LUOGO COMUNE
POESIA CONTEMPORANEA
Marco Palladini: la forza critica della contraddizione attiva


      
Una sagace lettura di “È guasto il giorno”, l’ultimo libro in versi dell’autore romano che si apre e si chiude nel nome del padre. Un testo con una intonazione di fondo poematica, che adotta ‘una lingua di combattimento. Una lingua armata, sempre tenuta su un pentagramma retorico di grande energia, fitto di enjambements, di giochi di parole, di espressioni idiomatiche, di neologismi di marca dura’. Qui la scrittura tende a abolire gli steccati che separano la ‘poesia’ dalla ‘prosa’.
      



      

di Mario Lunetta

 

 

Mano mano che si procede nella lettura del recente libro di Marco Palladini (è guasto il giorno, Collana ‘Segni del suono’ diretta da Anna Maria Giancarli – Pescara, Tracce Edizioni, 2015, pp. 80, € 12,00) ci si avvede per via di progressive e quasi implacabili conferme testuali che, malgrado la cifra tematica del poeta romano sia sempre stata quella di un’impervia tensione a petto delle contraddizioni più laceranti della modernità e del nostro oggi, forse mai come in quest’opera si era assistito a una determinazione così frontale nell’esplorazione impietosa e antagonistica delle turpitudini, delle bassezze, delle infamie, dell’idiozia infine delle società umane (o umanoidi) di cui siamo parte, e che coinvolgono – oltre quella di noi tutti – la vicenda privata dell’autore; tanto da forzare noi scribi criticanti a considerare l’onnivora volontà di decifrazione del reale e dell’irreale del nostro presente che anima pulsioni e facoltà cognitivo-espressive del poeta come il motore di un’impresa che potrebbe definirsi “totalitaria”, proprio in contrapposizione al magma totalitariamente indifferenziato in cui sembra ogni giorno di più consistere il modus vivendi dell’era cosiddetta postmoderna, alla cui penosa quiddità sarebbe giusto probabilmente aggiungere tutta una serie di indecifrati post.    

Era accaduto più di una volta a Palladini di rievocare con pathos profondo e animo fermo la figura paterna, riconoscendole una dignità e una coscienza delle circostanze tutt’altro che formale, tutt’altro che filiale; ma qui, posta in incipit al volume, questa figura assume una statura che è al tempo stesso di devota memoria e di protezione del figlio Marco, poeta e – da dentro il vuoto orrore del presente – militante non arreso di una Weltanschauung di opposizione liberatoria: “Mio padre è stato a Bergen-Belsen, / là nel campo di sangue dove venne sterminata / con tanti altri la 14enne Anna Frank. / Il sedici aprile 1945 le truppe inglesi avevano liberato / l’Oflag 83, il campo di concentramento di Wietzendorf / in cui era prigioniero dei tedeschi mio padre” (…) “Ecco, le mie radici familiari e bioepocali / sono anche nel latte versato e rancido della Storia, / nel riconoscimento di quell’atro turbinare / di una macchinazione di morte totale / in cui i confini estremi dell’umano /  coincidono col tempo della pura disumanità. / Diceva mio padre: fa bene qualche volta ricordare. / Io dalla gola di tigre del giorno presente aggiungo: / è necessario ancora e sempre non smemorare”.

 

Di un anno dopo (gennaio 2014) è un testo come Guardate, a prova che ogni eventuale rimozione risulta sconfitta da una visione Youtube della fabbrica della morte perennemente attiva nei campi di sterminio con materiale girato in tempo reale nel 1945 e montato (incredibile metonimia dell’orrore più che reale diventato programma di agghiacciata fruizione visiva per la tv) da Alfred Hitchcock, maestro dell’horror!

Scrive Palladini in versi come incisi sul ferro: “Guardate i graziosi villaggi tedeschi con le case in legno adorne di fiori, / immerse in paesaggi idilliaci, sulla riva di incantevoli laghetti, e i vecchi sorridenti / che fumano la pipa indifferenti ai campi da incubo che stanno proprio lì accanto. / Guardate e ditemi chi spiegherà che la Shoah è anche questo: / la negazione e la rimozione che il mostro siamo (anche) noi. / Guardate l’eccesso dell’umano, troppo umano, troppo disumano, troppo… / davvero troppo per dimenticare…”

Detto tra parentesi, questo è un passo del libro di Palladini che m’ha riportato alla memoria in un lampo rabbrividente una mia esperienza del luglio 1966. E ciò che sto per dire vale come riprova che l’uomo è capace di assuefarsi a tutto, anche alla propria omertà di fronte a eventi la cui spaventosa novità diventa rapidamente abitudine: qualcosa che non so che definire col termine di complicità. Bene. Erano passati 21 anni da quel 1945 di liberazione dei lager. Mia moglie e io, con una coppia di amici, eravamo diretti in macchina verso Praga. Pensammo di visitare il campo di Mauthausen, per cui – in mancanza di qualsiasi indicazione segnaletica – ci rivolgemmo a una quantità di persone che abitavano serenamente nei pressi, senza riuscire a strappargli una risposta precisa. Ignoravano tutto. Sapevano solo tacere su qualcosa che, essendo stato contiguo alle loro vite per un periodo non brevissimo, non li riguardava più. Alcuni risposero addirittura con irritazione, trattandoci come disturbatori della pubblica quiete. Quando finalmente, dopo un’infinità di tentativi, trovammo un poliziotto che molto gentilmente ci fornì le informazioni richieste, potemmo visitare il campo ricavandone uno choc terribile, lo facemmo con la triste convinzione che – come scrive Marco – “il mostro siamo (anche) noi”, esseri umani che non sanno assumere il rischio della responsabilità, facilitando (e, alla fine, legittimando) le azioni più spaventose dei nostri simili, purché la nostra miserabile sicurezza non venga messa in pericolo.   







Parentesi chiusa. E, riprendendo l’analisi di un testo tutto costruito sulla consapevolezza critica dello stare al mondo (oggi) di se stesso (e degli altri), si coglie inevitabilmente la sua natura di scrittura “esposta”, mai ripiegata su se stessa, disperatamente interrogativa e in cerca (che è pretesa) di risposte. Applicando a è guasto il giorno un famoso titolo di Edoardo Cacciatore, si potrebbe ripetere: ma insomma, Chi è qui il responsabile? Non solo in questo libro, ma direi lungo tutta la sua attività di poeta, di prosatore, di drammaturgo e di performer, Palladini non cessa di indicarlo e di chiamare in causa (come fanno ormai solo pochi irriducibili tra gli intellettuali di questo paese troppo acquiescente) i detentori veri del potere di classe. E, se il linguaggio è ideologia, proprio per questo il linguaggio palladiniano non può che seguire, anche in questa sua recente prestazione, e forse più accentuatamente di sempre, un cursus che tende a abolire gli steccati che separano la “poesia” dalla “prosa”, nel quale il verso quasi cancella la tentazione del “canto” per farsi discorso filosofico-politico rivolto prima che a se stesso alla collettività, quindi scandito da una percussione aspra, decisamente antilirica, sapientemente intellettuale (non di rado ai limiti della citazione appena velata), in cui la sapienza retorica e la raffinatezza del dettato rimandano senza tregua a estrarre dal lettore o dall’ascoltatore una consonanza non arrendevole ma crudelmente vigile: “Sì, vorrei trovare un’Italian Theory non come disputa teorica / ma come concreto pensiero di un Bìos aldilà della vita-merce, / come immanente, vitale galassia di istinto e ragione, / di movimento di valore che abolisce lo stato presente / è questo l’odio che conosce e riapre al futuro oppure no?” (Italian Theory or not?).

 

 “… degli spettri si aggirano per l’Europa: / ovvero tutti noi, precipitati in questo mediaevo / apparentemente senza più ideologia / ma dentro un’abbuffata di tecnologia / Siamo, così, schiacciati da una dittatura / dell’economia che ci fa miseri fantasmi, / fatiscenti zombie deprivati di futuro” (…)  “Siamo spettri che non fanno paura e che semmai / hanno paura della crescente inciviltà del mondo, / del lato sbagliato della sapienza, del fondo torbido / degli imprenditori, che sono poi astuti prenditori / Strani, bizzarri attrattori ci risucchiano nei tunnel / della denarocrazia, materia oscura e pragma fatale / ferocemente opposta al nostro spaziotempo destinale” (Noi spettri).     

 

Tutto, in questo universo che gira per il verso sballato, parla di troppe possibilità sprecate in nome della dea Cupiditas, che oggi, in termini tecno-economici, ha solo un nome: Capitale. Un sistema universale che non ha più caratteri e diversità di patria, di cultura, di etnia, di costumi, se anche l’amabile Mediterraneo ormai “Non è un mare per turisti o pescatori quello che diventa / L’acquatica tomba di millanta genti senza nome / Genti dall’Africa, dall’India, dal Pakistan, dallo Sri Lanka / Genti infine sommerse dall’onda lunga dell’indifferenza // Non è un mare per vecchi lupi di mare sulla paranza / Qui si svolge una mattanza, un genocidio a puntate / Sotto i nostri occhi inebetiti, inerti ed impotenti / I nostri occhi che vagano altrove, ritrosi pure alla testimonianza”.

Sono versi, lasse, strofe fondate non sull’eleganza ma sulla concretezza, quelli di questo libro che lavora su una lingua postavanguardistica di cui si potrebbe dire che guardi ben più al sommo Machiavelli (con un occhio ben fisso a Leopardi) che non a certe tristi raffinatezze della nostra lirica novecentesca di marca ermetica e sgg. È una lingua di combattimento. Una lingua armata, sempre tenuta su un pentagramma retorico di grande energia, fitto di enjambements, di giochi di parole, di espressioni idiomatiche, di neologismi di marca dura. Una lingua dove si crea senza tregua una scrittura della contraddizione – la sola, credo da sempre – capace di tentare una definizione non evasiva del mondo “guasto” in cui oggi viviamo.

L’ossessione del profitto economico investe anche le grandi organizzazioni religiose ammantate di un’ipocrisia che pure continua a fare proseliti, specie nelle zone più disastrate del pianeta: per disperazione o per pigra abitudine. In Europa (e da noi in particolare, per precise ragioni storico-culturali) vige in fatto di religione una stanca ripetitività ormai fatta “natura”: si crede come si agisce, per via meccanica. In altri luoghi del mondo dove la religione è Stato, i principi dogmatici sono semplicemente ossessione fanatica e non di rado criminale. Ne sono nel libro di Palladini esempi di gran forza certi testi carichi di doloroso sarcasmo come Domande ‘petrine’, Non ditelo a Stracci, Diodipendenti, Scacco (divino). Ma in questo libro gremito di tematiche e di soluzioni espressive, da Pasolini a Fellini, dal MUSE di Trento a certi sfrenati cerimoniali rock, al meretricio che è “legittimamente” parte di quella caotica fin du monde incapace di finire, tutto si tiene sulla tastiera di Palladini con una coerenza di visione che squaderna con brillante durezza le proprie possibilità,  annunci, proiezioni, polemiche, rifiuti, condanne, fino a rimettere in gioco il proprio Sé, in una poesia vibrante di consapevolezza sarcastica come Rabies: “Così perse tutte le battaglie, ma con un po’ di dignità e decenza, / emetto un avviso agli ignoranti, a coloro che alla lettera / ignorano le ragioni sia del sé, sia dell’altro-da-sé / Sono un soggetto mutante, intraneo al tempo che scorre / e sì, più non ricordo con rabbia, ma tuttora cerco / di non mettere, come uno struzzo, la testa sotto la sabbia”. Gioco che prosegue con disperata determinazione autocritica in Lectio, quando si dice: “Sbagliamo la punteggiatura dell’essere / ma non perdiamo la serendipità? / L’io è un enigma multitasking / che assume informazioni in eccesso su di sé / Lo spazio cognitivo del reale non mette a fuoco / l’identità del me stesso più profondo / Mi esploro, mi svuoto, mi rendo conto / che qui non c’è ritorno / è guasto il giorno”. L’autoesame, che si configura anche come esame della specie di appartenenza, è in Palladini del tutto privo di qualsiasi bava autocommiserativa: “Se cerco l’assoluto e il sublime e infine trovo l’abisso, / la brutalità e la vergogna, vuol dire che antropologicamente / i conti con l’uomo tristemente non tornano mai. / Perché, come chiosa Roberto Bolaño, anche quando / mi oppongo all’orrore mi aggiungo all’orrore”.





Anna Boschi, In-stabile, 2013


E, a corrispondenza del suo incipit, il notevolissimo libro di Marco si chiude con una poesia “di richiamo” come Il resto del padre, che sigla con straordinaria fermezza etica e stilistica l’intero percorso con un’iterazione strofica da mantra laico: “Quello che resta del padre / è il figlio che percorre il cammino / sapendo che arriverà da nessuna parte // Quello che resta del padre / è l’insistere a voler adorare / quello che non si sa comprendere // Quello che resta del padre / è il sospetto che non ci sono innocenti / e che amare è già fare il male // Quello che resta del padre / è il corpo non glorioso del dolore, / l’immedicabile enigma dell’esistere // Quello che resta del padre / è l’ordine del disordine, / il sacro caos che ci spinge a credere // Quello che resta del padre / sono i ricordi che abbiamo dimenticato / sono le certezze che non abbiamo avuto // Quello che resta del padre / è allora resistenza al vivere / e resa all’assurdo del vivere // Quello che resta del padre / è la menzogna di ciò che siamo, / la verità di quello che vorremmo essere”.

 

A lettura ultimata, ci si avvede di trovarsi in presenza di un séguito di testi poetici che sono tra loro saldati da un collante poematico, sul filo di quella coerenza organica che attraversa l’intera operosità di Palladini dentro il vento della contraddizioni attiva. È del resto ciò che tra molte altre illuminanti osservazioni esegetiche suggerisce la magistrale prefazione di Marcello Carlino: “La teatralità di è guasto il giorno si esprime nella mandata in onda e nell’aggetto di una voce seconda. Accade cioè che la voce ‘tutta di mente’, che esala dal silenzio della scrittura, si scambi, tuttavia implicandola, con una voce soprasegmentale, di volume più alto e di più marcata scansione, forte di una pronunciata fisicità. Quella voce e questa scorrono in sincrono come su piste parallele, ora con esiti potentemente performativi di evidenziazione dei significati, ora con riverberi stranianti” (…) “In una struttura così definita la dicibilità della contraddizione viene pienamente esaltata ed esalta le forme di una poesia-documento: poesia, ad altra diatesi (altra dalle diatesi in corso), di documento della contraddizione”.

                                                                                  

 

Maggio 2015  

 

  

      




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