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di Cetta Petrollo
Il rito liberatorio di Maria Pia Quintavalla
C’è un momento nella vita in cui il rito della
sepoltura acquista significato e spessore. Dentro di noi diamo definitiva
sepoltura alle presenze che abbiamo avuto e che non ci sono più, al nostro
essere con loro, alle loro storie, alla parte di queste storie che
condividemmo, ai luoghi, agli oggetti, alle strade che con loro percorremmo.
Con il rito della sepoltura noi diamo compimento alla morte, la concludiamo in
un alleggerimento dell’anima dei defunti, che dentro di noi dimora, in un gioco
di specchi dove, senza il rito, sarebbe forse indistinguibile chi è morto da
chi ancora sopravvive.
Se il rito non si compie l’io del sopravvissuto
vaga alla ricerca del posto dove continuare a vivere quanto quello del defunto;
l’io che più non è abita l’io di chi continua a vivere e solo nel rito della
chiusura – pietà verso il sepolto che conclude e realizza pietà verso se stessi
– è possibile continuare a vivere.
Con quali strumenti dare sepoltura alla vita
altrui e, insieme, alla propria? Non solo copertura del cuore e del ricordo con
sovrabbondanza di azioni, pensieri, necessari comportamenti, quotidianità che
smemorano ed allontanano. Ma dipanarsi di recitazione in scrittura,
lamentazione funebre che numera, in lingua, oggetti, posture, luoghi: un’osservazione
altra che guarda da fuori le varie camere ardenti estraendo dalla memoria dialoghi fra vivi costellanti
transito a morte.
Maria Pia Quintavalla – trent’anni di
pubblicazioni in poesia iniziando dal 1984, anno della sua prima raccolta, Cantare semplice – ci introduce e
completa il rito della sepoltura in un andare povero ed insieme
linguisticamente avvertito dove i sarcofaghi, invece di essere nominati in
pietra scolpita, sono nominati in terracotta (i cinque Compianti in terracotta che marcano l’andare della raccolta), la
contemplazione dei morti avviene lenta, circonfusa da parole quotidiane ([…] ma
le gambe erano ben tornite / il pene che non avevo mai veduto / riposava
allungato, / la mano artistica segreta / poggiava al petto), le case dimenticano
le loro scale (Ora il salto dei piani si è smarrito, / l’ascensore scende
direttamente / al pian terreno in
un’uscita sola), gli assenti fanno capolino dalla descrizione di un quadro ([…]
è rinato dietro la scaletta / nascosto un trampolino, e sotto / si sommerge /
nel sonno di barche docili[…]).
Il corredo funebre sparge squame di sé
condiviso, una pelle morta che viene descritta in inventario finale delle
presenze/assenze: “nelle camole secche del bicarbonato / nei vasetti bianchi di
ultime etichette / che essudavano ingiallite, / nei biscotti con le larve che
cedevano molecole / […] nelle scarpe regalate via, ad altri vecchi; /
nell’ordine morto dei medicinali, e non utilizzati / e non scaduti […]”.
I morti non sanno che “trattenerci è il tuo
mestiere”. I sopravvissuti sanno questo ed altro (“mentre noi non possiamo
farlo a te, / legati a ritmi di catene / sonagliere al tempo”).
La ritualità, divenuta ritualità di parola,
nell’andamento dialogante di morte con vita e di vita con vita – vita
superstite, vita residua – compone i resti di ciò che fu emozione e compagnia
transeunte e li elegge ad onorevole, liberatoria, sepoltura.
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