INTERVISTE
MARIGIA MAULUCCI
Dico ai giovani:
siete voi che dovete cacciarci


  
Pubblichiamo una lunga e densa conversazione avvenuta nove anni fa con la dirigente sindacale, allora membro della segreteria nazionale CGIL. Un colloquio in gran parte ancora assai attuale che scava sulle ragioni antiche e presenti della militanza nel sindacato, sulle profonde trasformazioni intervenute nella struttura sociale ed economica, sulla evidente difficoltà delle ultime generazioni a lottare per rivendicare i propri diritti nel campo del lavoro, sulle vischiosità e chiusure che frenano il ricambio all’interno dell’unica organizzazione di massa dei lavoratori rimasta nel nostro paese. Brandelli anche di storia personale, di dolori e contraddizioni esistenziali, e la ferma convinzione che il senso di tutto stia nella continua ricerca del senso, anche se la parola ‘speranza’ fatica a trapelare.
  



  

 

 

di Maria Jatosti

 

 

Lo studio di Marigia Maulucci, al secondo piano del grande edificio che ospita la CGIL, a Corso d’Italia, è inondato dall’ombra verde dei grandi alberi di Villa Borghese. Dalla lunga chiacchierata a ruota libera, a microfono aperto, tra un’interruzione e l’altra, telefonate, un caffè e un tramezzino, emerge il ritratto di una donna concreta e complessa, ribelle e razionale, lucida e pensosa, tutta immersa nelle contraddizioni del nostro tempo, in equilibrio sofferto tra coerenza, dubbi, certezze, tenacia, rigore intellettuale e morale, tensione ideale e filosofica, travaglio esistenziale, domande. Un intreccio drammatico tra l’impegno pubblico e una vita privata che non conosce scorciatoie, compromessi, concessioni; tra disciplina, fervore politico e riservatezza. Una famiglia medio borghese, colta, liberale, un padre autoritario amatissimo, una madre silenziosa, i libri, il pianoforte, gli studi, la filosofia; un figlio stroncato a diciotto anni, un pessimo rapporto con i “maschi”… Una combattente, malinconicamente consapevole della sconfitta di una generazione che non ha vittorie da consegnare ai propri figli.

 

            

 

 

Trent’anni nella più grande organizzazione sindacale, che cosa hanno significato e significano tuttora nella tua storia?

 

È complicato dirlo in poche parole, però indubbiamente, senza retorica, significano una scelta di vita. L’impegno in questa organizzazione è tutt’uno con la mia vita. Ho cominciato che avevo 24 anni, ero appena laureata, lavorare, tra virgolette, avevo lavorato poco, un anno e mezzo, e quella scelta fu per me la conclusione di un percorso, come è capitato spesso ai ragazzi della mia generazione che aveva fatto politica a scuola, all’università, il sessantotto, eccetera... Incontrare, entrare nel sindacato ha segnato anche molto per me un approccio esistenziale.

 

In che cosa si distingue l’impegno del sindacato rispetto alla militanza in un partito?

 

È un altro modo, differente, di fare politica, di guardare alla prospettiva, al futuro, al cambiamento della società attraverso la concretezza dei bisogni delle persone. Ho sempre considerato interessanti ma anche molto astratti i discorsi dei politici, li ho sempre visti con l’occhio della sindacalista che comunque deve trovare una soluzione, cercare una mediazione, e questa capacità si intreccia con tante cose, perché le scelte di vita dipendono da come sei fatto, dalla tua personalità, dal rapporto che hai con l’autorità e con il potere, eccetera. Evidentemente per me è stato l’incontro fatale tra la mia propensione a combattere l’autorità, ma anche a farci i conti, e l’organizzazione che allora era molto più aperta e disponibile ad accogliere una giovane ragazza che aveva voglia di fare un’esperienza.

 

Ventiquattro anni, appena laureata, formazione filosofica, che cosa sapevi del Sindacato?

 

Quando i compagni della Camera del Lavoro di Roma mi hanno accolta non sapevo praticamente nulla. Hanno fatto una scommessa, un investimento che, tutto sommato, gli ha reso. Adesso questo coraggio non c’è più, siamo molto più chiusi. Quanto alla filosofia, io sono convinta che il Sessantotto abbia condizionato una generazione spiegandoci che l’unico modo di stare al mondo era quello di provare a cambiarlo. Siamo cresciuti così. Crescere in un clima così a diciotto anni, vivere a diciotto anni sapendo che c’è un contesto, una società che insieme a te vuole cambiare il mondo:  credo sia questo che ti rende il bello della vita. Certo molto meglio che vivere dentro il contesto attuale, depressivo e disperante rispetto al futuro, al cambiamento…

 

Tu affermi che oggi l’organizzazione è più chiusa, meno accogliente verso i giovani, ma non pensi che esista una difficoltà oggettiva?

 

Non lo so, so solo che molta della responsabilità è nostra. Le carenze oggettive dei giovani dipendono dalle carenze dell’impianto sociale. Oggi la società non crea una formazione politica. Ai tempi nostri non esisteva una possibilità di formazione che non fosse politica, per cui la filosofia, la mia scelta della filosofia era nata dal fatto che potevo studiare Carlo Marx e soprattutto in seguito insegnare e quindi educare alla rivoluzione vera e propria le giovani generazioni. Dunque anche quella fu una scelta segnata. Mio padre, che era medico e che avrebbe voluto che seguissi le sue orme, era disperato. Mi accompagnò all’università e piangeva, piangeva. “Sul serio vuoi fare filosofia?” Non ci poteva credere. Ma io avevo quella tensione. La filosofia mi piaceva e mi piace molto, mi piace l’astrazione, la speculazione teorica, eccetera. Inoltre, partendo dallo studio dell’origine della conoscenza hai una disposizione al ragionamento che è utile in qualsiasi campo, infatti, come si vede anche oggi dalle tendenze del mercato, la formazione filosofica ti consente varie possibilità. Ormai i filosofi fanno tutto: gli economisti, gli psicologi, insomma tutto. Dunque per me politica, filosofia, sindacato sono stati un tutt’uno, strettamente connesso, davvero una scelta di vita.

 

Contrastata, tuttavia, e dunque una sorta di ribellione. Com’erano tuo padre, la tua famiglia?

 

La mia non era una famiglia di sinistra, democratica, liberale, ma non di sinistra. Una normale famiglia medio borghese: padre medico, madre laureata anche lei e concertista ma senza esercitare perché il marito, da bravo meridionale, era convinto che le donne dovessero stare a casa. Però a casa il pianoforte c’è sempre stato e mia madre lo suonava. Voglio dire che dal punto di vista culturale sono cresciuta in un ambiente stimolante. A scuola ero molto brava, molto prima della classe, ma sempre ribelle, sempre in guerra con un padre autorevole e autoritario. Però ho amato moltissimo mio padre e soprattutto ho apprezzato che mi abbia educata da subito a misurarmi con l’autorità e a farci i conti. Era un uomo di grande fascino e quindi, con tutta l’ambivalenza di una figlia nei confronti di un padre/personaggio così autorevole e importante, mi sono allenata a misurarmi con l’autorità. C’è da dire che con lui le battaglie sostanzialmente le ho perse tutte, perché era lui che comandava sul serio, sulle cose da fare, su quando si usciva e si rientrava, su come ci si vestiva, come ci si comportava, come si parlava… Insomma la mia è stata un’educazione al contrasto, un’educazione sentimentale e politica importante che ha sviluppato in me un forte senso della conquista delle cose attraverso un impegno forse molto razionale, intellettuale, molto “maschile”. Tutto questo più tardi mi è servito nei miei rapporti anche nella politica e nel sindacato perché, alla fine, nessuno mi ha mai regalato niente. Nel Sindacato,  insieme alla misura dell’autorità che hai di fronte e alla capacità di contrastarla, ma anche di arrivare a degli accordi, è fondamentale avere la consapevolezza dei propri mezzi, della propria autorità …

 

 

 

 

Questa scelta così radicale, questo entrare nella vita e nel Sindacato a piedi pari, a capofitto, come era una volta quando ci si dedicava alla politica, quali sacrifici, quali rinunce ha comportato sul piano privato?

 

Non parlerei di sacrifici e di rinunce. Certo, quando è nato mio figlio la mediazione è stata un po’ più complicata. Però ho sempre avuto molto chiaro, e voluto, che la mia attività prevalente fosse quella di occuparmi di mio figlio. Forse questo, sì, ha cambiato un po’ le cose, il mio modo di essere…

 

Sei diventata madre molto giovane?

 

Relativamente. Avevo trent’anni. Ero “attempata”. Adesso ci fa sorridere. Io un figlio lo volevo più di qualsiasi cosa al mondo e l’ho fatto convintissima di ciò che facevo, e da allora quello è diventato il mio impegno principale. Inoltre, Aureliano è nato con una cardiopatia per cui aveva bisogno di tutto il mio amore e di attenzioni particolari…

 

(Anch’io ho avuto un figlio a quasi trent’anni, e anch’io l’ho voluto con tutte le forze. Anche per me la sua nascita ha rappresentato un grande cambiamento…).

 

Hai voglia di parlarne?

 

Aureliano è morto. Cinque anni fa. Aveva diciotto anni. Ma è vissuto bene, molto bene…

 

Un incidente?

 

Un incidente, diciamo, in sala operatoria. Un’operazione al cuore non riuscita… Da piccolo aveva bisogno della mia assistenza, della mia presenza costanti. C’erano continui controlli, ricoveri… Mi capitava di stare anche quindici, venti giorni in ospedale con mio figlio ma io, non lo so, mi sembrava di farcela a fare tutto, a conciliare la mia vita privata con quella pubblica, politica, sindacale,  e non  c’è stato mai niente da dire, non si è mai creato un problema…

 

Forse perché era la CGIL. Mi chiedo se in un’altra struttura sarebbe stato altrettanto possibile.

 

Certo. La CGIL da questo punto di vista è molto accogliente. In qualsiasi altro posto di lavoro forse sarebbe stato diverso. Allora le cose per le donne erano molto peggiori di oggi. Comunque, io so a che cosa ho rinunciato, lo vedo adesso. In questo lavoro per affermarti, farti conoscere, farti valere conta di più la chiacchiera che ti fai al bar o la pizza che ti fai con qualcuno, invece io, finita la riunione, avevo voglia e bisogno di correre a casa, di stare con mio figlio, per cui tutta quella parte, purtroppo molto consistente, di ricerca di consenso attraverso attività che non siano rigorosamente quelle di lavoro, per me non è mai esistita e devo dire che non esiste neanche adesso che ne avrei il tempo, perché non la ritenevo, e non la ritengo tuttora, un metodo corretto… Ma nella mia mente c’era una scala di priorità assoluta: l’impegno affettivo veniva prima di tutto, ed era molto forte. Non ci avrei rinunciato per nessuna ragione al mondo. Però, al tempo stesso, ho sempre fatto quello che dovevo fare.

 

Conciliare lavoro e affetti non ti creava quei sensi di colpa che noi donne conosciamo così bene?

 

Altro che. Come a tutte. In ufficio mi sentivo in colpa perché non stavo con mio figlio e quando ero con mio figlio mi sentivo in colpa nei confronti del lavoro, e così via. C’è da dire che il mio lavoro mi portava molto fuori, in giro, ma mio figlio non ha mai avuto la percezione di essere abbandonato e non si è mai lamentato del fatto che la mamma non ci fosse. O forse sì, ma solo quando era molto piccolo. Questo probabilmente dipende dal fatto che c’era una grande comunicazione tra di noi. Mio figlio aveva ben chiaro nella testa che la mia priorità era lui. Molti dei problemi che hanno i ragazzini quando si sentono abbandonati attengono secondo me alla qualità della relazione con i genitori…

 

Non è un alibi per consolarci, per mettere a tacere i sensi di colpa di madri divise, inadempienti? La qualità del rapporto, come dici, è fondamentale, certo, ma il tempo…?

 

Il tempo. Certo, il tempo è importante. Il tempo conta: conta la qualità, è vero, ma anche la quantità del tempo. E sulla quantità siamo purtroppo deficitarie.





Marigia Maulucci


Hai parlato di tuo padre e di tuo figlio. La tua sfera affettiva è tutta qui? Non c’è una presenza importante nella tua vita?

 

No. Nessuno. C’è stato ovviamente il padre di mio figlio, ma siamo divorziati da tantissimi anni. Io amo ripetere e ripetermi di essere stata una buona madre. Aureliano soffriva dalla nascita di una cardiopatia molto seria, però ha vissuto bene, consapevole dei rischi, dei problemi, ma anche molto positivo, molto solare, molto ironico, molto felice e questo ovviamente è soprattutto merito suo, del suo carattere, però anche un po’ mio, credo. Quindi sono soddisfatta come madre, abbastanza soddisfatta del mio lavoro di sindacalista, ma un disastro totale nel rapporto con l’altro sesso. So di essere stata una moglie terrificante, per alcuni una fidanzata imbarazzante, così alla fine ho deciso che i maschi non sono cosa per me. Insomma, nella relazione a due faccio fatica. Potrei anche spiegarne le ragioni, ma, del resto, non si può avere tutto dalla vita, no?

 

Torniamo alla tua formazione culturale. A parte la musica che c’era in casa, che rapporto hai con l’arte, con la bellezza, quali sono i tuoi luoghi dell’anima, qual è il paesaggio, il libro, l’incontro, l’evento che ti hanno segnato?

 

Di cose ce ne sono moltissime. Tuttora la musica è per me capacità di concentrazione e di fantasia e credo che questo sia molto legato alla formazione. Il libro: non potrei vivere senza i miei libri – mio figlio si chiama Aureliano per via di Cent’anni di solitudine, uno dei libri, ma non solo quello, che hanno segnato la mia vita. Mio padre e mia madre erano entrambi pugliesi e nel ’48 capitammo ad Ariano Irpino, al tempo del terremoto. Io ero piccola, avevo otto anni. Eravamo a casa, mia madre scappava, mia sorella scappava, io scappavo e  mio padre, invece, cercava di recuperare i suoi libri: non si poteva andar via senza i libri fondamentali della sua vita. In tutte le case che abbiamo abitato ci ha seguito lo scaffale del terremoto, anche adesso in quella dove abito attualmente, lo tengo vicino alla porta d’ingresso, per sicurezza, coi libri pronti a salvare in caso di calamità: sette, otto: l’Odissea, I promessi sposi, Cent’anni di solitudine… E adesso c’è anche il mio…

 

Un tuo romanzo? Di che si tratta?

 

È la storia della mia vita con Aureliano. Ovviamente l’ho pubblicato da sola, ed è non irrilevante il fatto che scriverlo sia stato l’unico modo per fare i conti con questa esperienza e con questo dolore. In quel momento non avevo altro e l’ho sentito come il massimo della compensazione. Probabilmente adesso, passati cinque anni dalla morte di mio figlio, ne scriverei uno diverso, ma quel primo anno per me scrivere è stato fondamentale. Sai, Aureliano disegnava. Quando era in ospedale o quando era incazzato con la vita o quando capiva che c’era qualcosa che non andava diceva: dammi un foglio, dammi una matita, un pennarello… lui sublimava in quella maniera, per me è stato lo scrivere. Io non ho problemi, non conosco la paura della pagina bianca, quella roba lì degli scrittori. Naturalmente è una storia, un libro molto intimo… Vorrei che lo leggessi ma ne ho stampate cinquecento copie e sono finite… Ora, tornando alla tua domanda, non so se tutto questo abbia a che fare con la bellezza. Io penso di sì. Non so se la bellezza può salvare il mondo, ma io penso di sì. Se la bellezza è il modo di guardare profondamente dentro se stessi e attraverso questo recuperare, conoscere, capire, leggere quello che succede intorno, allora penso di sì. Ti sembrerà assurdo, ma nei momenti più tremendi del mio dolore – ovviamente ancora oggi dopo cinque anni continua ad essere una disperazione infinita, ma il primo anno, tornare a casa la sera dove sai che lo trovi e non lo trovi e trovi soltanto il buio perché eravamo soli io e lui – quando attraversavo Roma e vedevo il tramonto sulle cupole o su ponte Garibaldi mi sentivo meglio. Allora, se la bellezza è questo, sapere che ci sono delle cose belle che ti sostengono e che incrociano una sensazione interna che tu hai, allora sì, la bellezza può salvare il mondo.  Ma io credo  che la bellezza esterna possa essere percepita come tale soltanto se corrisponde a una sensazione interna di accoglienza. E questo vale sia per l’individuo che per la collettività.

 

Vuoi dire che bisogna essere preparati, disposti a percepirla?

 

Esatto. Credo che la bellezza non possa essere percepita da chi non ha lo spazio interiore per riceverla.

 

Nella bellezza possiamo trovare compensazione anche alle ingiustizie, alle tragedie? Qual è, secondo te, l’ingiustizia più grande del nostro tempo?…

 

Bella domanda! Be’, sicuramente la sproporzione del rapporto tra ricchezza e povertà. Che poi è il risultato di un tema distorto e di una difficoltà a capire, da parte dei soggetti internazionali, la possibilità della compensazione. Io credo che noi stiamo vivendo davvero un momento di transizione per cui non me la sento di affermare la vittoria del capitalismo sul socialismo. Io penso che oggi il luogo del mondo in cui il capitalismo si affermi in maniera più vigorosa e più vitale che dovunque altrove sia la Cina. Per cui tocca a noi constatare com’è possibile che il capitalismo e il comunismo si stiano aiutando a vicenda. In realtà secondo me entrambi i sistemi sono ampiamente falliti, se non nella loro combinazione che purtroppo produce effetti sicuramente importanti sul piano economico per quelle popolazioni che oggi stanno molto meglio di quanto non stessero prima, ma che passano per la via stretta dello sfruttamento da prima della rivoluzione industriale, come è già successo in Europa, per giunta con il sostegno di un regime totalitario. Ma io sono convinta che un mezzo di produzione capitalista producendo sfruttamento produce anche la ribellione allo sfruttamento per cui credo che la situazione evolva verso il progresso, anche culturale, per le persone che lavorano, tenuto conto anche della pressione internazionale… Tutto questo per dire che probabilmente un sistema che funzioni non è più né l’uno né l’altro. Nessuno di noi ha le idee molto chiare…

 

Questo tipo di “evoluzione”, di intreccio dei sistemi ha portato alla scomparsa della “lotta di classe”, una definizione che si stenta a dire, l’ha annullata, svilita…

 

Sì, probabilmente è così nella sua forma, ma questo non significa che i contrasti tra le classi sociali e l’affermazione della dignità, il rispetto dei diritti,  siano superati. Certo, io faccio fatica a definire lotta di classe per esempio la battaglia per l’articolo 18, tuttavia si tratta sempre di una battaglia di  contenuto fortemente eversivo rispetto a una misura che si vorrebbe introdurre, ma al tempo stesso penso che quello che stanno facendo in questi giorni i tassisti nelle città italiane in difesa della categoria non sia lotta di classe, ma difesa di una corporazione.

 

 

Braccianti in lotta anni Cinquanta

 

In una situazione così profondamente cambiata rispetto a solo qualche decennio fa – penso alle grandi battaglie storiche dei lavoratori e della CGIL – è il concetto stesso di proprietà che è cambiato, sono cambiate le forme, le modalità del lavoro e di conseguenza i metodi di lotta e di contrasto… Vedi, appunto, le manifestazioni di protesta di questi giorni.

 

Sì, certo, ma anche se non la chiamiamo più lotta di classe esiste comunque la necessità di interventi che possano costruire un modello sociale fondato sul rispetto dei diritti delle persone e costruire intorno a questo anche un’organizzazione economica e produttiva rispettosa di questi diritti. Io sono profondamente convinta che il capitalismo sia riformabile e che lo sia nel senso di re-individuare, insieme per quanto è possibile, senza mettere in discussione la proprietà, ma costruendo dei modelli di partecipazione alle decisioni che siano realmente esigibili. Quanto al concetto di proprietà, è vero, oggi ormai non si capisce più niente. Molto spesso le aziende sono proprietà di soggetti indistinti, di carattere finanziario. Insomma la lotta di classe è chiarissima quando hai il padrone e l’operaio. Adesso abbiamo difficoltà ad avere gli operai perché, come dicevi tu, si lavora in maniera diversa, e i padroni sono una bestia rara…

 

Suppongo che per i sindacati in questo quadro di cambiamento e di perdita di identificazione oggi sia molto meno semplice operare…

 

Non c’è dubbio che la situazione sia cambiata da tutti i punti di vista, però non è cambiata la tensione di quelli che lavorando lottano per veder rispettati i loro diritti né la tensione di quelli che non lavorano a voler lavorare. Io credo che la novità rispetto a venti, non cento anni fa, stia nella nuova dimensione del lavoro. Quindici, vent’anni fa eravamo tutti convinti che l’innovazione tecnologica avrebbe diminuito il lavoro e che si andasse verso una società dove si sarebbe lavorato molto meno, dove i valori sarebbero stati altri, eccetera. Ora a me pare che questa logica fosse sbagliata – del resto la CGIL l’ha sempre considerata tale  – e che a maggior ragione sia sbagliata oggi perché non è vero, perché molta parte della vita delle persone è rappresentata dal lavoro che fanno, sia pure in maniera diversa, e che comunque il lavoro resta una fede di investimento identitario e di futuro…

 

Non sembra più così automatico, come lo era per noi. L’affermazione, l’emancipazione, l’affrancamento, la realizzazione di sé passavano necessariamente per la conquista del lavoro come crescita, come certezza, stabilità, identità, etica…

 

Certo. Oggi l’approccio al lavoro, l’idea del lavoro, il modo, assurdo, di lavorare è molto diverso… Ci si scontra con un muro di assenza di diritti e di regole e questo contribuisce ulteriormente a creare  una società instabile. Quando penso a come rendere stabile, accettabile il modello sociale, io immagino davvero a un luogo dove le persone possano lavorare nel rispetto della propria dignità  e realizzare se stesse in quel lavoro, però quella dignità di lavoro, intanto che uno lo fa con tutte le caratteristiche, i limiti e i problemi che comporta, è esattamente il punto attorno al quale si organizza una società…

 

È questa oggi la “lotta di classe” ed è questo che definisce la funzione del sindacato, oggi? Immagino la difficoltà di  fare i conti con una classe operaia non più distintamente identificabile, più frammentata…

 

È soprattutto molto più faticoso. Prima andavi in un’azienda, una fabbrica, e parlavi a migliaia di persone contemporaneamente, adesso no. Adesso si fa fatica a incontrare sui posti di lavoro persone che a poco più di vent’anni si buttino nel sindacato, come me. Naturalmente ci sono, ma abbiamo più difficoltà a incontrarle…

 

Io ne ho incontrata una recentemente, una ragazza molto giovane ma già madre di due bambini, bravissima. Mi ha fatto pensare a come dovevi essere tu alla sua età, agli inizi del tuo impegno… Se ci sono in giro persone così, piene di passione, di intelligenza, di coraggio e di entusiasmo vuol  dire che il sindacato è vivo e soprattutto è necessario.

 

Certo. La prova è che continuiamo ad aumentare gli iscritti, soprattutto fra i giovani che sono i più colpiti dalla precarietà sociale. Probabilmente si rivolgono al sindacato nel momento in cui l’attività lavorativa produce le contraddizioni peggiori, non all’inizio, però arrivano, sanno che esiste un posto dove i loro diritti vengono ascoltati e protetti…

 

E i lavoratori stranieri? Arrivano anche loro?

 

Sì. Ne abbiamo anche nei livelli di direzione del sindacato e non a occuparsi di stranieri se no sarebbe la stessa cosa che si è verificata con le donne per tanto tempo. Certo, sono ancora un numero molto ridotto, ma è una tendenza positiva. Io credo fermamente che ci sia bisogno del sindacato, sicuramente in presenza di un governo di destra, ma anche con un governo come l’attuale di centro-sinistra, perché le persone votano ma al tempo stesso sanno che se le cose non vanno come devono andare ci siamo sempre noi. La CGIL, di fatto, è rimasta l’unica organizzazione di massa. I partiti, sono molto in crisi, in difficoltà, mentre la CGIL ha una forma di direzione totale e tanti iscritti… Insomma io credo veramente, senza retorica, che la storia della CGIL abbia segnato la storia del paese, per cui nelle cose buone che sono successe in Italia c’è sempre stato il suo zampino.

 

 

 

 

L’atteggiamento, lo spirito di appartenenza alla politica, ai partiti, alle organizzazioni, al sindacato, è profondamente diverso rispetto a trenta, cinquanta anni fa. Tanti muri sono crollati frantumando culti, miti, massimalismi… La gente, “le persone” come vedo che tu giustamente continui a chiamarle, non sono disposte a venire a patti in nome di ideologie ferree… Gli studenti che in questi giorni dimostrano contro la Moratti non sono disposti a fare sconti…

 

E questo è positivo perché indica una serietà, un rigore, un rapporto con te molto contrattuale, di scambio: io ti ho votato, ti ho dato fiducia, ed è giusto che tu risponda alle mie aspettative. Noi davamo fiducia a prescindere, mentre il loro rapporto è molto meno ideologizzato. La nostra era una fede, una passione: il segretario della CGIL o del partito, era Dio in terra… personalmente, di questa fede nel partito ne ho sempre avuta molto poca, però con la CGIL… Noi avevamo un rapporto ideologico, loro giustamente no e questo fatto per quelli della mia generazione rende l’interlocuzione un po’ più complicata. in molte assemblee anche durante il congresso della CGIL, quando vedo che ci sono più  lavoratori giovani io gli dico, gli spiego che noi siamo quelli che hanno ricevuto in consegna dalla precedente generazione i valori della Resistenza, della liberazione dal fascismo, che si sono impegnati tantissimo, che hanno fatto la storia di questi ultimi trent’anni del paese, ma che, sostanzialmente, non hanno nulla da dare. Spiego a quei giovani che c’è il rischio che fino a quando non avremo vittorie da consegnare loro, noi non ce ne andremo. Siete voi che dovete cacciarci, dico loro, perché se non ci cacciate voi, noi da qui non ci moviamo.

Ma loro questa forza non ce l’hanno e purtroppo ciò genera un meccanismo collusivo fra noi che non ce ne vogliamo andare e loro che non vogliono assumersi questa responsabilità. Bisogna rompere questa collusività…

 

Uccidere i padri.

 

Sì ma loro non sono abituati, non sono i figli che hanno vissuto il confronto, lo scontro con il padre, loro sono i figli di una famiglia affettiva in cui a lungo i genitori non hanno dato ordini ma spiegato che qualsiasi cosa andava messa in dubbio, discussa…

 

I genitori del Sessantotto

 

Esatto. Ma io li davo gli ordini. Io ad Aureliano dicevo fai così perché lo dico io e lo dico io perché sono tua madre e non sono tenuta a spiegarti tutto quello che faccio. Ma l’andazzo era completamente diverso infatti ero additata da tutte le amiche come una totalitaria, una dura, eccetera, però mio figlio aveva capito bene e sapeva riconoscere l’autorità sapeva come ci si misura con l’autorità. I giovani hanno bisogno di questo contesto affettivo che li accolga, mentre il mondo oggi… altrimenti non si spiegherebbe per quale motivo lavorano in condizioni così disastrose e non si ribellano. Ci ribelliamo noi al posto loro, ma noi non possiamo farlo in funzione vicariante: sono loro che  devono assumersi in prima persona la responsabilità. Una volta all’Università durante una lezione sul sindacato, nell’ambito di un corso di psicologia sul disagio adolescenziale, ho fatto più o meno questo discorso e un ragazzo mi ha detto: ma se a noi ci hanno sempre dato tutto, se non ci siamo mai conquistati niente, perché adesso dovremmo rivendicare un modo diverso di lavorare?

 

Insomma la situazione è complessa. Viviamo in un mondo complicato per non dire di cose orrende che accadono attorno a noi, guerre, massacri, tragedie… Ma l’intreccio è complicato. Come se ne esce?

 

La cosa fondamentale è mantenere la tensione… Io credo che il senso del nostro lavoro, di ciascuno di noi, sia quello di costruire le condizioni perché la situazione possa migliorare. Ci riusciamo? Non lo so. Certo, se lo fai nei meccanismi di massa normalmente funziona. Per esempio, nel nostro paese la cultura del rifiuto della guerra è ormai molto solida e diffusa.

 

 

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Non così nel mondo

 

Non così nel mondo, è vero, ma se non avessimo fatto tanti sforzi probabilmente sarebbe peggio. Il panorama, come dicevi, è complesso. C’è sproporzione da tutte le parti. Guarda in Medio Oriente: ogni volta che ci si avvicina a una soluzione accade qualcosa che fa esplodere di nuovo il conflitto. La tensione antagonista è radicata e profonda e non la si annulla dicendo io sono pacifista. Io sono sinceramente pacifista, però sono convinta che per esserlo davvero bisogna aver ragionato fino in fondo sull’attitudine naturale alla guerra dell’uomo. Non è un caso che l’unico modo per definire la pace è partire da una realtà di guerra. Non c’è una definizione della pace che non sia correlata alla guerra. La guerra si sa che cos’è, la pace è l’assenza di guerra. E poi?

 

 

Descrizione: Israele-Gaza: tutti i falsi miti da sfatare

 

Israele-Palestina: una guerra infinita

 

 

Questo a livello razionale, teorico, individuale, non politico naturalmente…

 

Naturalmente il ragionamento politico si basa su altro: sugli interessi di potere, sugli schieramenti, eccetera, che è poi quello che succede in Medio Oriente. Io continuo a pensare e a dire – in maniera schematica, se vuoi – che all’origine c’è sempre l’intervento in Irak: decidere che l’unica risposta fosse quella ha risuscitato una perversione nel rapporto tra i popoli e la guerra. Bisognerebbe ricondurre il tutto a un ragionamento che passi attraverso equilibri differenti. Però, nel mio intimo io non riesco a non chiedermi come mai la leva che ci aiuta a capire perché occorra costruire equilibri differenti sia il misurarsi con il proprio antagonismo. Nascondermi questa verità, significherebbe lasciarla manifestarsi per altre strade, che poi farei fatica a governare. Farsi la guerra, scatenare conflitti atavici, ancestrali, lo ripeto, è una tendenza naturale dell’essere umano. L’uomo non è nato buono.

 

Una visione desolante che allontana la speranza in una soluzione per quei popoli, e che rende difficile schierarsi da una parte…

 

No. Io so benissimo da che parte stare. Non ne ho mai dubitato. Però non riesco nemmeno – e questo è, credo, il grande insegnamento, la grande formazione politica del mio lavoro – a stare da una parte senza cercare di capire le ragioni dell’altra. Non avrei concluso nessun accordo se non mi fossi posta il problema di quali fossero gli interessi e le ragioni dell’altro. Ma non vedo questa tensione negli organismi che dovrebbero essere deputati alla decisione.

 

Rispetto alla crisi di questi giorni, come consideri l’atteggiamento dell’Unione europea? 

 

Noi puntiamo tutto sull’Europa e mi sembra che in questo equilibrio di poteri mondiali l’UE stia cercando di svolgere un ruolo che si basa sulla sua storia, sul suo passato, sulla sua cultura, sulla formazione dei suoi popoli. Speriamo che possa essere una leva utile in una situazione così drammatica, anche se dovrebbe essere molto più autorevole e molto più forte. L’importante è mantenere viva la tensione…

 

Insomma, sostanzialmente, resistere, resistere, resistere, come recita un famoso appello…Concludendo, qual è la domanda importante che non ti ho fatto?

 

La domanda è qual è il senso di tutto ciò e la risposta è: continuare a cercarne uno. Non credo che ci sia un’altra possibilità nella vita individuale e collettiva che la continua ricerca del senso.

 

A proposito di senso, come si fa a restituire forza, dignità, senso a parole logorate e fondamentali per noi come politica, giustizia, lotta, etica, ecc. Anche da scrittrice, non credi che occorra restituire forza alle parole?

 

Ti sembrerà una banalità, ma spesso quando parlo in occasioni pubbliche mi capita di cogliere una percezione netta da parte delle persone che mi ascoltano, soprattutto se non mi conoscono, di quale profondità abbia “quella” parola per te. Quindi, prima ancora della ricostruzione del senso di quella parola, è importante la ricostruzione del senso del tuo pensiero, del tuo vissuto di quella parola. Io posso dirti che attraverso la politica le persone stanno insieme, costruiscono e danno un senso al loro stare insieme e dunque costruiscono i percorsi, le procedure, le regole, le articolazioni della democrazia. Posso dirlo in tanti modi. Che questo sia un terreno, un ambito nel quale vale la pena investire risorse, se io lo comunico come una parola per me fortemente emozionata e sulla quale io ho espresso, ho valutato, ho tentato, ragionato, investito, viene percepito immediatamente.

 

 

 

Giuseppe Di Vittorio in un ritratto di Carlo Levi

 

Questo vale anche nel vissuto banale, quotidiano di ciascuno di noi.

 

Certo. Ciò che vale moltissimo è come le persone vivono il lavoro che fanno, come e se nella vita di tutti i giorni la giustizia, l’equità, la correttezza, il rigore sono chiaramente definite. Viviamo in una società di vetro, le persone giudicano da come sei, da come vivi, e se tutto questo essere costituisce cultura. Io credo fermamente che se si riuscisse a comunicare che la giustizia non è una manifestazione eccezionale esercitata da un gruppo, o da un pool di magistrati, ma che c’è giustizia negli atti di tutti i giorni, il clima cambierebbe, cambierebbe la cultura, nel paese avverrebbe un cambiamento che non apparterebbe più solo ad alcune punte di iceberg ma al vissuto collettivo. Credo che noi abbiamo bisogno soprattutto di questo. Non è possibile fare tutti questi discorsi e poi lasciarceli passare sopra la testa nel nostro essere. Ora io non sono un personaggio pubblico, però l’immagine ha un valore. Questo vale per me individualmente, ma vale anche per una organizzazione. Una organizzazione come la CGIL può sostenere e ribadire la necessità di giustizia sociale nei suoi documenti, oppure può farne oggetto di battaglia politica. Se si limiterà a scriverlo, come l’abbiamo sempre scritto, va bene, è utile e passerà alla storia, ma se farà le battaglie per corrispondere a quel principio, solo allora potremo dire che la parola scritta ha un senso anche nel vissuto dell’organizzazione. Ciò che trovo ormai improponibile è l’insieme di parole vuote di senso. Ne abbiamo dette, sentite parecchie, troppe: occorre creare più congruità tra il pensiero, le cose che dici e quello che fai se si vuole costruire qualcosa di diverso. Che è ciò che ci chiedono i giovani.

 

Il linguaggio comune oggi sembra estremamente impoverito. Si usano poche parole e non sai se in questa povertà si nasconda un vuoto di pensiero…

 

Be’, il linguaggio riflette sempre il pensiero, quindi, povero il linguaggio povero il pensiero. È proprio un paradigma, due cose che si condizionano a vicenda, se tu hai poche parole non hai nemmeno, sulla base delle poche parole che hai, lo stimolo a pensare. 

 

 

 

 

Di stimoli a pensare ne ho una valanga nella testa. Riflessioni, considerazioni, prospettive, utopie… Mentre esco dallo studio di Marigia, subito assorbita da altre e più importanti incombenze, percorro piani e corridoi e scale del vecchio palazzo dove, giovanissima negli anni Cinquanta delle grandi battaglie operaie e contadine, come lei approdata – “accolta” – dalla Camera del Lavoro, Sindacato Edili di Claudio Cianca storico sindacalista partigiano, ho trascorso indimenticabili stagioni muovendomi tra Grandi Ombre, mi chiedo se persone come lei, così ricche e totali, possano ancora aiutarci a cambiare, o almeno migliorare, lo stato depresso delle cose e mi rendo conto di quanto poco, in tutta la nostra lunga e appassionante chiacchierata, sia apparsa la parola Speranza. E improvvisamente la luce accecante di questo meriggio romano mi sembra più opaca, appannata.

 

 

Roma, giugno 2006

 




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