LETTURE
MARIA PIA QUINTAVALLA
      

I Compianti

 

Milano, Effigie edizioni, 2013, pp.106, € 12,00

    

      


di Cetta Petrollo

 

 

Il rito liberatorio di Maria Pia Quintavalla

 

C’è un momento nella vita in cui il rito della sepoltura acquista significato e spessore. Dentro di noi diamo definitiva sepoltura alle presenze che abbiamo avuto e che non ci sono più, al nostro essere con loro, alle loro storie, alla parte di queste storie che condividemmo, ai luoghi, agli oggetti, alle strade che con loro percorremmo. Con il rito della sepoltura noi diamo compimento alla morte, la concludiamo in un alleggerimento dell’anima dei defunti, che dentro di noi dimora, in un gioco di specchi dove, senza il rito, sarebbe forse indistinguibile chi è morto da chi ancora sopravvive.

Se il rito non si compie l’io del sopravvissuto vaga alla ricerca del posto dove continuare a vivere quanto quello del defunto; l’io che più non è abita l’io di chi continua a vivere e solo nel rito della chiusura – pietà verso il sepolto che conclude e realizza pietà verso se stessi – è possibile continuare a vivere.

Con quali strumenti dare sepoltura alla vita altrui e, insieme, alla propria? Non solo copertura del cuore e del ricordo con sovrabbondanza di azioni, pensieri, necessari comportamenti, quotidianità che smemorano ed allontanano. Ma dipanarsi di recitazione in scrittura, lamentazione funebre che numera, in lingua, oggetti, posture, luoghi: un’osservazione altra che guarda da fuori le varie camere ardenti   estraendo  dalla memoria dialoghi fra vivi costellanti transito a morte.

Maria Pia Quintavalla – trent’anni di pubblicazioni in poesia iniziando dal 1984, anno della sua prima raccolta, Cantare semplice – ci introduce e completa il rito della sepoltura in un andare povero ed insieme linguisticamente avvertito dove i sarcofaghi, invece di essere nominati in pietra scolpita, sono nominati in terracotta (i cinque Compianti in terracotta che marcano l’andare della raccolta), la contemplazione dei morti avviene lenta, circonfusa da parole quotidiane ([…] ma le gambe erano ben tornite / il pene che non avevo mai veduto / riposava allungato, / la mano artistica segreta / poggiava al petto), le case dimenticano le loro scale (Ora il salto dei piani si è smarrito, / l’ascensore scende direttamente / al pian terreno  in un’uscita sola), gli assenti fanno capolino dalla descrizione di un quadro ([…] è rinato dietro la scaletta / nascosto un trampolino, e sotto / si sommerge / nel sonno di barche docili[…]).

Il corredo funebre sparge squame di sé condiviso, una pelle morta che viene descritta in inventario finale delle presenze/assenze: “nelle camole secche del bicarbonato / nei vasetti bianchi di ultime etichette / che essudavano ingiallite, / nei biscotti con le larve che cedevano molecole / […] nelle scarpe regalate via, ad altri vecchi; / nell’ordine morto dei medicinali, e non utilizzati / e non scaduti […]”.

I morti non sanno che “trattenerci è il tuo mestiere”. I sopravvissuti sanno questo ed altro (“mentre noi non possiamo farlo a te, / legati a ritmi di catene / sonagliere al tempo”).

La ritualità, divenuta ritualità di parola, nell’andamento dialogante di morte con vita e di vita con vita – vita superstite, vita residua – compone i resti di ciò che fu emozione e compagnia transeunte e li elegge ad onorevole, liberatoria, sepoltura.

 




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