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di Sarah Panatta
My
son, my son, what have ye done...
Figlio
di chi? Figlio orfano. Di se stesso, e del proprio passato, rinnegato e insieme
espiato in un conto alla rovescia perenne con la propria rabbia. Figlio
estraneo. Discendente di immigrazione sfruttata ed educata (d)alla violenza
come alibi/maschera/appiglio o meglio routine. Figlio di ghiaccio. Senza
pentimento. Non una lacrima di disperazione trova rifugio tra le allarmanti
pieghe del suo sguardo.
Serial
killer. Discendente di una nazione nutrita da crimine e mazzette e stuccata da
belle facc(iat)e. Family man, duplicatore di pellicole porno, quindi mercenario
e sicario. Un lavoratore, colletto bianco, membro seriale di una civiltà/catena
di montaggio. Richard Kuklinski, assassino efferato e pulito, padre amorevole e
protettivo, marito sacralmente devoto e omicida a contratto. Ariel Vromen,
regista israeliano pasciuto dal ventre dell'accademia losangelina e autore di
alcuni cortometraggi e del thriller Danika, tenta la svolta decisiva con
il biopic pulp The Iceman, prodotto nel 2012 e distribuito soltanto a
febbraio 2015 in Italia.
Vicenda
ampiamente vivisezionata dai riflettori scandalistici in USA e non solo, e
incline a sollecitare pruriti macabri, che fa perno sul divismo dei killer che
l'America, con i suoi "numeri", ha consacrato a culto di massa, The
Iceman è sopra tutto una storia classica, quasi dickensiana, che esplode
con calma davanti al pubblico, ʽin medias resʼ. La classica (wasp) dell'uomo comune che suda una gavetta moralmente
discutibile e vive di una dicotomia identitaria indicibile, ma
(necessariamente) impassibile. Dal magazzino sudicio all'auto di lusso sul
retro. Un piede al caldo nella villetta con giardino, a guardare i pargoli che
salgono sul pulmino della scuola privata (cattolica). Un piede nella tuta di
plastica antischizzo, mentre si eviscera un cadavere.
Monumentale
e discreto, ineccepibile nel ruolo del killer bifronte, Richard Kuklinski, lo
spigoloso gigante Michael Shannon. Aveva debuttato per il "grande"
pubblico, dopo anni di ruoli a margine o in secondo piano, nelle vesti
schizofreniche e preveggenti dell'operaio di periferia in Take shelter (USA
2011), scritto e diretto con efficacia da Jeff Nichols, e nelle inamidate
stoffe dello sbirro potente, doppio e laido nella serie cult Boardwalk
Empire. Hollywoodianamente adibito a caratteri borderline, abituato ad
armeggiarsi con le ire, gli scarti e i ripiegamenti di personaggi criptici,
furibondi, melliflui, ingombranti, Shannon è la ragione e l'essenza di un film
che si limiterebbe a scansionare ed ordinare con eleganza assonnata i files di
una cronaca già vista letta spulciata.
Il
reclutamento mafioso, il matrimonio con la bella, ingenua e unica fanciulla mai
amata, la costruzione automatica e stabile di una vita ambivalente
insospettabile (sicario ma anche agente di cambio), la crescita di due figlie
adorate, la scalata verso uno status quo sociale accettabile, gli screzi con la
cosca, il tradimento, il sodalizio con un collega psicopatico e solitario, la
soffiata, l'arresto, il mancato pentimento. Tutto scandito da improvvise
impercettibili fughe dalla realtà, dritte in una memoria corrosa dal desiderio
di riscatto, vendetta, morte. Pazzo o savio? Semplicemente un ottimo
"esecutore", un impiegato polacco efficiente per affari troppo
sporchi per i cortili spazzati dal progresso "bianco"? Un mostro
inglobato e ignorato dalla società? Una creatura "normale", con le
sue inclinazioni, i suoi timori e la sua "freddezza"?
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Michael Shannon è il protagonista di The Iceman diretto da Ariel Vromen
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Vromen
e compagnia studiano la figura/caso clinico nazionale. Scelgono un linguaggio
classico, piano, uniforme, che incastra e incassa senza sussulti i pochi colpi
di scena, e traducono il romanzo di un no regrets killer. In parte
tracciando la parabola "a sangue freddo" già descritta nel libro di
Anthony Bruno e in parte aspirando il carisma di Kuklinski dall'intervista che
gli strappò James Thebaut. Declinare in oltre 100 minuti di scarno thriller
biografico la vera storia di uno dei sicari più celebri d'America. Materia
abusata, certo, ma pulsante nella nazione simbolo delle contraddizioni
intestine continuamente materializzate da eversioni "improvvise",
killer, stragi, attentati, terrori razzisti, scandali finanziari, sessuali,
politici.
Forte
del magnetismo di Shannon, Vromen non cerca sbarchi psicologici o volate
visionarie, non vuole scarnificare membra e sinapsi dei suoi personaggi che non
siano i brandelli tarantiniani dei cadaveri ammucchiati da Richard e colleghi.
Vromen non vuole erigere Kuklinski a simbolo, non vuole sublimare messaggi
"altri". Non pedina infatti angoli d'ombra, non cerca linee di taglio.
La materia del suo narrare resta compatta, monocorde, ovattata. Appunto,
pulita.
Come
Kuklinski, Vromen innesta carne e voci di corpi scottanti nel camion frigo di
un'operazione senza sangue.
Senza
pentimento. Un lavoro, come un altro.
The Iceman. Diretto da Ariel Vromen.
Tratto dal romanzo "The Iceman. The true story of a cold blooded
killer" di Anthony Bruno e dal documentario "The Iceman tapes:
conversations of James Thebaut with a killer". Sceneggiatura di Morgan
Land, Ariel Vromen. Con Michael Shannon, Winona Ryder, James Franco, Ray
Liotta, Chris Evans, David Schwimmer. Montaggio di Danny Rafic. Direttore della
fotografia Bobby Bukowski. Musiche di Haim Mazar. Distribuito da Barter
Entertainment. USA 2012. Nelle sale dal 5 febbraio 2015.
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