di
Sarah Panatta
Moretti
e le "intermittenze della morte".
Quella della psiche (o dell'anima? Chi dice che non coesistano nell'immateriale cortocircuito minimamente esplorato dell'Io?) vagabonda di un (alter) Ego poetico che faticosamente celebra e inciampa nella bellezza del finire e ricominciare. Da capo e margine della propria stessa esistenza, ognuno con gli stessi
rovelli.
La mente balbetta e confonde, inciampa, rimescola ricordi e prospettive, quando si proietta senza sottotitoli su un film che
aveva appena decifrato e non credeva avrebbe avuto epilogo.
Dopo Habemus Papam, capolavoro minimale e politico, vicino a certa cinematografia nord europea, Moretti gioca ancora con l'ontologia (e antologia) del proprio cinema, con i totem della società italiota e con gli autoinganni di quell'Io nevrotico e fibrillante che ne popola l'intellighenzia sofferente e infantile. Con una nuova discesa
surreale nella tragicommedia
umana (ma priva dei momenti
velatamente naif quanto ad es. la partita di
volley tra cardinali che si accampa al centro del precendente succitato successo morettiano), Mia madre[1]. Dal
16 aprile in sala, coprodotto dalla Rai, un film che trascende
e seziona la porzione liminale del lutto come dell'essere vivi tra finzione
e multiple realtà, tra inevitabile autobiografia e metacinema, l'evoluzione ulteriore dell'autore o sua summa?
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Nanni Moretti e Margherita Buy in Mia madre (2015)
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Margherita,
fai qualcosa di nuovo, rompi uno schema, uno dei tuoi duecento schemi.
Buttati nel vuoto a perdere
(ma sì, a perdere, non c'è scampo alla "logica"
della vita), dei tuoi giorni contesi
da scenografie ad alto budget e capezzali tiepidi. Vai dietro la scrivania di mamma, odora i vecchi
libri e svuota o riempi quelle scatole.
Sorridi alle tue "te",
passate e future, tutte in fila per rivelazioni impossibili, in mezzo ai dettagli futili del cammino, tra allagamenti e motorini usati. Guarda l'altro Margherita e
"vedrai".
Margherita
(magistrale e asciutta
Margherita Buy, dichiarato doppio morettiano) è una regista solida
e collerica, irrisolta ma combattiva, e sta girando un
film ambientato in una fabbrica occupata dagli operai che
protestano contro il licenziamento. Ha appena lasciato il suo compagno,
un attore del cast, deve istruire
una guest star apparentemente psicolabile (esilarante John Turturro) e si prende cura della madre Ada (minuziosa, seppur essenziale la veterana Giulia Lazzarini), ex insegnante di latino molto amata dai suoi studenti,
da tempo ricoverata in ospedale
per complicazioni del suo stato di salute. Beatrice, figlia di Margherita, ha difficoltà
con il latino
e vorrebbe lasciare il liceo. Giovanni (il più misurato Nanni Moretti di sempre), suo fratello, ingegnere
pacato e abituato a compensare l'egocentrismo sommario e ansiogeno e le paure poco pragmatiche della sorella, vuole mollare il lavoro
e intuisce per primo l'irreversibile china intrapresa dal cuore malato di mamma Ada.
Confronto inevitabile con il proprio Sé,
forse il primo. Mentre la "madre", icona di un'epoca e fagotto di coperte, si spegne, lasciando in eredità, ad ogni respiro, frammenti
di verità al di là delle memorie quotidiane. Mentre la colonna familiare, mai posta in discussione, crolla lenta. Il rumore sordo della caduta avvolge il tran
tran congestionato di
Margherita, che salta in preda al panico sui suoi troppi set.
Imparando a riflettere e ad
amare più libera, forse.
Chi
ha detto che un regista abbia
il polso del suo "tempo"? Che riconosca i suoi "schemi" e che abbia la forza e la capacità di caricarsi sulle spalle il
peso di una propria (riconoscibile? Allora deve essere pure giustificabile? Non invasiva ma militante?) ermeneutica
della vita come della società che la ospita? E se poi ce lo dicesse
lui/lei stessa,
che il regista
"è uno stronzo"? Per lavarsi
le mani o per darci schietto il gusto
della relatività di questo caos poco calmo che è sopravvivere e fare arte artifizio cinema? Se ci dicesse che non bisogna dargli/le retta ad ogni piè sospinto
o meglio sospeso, ché non ha scienza infusa, ma solo con-fusioni, da strutturare nella propria personale esplosione
visiva.
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Giulia Lazzarini e la Buy nel film di Moretti
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Costato 7 milioni di euro e in sala con 400 copie, coprodotto da Rai Cinema e ora in
lizza per la Palma d'Oro a
Cannes, Mia madre, scritto
e diretto da Nanni Moretti con
una squadra numerosa, non prosegue semplicemente la cronaca familiare intima aperta con La stanza del figlio, né completa il
diario/racconto viscerale e autoironico sul fare cinema morettiano
iniziato con la sua stessa carriera.
Con i suoi vuoti di montaggio
e le sue piccole lacune o meglio paludi nella sceneggiatura,
con i suoi morbidi trapassi tra sogno, allucinazione
e realtà, Moretti è lucidamente
se stesso. Narra schematico il magma
dell'amore e di altri demoni. Dell'amore per l'unicum artistico e umano che è e diventa
ogni volta il Cinema, dal sogno premonitore alla stesura del soggetto, dalla scelta delle musiche alle liti sul set, dalle idiosincrasie
con la troupe alle crisi di significato "ciak dopo ciak".
Dell'amore per
la propria madre, per il dubbio, e per la nostalgia di un futuro che
è scritto dai cambiamenti geneticamente codificati e insieme imprevedibili del corpo e della mente e delle sue volontà. Dei demoni
della ragione che sciaborda, vacilla affonda nella sua
perenne danza fallace sulle onde
di tante tempeste, relazioni interrotte, figli da crescere, genitori da riscoprire, identità da trovare e salvare, espressioni e incubi intraducibili, sintassi da (de)costruire, verità irrevocabili, dolori da comprendere e accettare.
Romanzo di formazione adulta, cinefilo, autocitazionista, Mia
madre viaggia nei ricordi di Nanni e vive delle
sue debolezze, mette da parte le radici della sofferenza e scompone punti di osservazione e ruoli.
Si mette accanto ai suoi protagonisti, e lascia scorrere il flusso invisibile
di emotività che si incontrano, detestano, amano, rimpiangono, salutano. E fa la sua "parte", in parte. Da parte.
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Un'altra scena di Mia madre con Moretti e la Buy
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