si presenta con tempismo sospetto imbalsamato
con eleganza da un rigore etico ineffabile. Tuttavia Tir entra letteralmente, tenace e internamente coerente, nel rumore
(di) fondo dell’alta percorrenza umano-stradale, provando(li) in presa diretta,
senza lo scalino teoretico (pur immanente) dell’evidente mise en abîme ri-sceneggiata dei suoi attori-autisti. Essi aspettano,
e guidano e parlano, e aspettano. Senza guardare in camera, nonostante, anzi,
poiché la mdp è parte immota della tappezzeria del camion in cui i personaggi
si muovono, stazionando in un presente respingente e paludoso.
Esistere in assenza di sé. Fantasmi
dotati di respiro. Per evocarne il peso specifico di Tir (s)corre in una narrazione dettata da elementi fissi. La mdp, i
protagonisti invariabilmente al volante, al telefono, ai fornelli sul retro del
camion. Codificando e mostrando di fatto la paralisi di identità sociali e
affettive sospese, solo in parte realizzate. Sulle tratte dilatate e
interminabili di vite cicatrizzate. Tir,
costato cinque anni di ricerche e di lavorazione, opera prima di un
documentarista premio Solinas, esce dalle logiche del mercato da cui (volente o
nolente) si origina. Non emula la fatica di Rosi, che da entomologo scenico
studia-fotografa-riproduce habitat e suoi esseri, parassitari o meno. Fasulo
distende in un docu-film nitido, onesto, la misura materica dei suoi soggetti,
prede di contratti schiavistici, di riposo disturbato in area di sosta anguste,
di docce clandestine, di pasti tiepidi cucinati e consumati dietro maiali,
mele, volontà rapprese, amori inappagati, figli sfuggiti, follie inesplose.
Branko e Maki non “si” rifanno, sono-agiscono, niente di più. Fasulo segue
l’impostazione epidermica e paziente di Giorgio Diritti scegliendo il romanzo
introspettivo sussurrato, splendidamente interpretato, inserendosi da leone in
una nouvelle vague della docufiction mondiale nella quale realtà e sua
copia/ricreazione/ri-trazione convergono in un unico specchio dotato di
multipli invisibili accessi/facce. Tir
risponde gentile, inesorabile e aperto ad una fame di verità e di
(auto)comprensione che nasce insieme alla civiltà stessa, che pervade e
sposta/usa/scardina l’occhio cinematografico dagli albori e che con il nostro
neorealismo era diventata esigenza morale e militante. Oggi, lanciato nel
vortice di un ancora incerto neo-neorealismo, il cinema italiano sempre più
spesso rasenta o intreccia il documentario per evitare falsificazioni colpevoli,
o il dolore biblico di una fiction “pura” che sarebbe sfida catartica e
depurazione necessaria dalle macchiette e dai vizi di un linguaggio che sa
mascherare ma non vedere (v. l’abbuffata clownesca del fuori concorso L’ultima ruota del carro di Giovanni
Veronesi). Ma che sopra tutto non ha ancora il coraggio/astuzia/potere di
reinventare/si.
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Una scena di "Tir" (2013) il film che ha vinto il Festival di Roma
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Gioco di inganni mediali, relazione
di voci, groviglio di connessioni fallaci. Il Festival, cittadella disorganizzata
di un cinema talvolta indigesto e retrospettivo e autoreferenziale, talvolta
negazione totale (come con l’anteprima del videogame hollywoodiano, pasticcio
post-moderno certo divertito, Hunger
Games. La ragazza si fuoco) ha spolverato un unico capolavoro degno di
ammirata menzione. Uno dei film decisivi del decennio, dopo il seminale e
travisato The Master. Con Her (3) , opera devastante e
gioiosa di Spike Jonze, si torna al parossismo delle comunicazioni nella
civiltà di un domani che è già oggi, truccato da un modernariato Camp stiloso e
ironico. Se Tir si mette in moto e/o
disattiva secondo il passo del motore di un camion e degli umori dei suoi
passeggeri narcotizzati, Her palpita
secondo le schizofrenie accettabili di una virtualità densa e stratificata,
incastrata nel reale ormai illeggibile. Pronti al prossimo livello? L’altro
come doppio, nemesi, sfida, insulto, sprone, scacco, amante, complice, sodale,
deviazione del Sé. Antropocentrismo alienato, il filone tematico del festival incluso
nelle viscere digitali del film “selvaggio” che vede protagonista assoluto
Joaquin Phoenix. Se la voce della tua coscienza fosse un’identità virtuale
imprigionata da algoritmi e aspirazioni inconcepibilmente (oltre)umane? Se
l’amore più impetuoso e lacerante della tua vita fosse un OS1? Che cosa
significa libertà, restare insieme o fuggire? Come (non) toccarsi per la prima
volta. Un momento di verginità progressivamente lacerata.
Mutare continuamente e legarsi. La
sincerità disarmante dell’amore. Merce rara, svenduta, che intride i rimpianti
o rompe i compromessi. Nella vita quotidiana conoscersi con reciproca costanza
e curiosità è un rischio a volte inaccettabile. L’arte di una narrazione
psicologicamente impeccabile, seduttiva, ilare ed eccitante fino alle lacrime,
le stesse di una commozione traumatica, depressa ma non deprimente, dolcissima.
Her, interamente scritto dall’anarchia
post-classica di Jonze, si scioglie con intelligenza straniera, humour “corposo”
e partecipazione sottile. La sua “voce” è un velo umido e caldo che avvolge e
poi si confonde con la pelle del pubblico, divorando deliberatamente la barriera/protezione
finzionale. Idea icastica ma non dogmatica, anzi critica, virale, ovviamente meta-filmica,
coltivata per anni, innesta una vicenda d’amore penetrante e “nuova” tra uno
scrittore e un’intelligenza artificiale, in una società in cui la comunicazione
intra-umana è veicolata da software a riconoscimento vocale di ogni “genere”.
La domanda di base è banale, secca: come riconoscerci e sentirci a vicenda? E
quando tutto ciò deve avvenire nella Rete ipermediale/mediata del mondo? Come
sostenere la ramificazione indefessa dei sentimenti quando improvvisamente si
mutano in energia reale, sensibile, “propria”?
OS1 è il primo sistema di intelligenza
artificiale che “ti capisce, ti ascolta”, risponde a chi sei, vorresti essere,
potresti diventare. Theodore (Phoenix antologico) sta divorziando. Lavora per
Belleletterescritteamano.it, un’azienda internazionale, e scrive lettere su
commissione dettandole al computer dell’ufficio. Gioca con un alieno
imprecatore e scrive affondando in ogni piega della percettibilità umana. Ma si
sente piantato in un’isola scura di ovatta e di lamiera, nonostante il suo
dono, e i molti amici e “contatti”. Finché, come tanti, non compra un OS1. E la
voce nel programma (buona l’alchimia con Scarlett Johansonn) diventa qualcosa
in più di un insieme lineare e dotto di input e feedback confortante. La voce
si battezza con un nome, Samantha, e con un Ego brillante, intuitivo,
acuminato, infantile eppure maturo. Prende forma, evolvendo insieme a Theodore.
Dall’amicizia all’amore (quasi) fisico. Samantha, disarmata e disarmante perché
in questo diversa dagli umani suoi contemporanei, si pone domande, costruendo
un Io performativo. Entrambi fragili e diversi. Come potranno unirsi, una voce
onnisciente e ubiqua e un essere vivente fatto di geni e istinti?
Jonze si interroga con maestria
sconcertante sugli abissi dei “rapporti” nell’era post-umana dei videogame
interattivi e delle “app” sostitutive, dimostrando le mancanze e le
potenzialità meravigliose, destabilizzanti, della nostra piccola vita. Un film
che “è” innamoramento. Nel disordine fertile delle sinapsi reciproche. In una
Los Angeles fatta di spigoli soffici in cui rinchiudersi, la modernità confortevole
pre-inscatola tutto. Lo stesso film implica tecnicamente la separazione
inestricabile tra i protagonisti mentre agisce una riflessione simultanea tra
Pirandello, Ballard e Freud. Un saggio esilarante e tragico sulla
complessità/codardia/avidità del confronto individuale con la vita; sulla
comunicazione (non) verbale, intercettata da distrazioni virtuali e non;
sull’invasione/invasività dell’interazione tecnologica (intesa come additivo,
protesi e supplenza extra corporea); sulla verità polivalente dell’artificio
meccanico come dell’inganno neuronale, della tecnologia informatica come della
fiction cinematografica.
Un film che è assenza e insieme
presenza. Ma soprattutto un film di “volontà” e di sogno. Sacra Grande Bellezza
della Fiction.
(1) Tir. Regia di Alberto Fasulo. Con Branko
Završan, Lučka Počkaj, Marijan Šestak. Sceneggiatura Enrico Vecchi,
Carlo Arcero, Branko Završan, Alberto Fasulo. Suono di presa diretta Luca
Bertolin, Igor Franscescutti. Fotografia Alberto Fasulo. Montaggio Johannes
Hiroshi Nakajima. Sound design Daniela Bassani, Gordan Fučka, Stefano
Grosso, Dubravka Premar, Riccardo Spagnol. Prodotto da Nadia Trevisan, Alberto
Fasulo. Coprodotto Irena Markovic. Ita/Hr 2013. 90’
(2) Sacro Gra. Documentario. Regia di Gianfranco Rosi.
Soggetto Niccolò Bassetti. Sceneggiatura, fotografia di Gianfranco Rosi.
Montaggio Jacopo Quadri. Produttori Marco Visalberghi, Lizi Gelber, Dario
Zonta. Ita 2013, 93’.
(3) Her. Scritto e diretto da Spike Jonze.
Con Joaquin Phoenix, Scarlett Johansonn, Amy Adams, Rooney Mara. Usa 2013.