INTERVISTE
VANNI SANTONI
E GREGORIO MAGINI
Vi spieghiamo
il Grande Romanzo
che nasce
dalla Scrittura
Industriale
Collettiva


  
A colloquio con i due ideatori di uno straordinario esperimento di composizione narrativa a più mani che ha portato alla pubblicazione lo scorso aprile, presso minimum fax, del libro “In territorio nemico”. Oltre cento scrittori hanno concorso al racconto del libro sotto il coordinamento dei due direttori artistici che hanno avuto la funzione insieme di stimolatori, registi e quasi deejays dei materiali che via via arrivavano. L’esperimento sviluppato via web attraverso un ‘metodo SIC’ che si è avvalso della produzione di 900 e più schede che sono il retroterra di una storia avventurosa sulla lotta partigiana concepita come letteratura popolare di qualità.
  



  

di Marco Codebò

 

 

Vorrei chiedervi di inquadrare storicamente l’esperienza di scrittura collettiva che avete portato a termine col Grande Romanzo Aperto.[1] Di per sé la scrittura a più mani di testi creativi non è una novità: Alexandre Dumas scriveva i suoi romanzi coordinando l’attività di scrittori fantasma alle sue dipendenze mentre gli studi di Hollywood sono organizzati come laboratori di scrittura per la produzione industriale di sceneggiature. Il Grande Romanzo Aperto, in che cosa è diverso dalle esperienza storiche di scrittura collettiva?

 

La nostra pratica della scrittura collettiva è diversa nell’origine, nel DNA. Noi due, di scrittura collettiva non ne sapevamo niente quando abbiamo cominciato con la SIC.[2] Sapevamo dei Wu Ming, dei quali siamo anche diventati amici per affinità pratico-letterarie però non avevamo letto i loro libri. Tutte le esperienze precedenti come quelle che hai citato, i futuristi, il Cadavre exquis dei surrealisti, sono tutte cose che abbiamo scoperto dopo, quando abbiamo fatto ricerche sugli antecedenti della scrittura collettiva. In realtà l’origine della SIC è il Web, la programmazione dei siti internet (Gregorio Magini è un creatore di siti web), l’esperienza Wiki, il concetto di open source, in cui utenti successivi di un programma possono sviluppare il lavoro fatto da altri. Per parte mia io [Vanni Santoni] partecipo a giochi di ruolo da quando avevo 27 anni e faccio il Dungeon Master da quando ne avevo 20. Si tende a sottovalutare questo aspetto, ma il gioco di ruolo è una narrazione collettiva; in Dungeon Master uno disegna la mappa, crea un mondo, poi la storia che lui svilupperà nasce dalle azioni dei giocatori; questo assomiglia moltissimo a quello che fanno i direttori artistici in un racconto SIC, perché hanno un potere enorme, possono per esempio tagliare qualsiasi cosa o al contrario darle rilievo, ma sono anche completamente vincolati a ciò che fanno gli scrittori. La SIC nasce dall’incrocio di tutte queste passioni e da una temperie che c’era quattro anni fa con la popolarità di Wikipedia e il successo dei Wu Ming, dei Kai Zen e di altri collettivi, l’esperimento di One Million Penguins, insomma sembrava che quella della scrittura collettiva fosse una direzione verso la quale andavano un mucchio di energie. Nello specifico, la nascita del metodo SIC è dovuta alla presa di coscienza di un limite. Avevamo intervistato i Wu Ming e i Kai Zen e le interviste ci avevano confermato l’intuizione che il loro lavoro collettivo non era fondato su un metodo ma sul fatto che i membri dei collettivi di scrittura erano legati dall’amicizia, avevano in comune un’idea piuttosto chiara di quello che volevano scrivere e di conseguenza lavoravano bene insieme e avevano un buon rapporto assembleare. Insomma, il loro vissuto personale comune era una parte decisiva del loro metodo, il che significa che il loro metodo non era esportabile al di fuori dei collettivi stessi. Tutto ciò poneva un problema metodologico perché allora qualunque gruppo di amici se trova il giusto regime potrebbe scrivere collettivamente, ma a noi interessava elaborare un metodo che permettesse a chiunque di praticare la scrittura collettiva senza contare su un preesistente rapporto di amicizia. Dall’altro lato c’erano i limiti di altre esperienze, tutte figlie del sopra citato Cadavre exquis, ovvero che prendo un foglio, ci scrivo una frase, lo piego e lo passo ad un altro, che è un gioco che tutti hanno fatto alle Medie; è una pratica divertente che non può andare oltre al divertimento.

 

Mi sembra che esista un evidente legame fra la SIC e la tecnologia digitale, in particolare il Web. Tuttavia questo rapporto sembra funzionare solo nella fase di produzione del testo, mentre il prodotto finale è un romanzo tradizionale il cui supporto materiale è il libro cartaceo; ma prima o poi non ci dovrà essere una ricaduta anche sulla forma del prodotto, come per esempio accade con gli ipertesti?

 

Tutti i testi che abbiamo prodotto non potrebbero esistere senza Internet e senza un qualunque programma di word processing, come Word, Pages o Openoffice. Il processo di composizione che è portato a termine da un direttore artistico non sarebbe possibile senza la scrittura tramite word processor e il “taglia e incolla”.[3] Sulla fruizione, noi siamo apertissimi alle nuove tecnologie, non abbiamo il feticcio della carta, tutto ciò che favorisce la lettura è meritorio, quindi ben vengano gli e-book. Mi sembra che ora il problema sia inverso, che ci sia una grande lentezza da parte dell’industria editoriale, nonché una lotta fra i giganti dell’editoria per imporre ognuno il proprio standard, senza che però nessuno sappia in che direzione andare. Il risultato è che ancora l’e-book non ha quella diffusione che potrebbe avere. Il Grande Romanzo SIC avrebbe un potenziale enorme in formato e-book per la sua dimensione ipertestuale. Uno potrebbe leggere della pensione a Napoli e a quel punto aprire la scheda di quella pensione, così il lettore avrebbe sempre altre possibilità oltre a leggere il romanzo: se volesse esplorare i luoghi, come la pensione, potrebbe farlo. Il Grande Romanzo ha dovuto per forza fare un lavoro estensivo che è stato poi condensato per arrivare al testo finale; di tante cose così non rimane che un’ombra. Facciamo un esempio: nel finale appare un’automobile con dentro quattro militi delle Brigate Nere ed un vecchio medico nazista. Questo medico l’unica cosa che fa è guardare Adele [uno dei tre personaggi principali] con disprezzo. Ma dietro a quest’uomo c’è una scheda. Esiste cioè una carta dove questo medico è una persona con una biografia, certi tratti psicologici e una spiegazione della sua presenza in Italia in un quel momento. In una parola il mondo del romanzo è incredibilmente ampliato dalle schede; c’è una quantità enorme di dettagli che per la maggior parte dei lettori sono inutili, ma per certi invece diventa interessante, come poter conoscere l’infanzia di Renzo quando uno legge I promessi sposi.

 

Sarebbe quindi possibile creare un prodotto con due interfacce: da una parte il libro cartaceo tradizionale e dall’altra un database digitale di tutte le schede che rappresentano la base del romanzo?

 

Potrebbero esserci due o tre livelli di lettura. Si potrebbe accedere per via digitale ad un GRAS aperto dove il lettore si potrebbe muovere attraverso le varie schede di personaggio, luogo, situazione, trattamento. Ma si potrebbe anche consultare un GRAS ipertesto; questo approccio avrebbe un interesse più accademico, perché permetterebbe di muoversi addirittura nelle schede individuali, cioè le 900 e più schede che sono  state prodotto dai singoli scrittori prima di essere assemblate nelle schede definitive. Sarebbe un GRAS per filologi.





Uno dei principi fecondi del metodo SIC è che dalla circolazione dei materiali fra i vari soggetti impegnati nella redazione del romanzo viene fuori come un surplus di energia creativa che alla fine migliora la qualità del prodotto. Da dove viene questo sovrappiù e perché si arriva a una qualità migliore attraverso la circolazione dei materiali?

 

Alcune cose migliorano, soprattutto il carico di idee e di dettaglio. Se vogliamo è un fatto quantitativo. Facciamo un esempio tratto dalla televisione. La serie Mad Men, ambientata nel mondo della pubblicità, sembra scritta col metodo SIC perché invece di darti una singola emozione, magari più profonda, ha la sua forza nella quantità dei personaggi ben caratterizzati di cui racconta la storia, nel numero dei comprimari, nella quantità di idee, nella quantità di roba. Il Grande Romanzo SIC e anche i racconti SIC che abbiamo completato presentano un livello di dettaglio enorme perché c’è la sovrapproduzione di materiale. Si fa una selezione che taglia fuori il materiale meno buono, ma quello che rimane è sempre più di quanto avrebbe scritto un singolo. Il risultato finale, la scheda, di solito è di qualità elevata per un semplice fatto di selezione darwiniana fra le tante schede prodotte. Aggiungiamo che la selezione è sì frutto della soggettività dei direttori artistici, ma anche dell’oggettivo diverso valore delle schede. Alla fine, proprio perché si lavora su grandi numeri si finisce per trovare una medietà di buon livello. Piuttosto, nel metodo SIC, si scopre il valore della composizione, una specie di nuova arte di cui stiamo provando a definire i parametri etici ed estetici. Anche i Direttori Artistici nominati durante il lavoro sul romanzo, nonostante fossero meno allenati di noi, hanno compiuto scelte sensate e condivisibili.

 

Che tipo di creatività funziona nella SIC. Che caratteristiche presenta la creatività dello scrittore e quali quella del direttore artistico, del soggetto che opera attraverso la composizione?

 

Lo scrittore di un testo SIC è stimolato a produrre testi interessanti perché vuole che i suoi materiali vengano selezionati. Si crea un processo virtuoso che compensa il deficit di attenzione e di tempo che si determina quando si lavora in gruppo e ancora non si vede la fine del lavoro. Non ci si può aspettare che uno scrittore lavori su un testo SIC con lo stesso impegno con cui si applicherebbe ad un testo personale: in termini di dedizione emotiva il rapporto dello scrittore con i due testi è diverso. Dall’altra parte, però, questo fattore negativo è compensato dalla voglia di vedere i propri scritti emergere dalla selezione dei direttori artistici. Il bilancio fra le due tendenze dovrebbe essere più o meno in parità.

La composizione invece è una tecnica completamente diversa: funziona selezionando e assemblando insieme le parti migliori delle schede redatte dagli scrittori. È come se gli scrittori fornissero i mattoncini Lego con cui direttori artistici costruiscono gli edifici. Il direttore artistico ha la libertà di comporre, ma sempre dentro i parametri determinati dal materiale prodotto dagli scrittori. Se i mattoncini Lego sono tutti gialli e quadrati, la casa alla fine sarà gialla e quadrata. Quello che ci ha sorpreso fin dal primo racconto è che il processo di composizione è molto naturale: è basato sulla pratica della revisione che uno adotta anche per i propri testi. Ci siamo serviti di tre criteri di giudizio: “sicuramente sì”, “sicuramente no” e “forse”. Poi, quando li metti insieme, i frammenti tendono a legarsi in maniera abbastanza naturale anche se scritti da scrittori diversi. Quest’ultimo fatto è vero quanto più si va avanti, perché in realtà il momento chiave della SIC non è né quando lo scrittore scrive né quando il direttore artistico compone, ma quando lo scrittore legge la scheda definitiva che gli viene rimandata indietro. È un momento nascosto in cui avviene il processo alchemico perché è lì che lo scrittore abbandona la sua scheda individuale e fa propria quella collettiva. Di questi momenti ce ne sono tantissimi, perché ogni volta che viene finito un personaggio, un luogo o una situazione la scheda definitiva torna agli scrittori e viene conservata in un archivio consultabile. Consultare l’archivio accade spesso perché magari nella scheda 98 c’è un riverbero della scheda luogo perché lo scrittore se l’è andata a rivedere. Col procedere del lavoro gli scrittori si allineano come se i loro vettori iniziassero a muoversi nella stessa direzione. Infatti, da due terzi del GRAS in poi, era facilissimo comporre perché ormai c’era una gran quantità di esperienza condivisa: era come vedere cento persone che guardavano tutte nella stessa direzione. Ci arrivavano mettiamo cinque schede situazione scritte in stili ancora un po’ differenti o con qualche idea diversa, ma che avevano anche un’omogeneità pazzesca, si arrivava al punto che su sei schede tre avevano risolto una certa situazione nello stesso modo. Allora ci chiedevamo cosa stesse succedendo, com’era possibile; lo era perché si era creato un insieme di fattori comuni che facevano sì che un certo problema la nostra sensibilità di esseri umani lo risolvesse in quel modo particolare.

Come direttori artistici siamo stati po’ un registi e un po’ un agevolatori. All’inizio la funzione del direttore artistico è più creativa, perché attraverso la sua selezione dei materiali dà la direzione del romanzo. Le fasi iniziali in cui si disegnano i personaggi e i luoghi hanno un’importanza fondamentale perché configurano l’ambientazione. Verso la conclusione del romanzo la funzione è invece maieutica, gli scrittori vanno avanti e a un direttore artistico gli sembra quasi di essere come uno psichiatra della letteratura che dà un paio di indicazioni e poi il prodotto gli esce fuori meglio di come l’aveva pensato. Sicuramente si tratta di una creatività completamente diversa da quella della scrittura. Un’altra cosa affascinante è che durante l’ultimo ritiro ci stavamo emozionando per Ignigo, il vicecomandante di una brigata anarchica, e lo facevamo con l’orgoglio di uno che lo ha inventato, poi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che noi in realtà non ne avevamo scritto una virgola, avevano fatto tutto gli scrittori.  Occorre quindi fare attenzione perché il direttore artistico è importante come gli scrittori, ma fa meno di loro, nel senso che produce meno materiali. Svolge un ruolo cruciale nella struttura del romanzo perché se non c’è il direttore che compone la SIC non accade, però narratologicamente è meno importante perché la sua azione ha meno effetti sul contenuto di quella degli scrittori.

 

Ora che il Grande Romanzo è quasi terminato e mi immagino sia diventato un testo stilisticamente omogeneo, vorrei chiedervi di porvi dal punto di vista dei suoi lettori: chi lo leggerà riuscirà a cogliere in questo romanzo qualcosa di diverso in quanto frutto di un’opera collettiva, oppure non riuscirà a distinguerlo da un romanzo scritto da un singolo scrittore?

 

L’abbiamo letto ormai tante volte che non riusciamo a esprimere un giudizio. Però i sei revisori esterni che abbiamo reclutato proprio perché le nostre letture non bastavano più, eravamo troppo influenzati dal lavoro fatto, hanno tutti espresso un parere positivo, chi più e chi meno, e nessuno di loro ha notato che il lavoro mostrasse di essere il prodotto di una scrittura collettiva. Avevamo l’obiettivo di creare un buon romanzo e il nostro modello di buon romanzo è quello del romanzo “individuale”. Forse se esistesse un’enorme biblioteca di opere collettive allora anche la percezione di ciò che è un buon romanzo collettivo sarebbe diversa. Però abbiamo riscontrato l’esistenza di uno stile SIC fin dai cinque racconti che abbiamo scritto, tutti composti a più mani e ogni volta da scrittori diversi. Nonostante questa disomogeneità, si notano dei tratti in comune sia ai racconti sia al romanzo: una specie di impalpabile densità, una sorta di “prismaticità”, noi la definiremmo così, un riverbero, come se le cose all’interno di un’opera SIC stessero all’interno di diversi stati di coscienza. Questo è dovuto al fatto che il romanzo è il prodotto di una somma di coscienze; è un fatto che si sente ma è molto difficile da definire, forse anche perché i nostri strumenti di analisi sono abituati a confrontarsi con opere considerate sempre scritte da un unico autore. Pensiamo che questa caratteristica del romanzo SIC la potrebbe notare solo uno scrittore molto attento.





Massimo Fedele, Collage, 2009


Il lavoro di voi direttori artistici è chiaramente quello di omogeneizzare gli stili degli scrittori individuali. Non c’è il rischio di creare uno stile piatto, burocratico?

 

Questo rischio è stato sempre molto presente, anche perché quando devi rendere omogenei degli stili diversi, livellare verso il basso è sempre la soluzione più facile. Basta pensare alle scuole di scrittura dove spesso si guarda con favore al minimalismo, non perché sia meglio o peggio di altre cose, ma perché è più facile guidare uno scrittore ancora inesperto verso il minimalismo che verso altre pratiche. Se a uno scrittore alle prime armi gli fai vedere Carver o Calvino e gli dici di fare come loro magari ci riesce, se gli dai come esempio Bolaño buonanotte, quello si perde, non puoi dirgli di usare cento voci diverse nello stesso romanzo. Così, se hai cento stili diversi, il minimo comun denominatore sta in basso. Risolvere questo problema non è per niente facile. La soluzione migliore è bilanciare la scure e l’altare, cioè tagliare quando serve e valorizzare quello che merita davvero dal punto di vista stilistico. Un esempio può essere una scheda del Grande Romanzo, “La morte di Elsa Giavazzi”; fra le varie schede ce n’era arrivata una scritta in un tono quasi fantasy. Quando questa scrittrice, che proprio per il suo stile è stata facilmente identificata, proponeva soluzioni del genere in momenti più neutri, tendenzialmente si livellava verso il basso anche per una questione di democrazia SIC. Se cinque scrittori scrivono con uno stile medio e solo uno si lancia in un volo enfatico, quest’ultimo va tagliato. Però nella situazione specifica della morte di Elsa Giavazzi, quello stile particolare spaccava, sembrava un quadro di Moreau, faceva impressione. L’abbiamo tenuto, un po’ edulcorato se no andava fuori tono, ma ci stava. Oppure, in un altro caso, c’era una tirata geografica folle, redatta da qualcuno che aveva una vera passione per la geografia, anche quella in un certo punto ci stava bene. Insomma i singoli elementi possono arricchire il libro, dargli una sorta di onniscienza, di capacità di saltare fra i toni e anche fra le diverse competenze che ci sono fra gli scrittori e questo è bello. Un po’ di lavoro al ribasso per integrare tutti i contributi differenti è indispensabile. Ma a questo abbassamento alla ricerca di un comun denominatore corrisponde su un altro lato un allargamento. Se per integrare i momenti alti bisogna livellare le montagne della scrittura verso il basso dall’altra parte le estendi perché le cose vengono raccontate in maniera più dettagliata. Sono viste secondo angoli diversi, a partire da esperienze differenti: questo è un punto di forza dei lavori SIC. È difficile che in un’opera SIC siano svelati i segreti del cuore umano, per ovvie ragioni, però ci sono delle descrizioni, dei punti di vista che parlano a più cuori diversi.

 

Sempre all’interno del problema dello stile, come avete affrontato il rapporto fra dialetti e italiano standard?

 

Chi legge il Grande Romanzo nella versione attuale s’imbatte in molto dialetto. Ma questo elemento è venuto fuori in corso d’opera, in pratica per caso, quando in fase di revisione uno di noi ha usato una frase in milanese durante la scrittura di un dialogo fra Adele e un gruppo di operaie. In quel momento il dialetto, che impedisce ad Adele, una borghese, di comprendere le sue compagne di lavoro, ne rafforza il senso di personale alienazione. Lei è una piemontese, figlia di un preside, cresciuta a Catania, abituata a parlare un italiano corretto, si ritrova in mezzo a queste colleghe che oltre che a pigliarla in giro si mettono anche a parlare in maniera incomprensibile. In quel momento inserire il dialetto era la cosa giusta. Da lì abbiamo capito di poterlo usare anche in altre situazioni. Mi è venuta in mente allora quella frase di Gadda che, dopo aver scritto il Pasticciaccio, disse che era un peccato non poter vivere una vita lunghissima perché gli sarebbe piaciuto soggiornare in tutte le città italiane per impararne i dialetti e scrivere un libro con tutti i dialetti italiani. A quel punto ci siamo resi conto di possedere un altro tesoro: fra gli scrittori c’erano persone distribuite un po’ in tutte le regioni d’Italia e gli si è chiesto di tradurre e in un attimo sono piovute le traduzioni. In questo momento nel Grande Romanzo c’è molto milanese, ci sono delle parti in lodigiano, in novarese, in isernino, in irpino, napoletano, romano e altri dialetti che ora non ci vengono in mente.

 

Si tratta di dialetti puri o, almeno parzialmente, italianizzati per renderli leggibili?

 

Noi abbiamo chiesto le traduzioni, anche a più persone nel caso di dialetti più diffusi. Per inserirle nel testo è dipeso dal tipo di dialetto. Non c’è stato problema per il romanesco, il senese e anche il carrarino. Col milanese ed il napoletano se si usava un dialetto stretto non si capiva niente, specialmente là dove anche congiunzioni e preposizioni sono espresse in dialetto e rendono così enigmatica anche la costruzione della frase. Alla fine abbiamo optato per inserire dei dialetti ribassati, contaminati se era il caso con parole in italiano. Questa scelta, che sarà anche discussa con l’editore, non deriva solo da ragioni di utilità ma anche dal caso fortunato che Adele, Matteo e Aldo [i tre personaggi principali] sono tre borghesi, un dato interessante perché la letteratura della resistenza ha invece sempre cercato di far parlare i personaggi delle classi popolari, che parlano italiano. Di conseguenza anche i personaggi dialettofoni quando parlano con loro cercano di flettersi sull’italiano così da rendere plausibile un dialetto un parzialmente italianizzato. Comunque vedremo, abbiamo tenuto anche le versioni in italiano dei dialoghi e se necessario potremo tornare alla lingua standard. Pensiamo che in ogni caso il dialetto sia un elemento realistico e aiuti anche a far capire che razza di babele linguistica fosse l’Italia a quei tempi e come lo sia stata fino all’avvento della televisione.

 

Nei vostri scritti teorici sul metodo SIC, come pure in quelli dei Wu Ming, mi sembra di vedere un interesse a tenere insieme la letteratura di qualità e quella che gli americani chiamano “popular culture”. Mi sembra insomma che vogliate creare un prodotto interessante per grandi masse di lettori e nello stesso tempo ricco di valore letterario. Se questo è vero, perché è importante il primo dei due obiettivi, il successo di pubblico?

 

La nostra idea di letteratura non partiva da questo tipo di ragionamento. Non condividiamo l’opposizione fra buona letteratura e letteratura popolare perché pensiamo che tutta la buona letteratura abbia il potenziale per essere popolare. Forse oggi la gente ha perso la voglia di sbattersi, però sono convinto che una persona nel momento in cui si rialfabetizza, e per farlo basterebbe leggere un paio di romanzi normali, dopo è in grado di leggere ed apprezzare anche quelli più indigesti. Non è necessario essere dei letterati per leggere ad esempio Pynchon, un letterato magari riesce a comprenderne tutti i livelli di senso, un lettore normale no, ma può lo stesso goderne la lettura. Per il nostro libro è diverso perché abbiamo scelto di fare un libro avventuroso e la letteratura avventurosa è popolare per definizione, perché le sue radici non sono nella letteratura alta, ma in un certo tipo di cinema, Tarantino per esempio o Monicelli, e anche nell’epica che è per forza popolare. Se quindi la narrazione è avventurosa e comprende anche un tocco epico, al di là del significato anche politico che può avere, è semplicemente migliore perché è più divertente.





Emilio Leofreddi, Play with Care, installazione, Roma, Sala Santa Rita, 2013


Che tipo di scrittori hanno partecipato al Grande Romanzo? Quanti erano dilettanti assoluti, quanti avevano già qualche esperienza? Ce n’era anche qualcuno già affermato?

 

Certi avevano già pubblicato anche parecchio, il grosso è costituito da persone versate, blogger, che hanno magari già con una pubblicazione all’attivo o che scrivono articoli su giornali o riviste; il totalmente digiuno è assente per via dei canali di reclutamento che abbiamo utilizzato. I canali sono stati la nostra pagina di Facebook, alla quale avevamo aggiunto come amici altri scrittori e il nostro sito che era seguito da gente che già ci aveva scritto. Siamo stati fortunati di aver avuto un’intervista su Fahrenheit che ci ha messo in contatto con un’audience ampia; abbiamo fatto anche dei comunicati stampa e quelli hanno portato i dilettanti. Inizialmente, grazie alla buona visibilità che ci eravamo conquistati, il progetto aveva reclutato ben 236 scrittori. Poi quando si è capito che non si scherzava e che c’era da scrivere davvero, 100 sono scomparsi. La scrematura dei completamente digiuni è quindi stata immediata; quei pochi rimasti non hanno resistito oltre alla fase della redazione delle schede personaggio e luogo. Il lavoro richiesto non era per dilettanti assoluti. La soglia d’accesso era bassa, perché la SIC tende a valorizzare le idee al di sopra dello stile; quindi anche una persona con un stile deficitario ma con immaginazione potrebbe avere sulle schede un effetto maggiore di un’altra con una grandissima prosa ma piatta come invenzione. Alla resa dei conti comunque, si trattava sempre di riempire due pagine con del materiale di tipo letterario e quindi quelli del tutto sprovveduti attratti dal divertimento scoperto su Facebook sono scomparsi all’istante.

 

Credete che sarebbe possibile per scrittori affermati lavorare col metodo SIC?

 

Uno degli obiettivi a lungo termine, quando il uscirà è proprio quello. Già ora dovremmo scrivere un racconto SIC con la redazione di Finzioni, che è tutta composta da scrittori. Per ora la nostra meta è pubblicare il Grande Romanzo; una volta che sarà uscito, il metodo SIC sarà una realtà affermata. Ci divertirebbe molto mettere insieme un “dream team”, cinque o sei scrittori professionisti, e fargli scrivere un racconto SIC: funzionerebbe benissimo.

 

Potreste spiegare il versante legale, normativo del metodo SIC?

 

Il metodo SIC nasce in copyleft. Abbiamo scelto una licenza “creative commons”, del tipo “Share Alike” “Non-Commercial”; vuol dire che il materiale SIC non si può usare in modo commerciale, ma che però è riproducibile a patto di indicare la fonte. Così uno potrebbe utilizzare una scheda SIC e modificarla, sempre dichiarandone l’origine. Questo tipo di licenza è necessario per la natura stessa della SIC. Se avessimo applicato il copyright alla SIC ci saremmo dovuti fermare ancora prima di comporre le schede, perché quest’ultime sarebbero state dei prodotti individuali protetti dalla legge e il direttore artistico non potrebbe prenderle e modificarle. La SIC nasce per forza in copyleft e si fonda su questo principio perché in un lavoro come quello del Grande Romanzo si crea un sistema di fondi, luoghi, situazioni, personaggi, dai quali si può attingere a volontà; è come fare un enorme DJ set, metti insieme tantissimi dischi e poi ci fai un’altra cosa. In termini di royalties, crediamo che la situazione legale italiana non sia pronta per gestire una realtà come la nostra. Al momento della pubblicazione del Grande Romanzo, creeremo un sistema di token, di punti, che ognuno riceverà in base a quello che ha fatto e che verranno convertiti in una tabella su base percentuale al momento della divisione delle eventuali royalties. Per fortuna, siccome tutto è archiviato e registrato, il sistema dovrebbe funzionare in maniera oggettiva.

 

Il Grande Romanzo uscirà con i nomi di tutti gli autori?

 

Pensiamo di mettere SIC come autore e in fondo il cast in ordine di cose fatte, non in ordine alfabetico, esattamente come in un film.

 

Un elemento molto interessante del Grande Romanzo è la raccolta di storie ambientate nel periodo dell’occupazione tedesca che decine di collaboratori vi hanno inviato basandosi su memorie personali e/o familiari. Il romanzo si basa completamente su questo archivio?

 

Sì, assolutamente. Poi è chiaro che sviluppando la narrazione le storie sono cambiate però il soggetto di base del romanzo è interamente basato su aneddoti reali, compreso quelli in apparenza più assurdi come quello della gallina operata per salvarle la vita e permetterle di fare ancora uova. È stato proprio leggendo le storie più strane che ci siamo detti che quella roba era meglio della fiction e che andava usata. Pensiamo che questa sia una delle innovazioni importanti del grande romanzo. Fin dall’inizio della SIC noi avevamo l’idea di fare un romanzo prima o poi. Avevamo fatto anche un tentativo, di cui c’è traccia nel sito, subito dopo aver terminato il secondo racconto. Forse è stato un gesto, come dire, arrogante. Avevamo raccolto quattro o cinque scrittori, scelti fra quelli che avevano partecipato ai primi due racconti, e avevamo impostato un romanzo. Ma il soggetto era “in progress”, così il romanzo si è arenato più o meno all’altezza delle schede luogo. Era successo che, nonostante ci fossero ottime idee, mancando fin dall’inizio sia un soggetto chiaro sia una sceneggiatura, quando gli scrittori erano chiamati a effettuare modifiche in corsa o a sviluppare parti della storia si bloccavano, perché non avevano una visione completa, dall’inizio alla fine, del romanzo. Lì abbiamo capito che per fare davvero un romanzo ci sarebbe stato bisogno di uno scheletro iniziale, non importa quanto scarno. Se si confronta ora il Grande Romanzo con il soggetto iniziale si scopre che c’è pochissimo, però in un certo senso la traccia – inizio, parte centrale, risoluzione e fine – c’è ancora tutta. Dopo il fallimento di quel primo tentativo, quando abbiamo iniziato a pensare al Grande Romanzo, ci siamo detti che occorreva partire dal soggetto. La prima idea è stata di proporre a tutti i partecipanti di inviare un soggetto; avremmo poi scelto il migliore, sottoponendolo ovviamente alle necessarie modifiche. Ma abbiamo capito subito che questo metodo non avrebbe funzionato. C’erano persone che si iscrivevano al sito e subito ci mandavano il soggetto per il futuro romanzo. Erano materiali quasi sempre deliranti o completamente inutilizzabili, perché quelli che li mandavano in realtà volevano che la SIC scrivesse il romanzo autobiografico a cui avevano sempre pensato senza mai riuscire a scriverlo. La soluzione più facile sarebbe stata che i fondatori si riunissero e scrivessero un soggetto, una soluzione che non ci piaceva perché noi volevamo che il soggetto fosse collettivo. Non volevamo che un’impresa collettiva in cui tante persone avrebbero investito una parte delle loro vite avesse una base individualistica. Da lì è nata l’idea degli aneddoti. Abbiamo chiesto a tutti i 236 iscritti iniziali di mandarci storie sull’occupazione tedesca o la Resistenza, a patto che fossero raccolte oralmente, in famiglia o fra i conoscenti, e non raccolte da libri o altre fonti già presenti nell’archivio storico. Pensavamo che da lì ci sarebbero venute le idee per il soggetto. Ci è arrivata una quantità di materiale assurda: plichi che contenevano documenti originali, fotocopie di manifesti nazisti, prove documentarie di stragi o fucilazioni, sbobinature di racconti di nonni. C’era di tutto, molto più di quello che serviva. Così ci siamo detti che c’era tanto materiale da poterci basare l’intero soggetto.





Lughia, Unica-Mente, 2009


Soprattutto c’era una cosa importantissima, vale a dire due livelli di racconto. C’erano grandi narrazioni, storie di gente che aveva risalito l’Italia a piedi, di donne entrate nei partigiani a Milano, di imboscati, che poi le ritroviamo nel Grande Romanzo, e poi c’era una folla di dettagli deliziosi, come l’operazione della gallina. Montando il materiale presente su questi due livelli è venuto fuori il soggetto. Però non bisogna dimenticare l’innovazione decisiva rappresentata dall’introduzione delle schede trattamento a fianco di quelle personaggio e locazione. Noi avevamo questo scheletro di storia, poi abbiamo delineato i personaggi e i luoghi però, sempre forti dell’esperienza del romanzo fallito sapevamo che quell’ossatura non sarebbe stata sufficiente perché certi snodi erano troppo aperti, molti personaggi non avevano una funzione chiara. Così abbiamo pensato a comporre delle schede trattamento, un termine di chiara ascendenza cinematografica, ovvero una sceneggiatura dettagliata del soggetto, compreso i suoi contenuti simbolici, il peso delle scene. Il risultato è stato ottimo proprio per il momento in cui le abbiamo fatte, dopo le schede personaggio e luogo. Come nel gioco del Lego, avevamo i bambolotti e le case (personaggi e luoghi) e il paesaggio; componendo le schede trattamento gli scrittori hanno potuto collocare per bene i bambolotti nelle case. Tante idee che ora sono decisive nel romanzo, per esempio che un certo comprimario è antagonista o alleato di uno dei personaggi principali, sono state sviluppate nel trattamento. In quella maniera, grazie al lavoro sul trattamento degli scrittori, il soggetto si è sviluppato dagli aneddoti alla fiction.

 

Ora che il Grande Romanzo è quasi finito e quindi potete valutare l’investimento che ha richiesto, se lo aveste scritto da soli, ognuno di voi due per conto proprio, avreste impiegato più o meno tempo?

 

Questa è stata una domanda tipica dei nostri ritiri di revisione. Il monte ore totale è enorme rispetto a quello che richiederebbe un romanzo della stessa lunghezza. Ma questo totale comprende l’insieme del tempo impiegato da tutti gli scrittori, i direttori artistici e i revisori. Se invece si calcolano le ore che noi ideatori del metodo abbiamo dedicato al libro e a queste si sottraggono quelle impiegate per il mantenimento del sito o per mandare e ricevere mail, se avessimo dovuto scrivere un romanzo individuale avremmo impiegato più tempo. E anche per gli scrittori presi singolarmente, anche uno di quelli che ha fatto di più, se avesse scritto un romanzo individuale avrebbe messo più tempo. Questo è inevitabile e lo si capisce se si pensa che il Grande Romanzo dovrebbe essere lungo più o meno 350 pagine, ma tutti i materiali scritti equivalgono a più di tremila. Una volta tolti i doppioni, è stato generato materiale otto o nove volte più ampio del distillato finale. Il lavoro somiglia davvero a quello della distillazione.

 

Un’ultima domanda: come vi vedete ora. Come scrittori singoli o come scrittori SIC?

 

Tutti e due. Chiaramente questo lavoro ci ha cambiati completamente. Lavorare al Grande Romanzo ci ha dato un’esperienza nel campo della revisione, anche dei nostri lavori individuali, incredibile. Siamo diventati più cinici e pratici. Ci siamo abituati a valutare il materiale non in base a considerazioni emotive, ma solo per la sua utilità alla riuscita del romanzo, senza mezze misure. Questo rigore era necessario anche come forma di responsabilità nei confronti degli scrittori. Crediamo che abbia funzionato, tant’è che nessun scrittore si è mai lamentato delle nostre decisioni. Questo è successo perché ci abbiamo sempre messo il massimo impegno innanzi tutto e poi perché abbiamo sempre agito in base ad un’etica della composizione assolutamente imparziale, senza guardare a chi avesse composto una scheda, tutto è sempre stato composto anonimamente. Quest’ultimo elemento ci ha salvato da forme di nepotismo che sarebbero state inevitabili, come condizionamento del nostro lavoro, se avessimo identificato le schede. Così nella composizione delle schede l’unico principio è stato quello oggettivo della qualità senza tener conto dei nostri gusti personali. È chiaro che avremo sbagliato un mucchio di volte, ma gli scrittori hanno visto bene che se succedeva era per colpa di errori e non perché volessimo imporre una nostra idea di letteratura attraverso la scelta di certi materiali a scapito di altri. Questa capacità di guardare ai materiali da rivedere con distacco ha un effetto enorme sulla scrittura individuale perché insegna a staccarsi dal proprio testo senza affezionarsi a niente e uccidere dove c’è da uccidere, anche la parti che uno più ama, magari per fattori emotivi personali.

 

 

gennaio 2011

 

 

 

 

 



[1] È il romanzo che nell’aprile 2013 verrà pubblicato col titolo In territorio nemico.

[2] Scrittura Industriale Collettiva, il metodo utilizzato per scrivere In territorio nemico.

[3] Nel metodo SIC un direttore artistico ha il compito di combinare le schede ricevute dagli scrittori in un’unica scheda che riunisce le parti migliori di quelle individuali.




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