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di Alberto Scarponi
Uno
dei racconti di Antonio Tabucchi, una sorta di perfetto specimen o facsimile narrativo della imprendibilità della vita, s’intitola
Il gioco del rovescio e fu scritto nel 1978, anno in Italia di trionfo e
crisi delle apparenze ideologiche arrivate al cimento delle proprie conclusioni,
al contatto diretto con la vita. Il loro rovescio, appunto.
Le
metafore letterarie hanno questo di buono, quando sono buone, che non volendo
t’insegnano qualcosa. Allora restano nella memoria come sentenze definitive. In
questo caso l’insegnamento è che la vita sfugge a ogni aspettativa, è più
complicata di quanto non dicano le idee, i propositi, i pronostici degli stessi
suoi attori, figuriamoci le semplificazioni razionalizzanti degli interpreti,
per quanto postume e/o scientificamente fondate. È probabilmente questa la
saggezza, povera ma bella, che uno scrittore sorprendente, depistante, come
Tabucchi ci ha aiutato a conquistare, con le sue invenzioni narrative, dopo
tante idee e tanti propositi e pronostici.
Con
questi pensieri cominciava, nel novembre 1999, a un passo dalla chiusura di
quel secolo e forse millennio, una intervista (poi pubblicata su Lettera internazionale) che gli avevo
fatto nella sua casa di Firenze, in Borgo Pinti, location che, per mio abbaglio, mi aveva indotto in errore. Infatti
quella città io allora l’associavo, pelle pelle, al clima futur-azion-vociano
del primo pezzo del Novecento, secolo italiano costretto a un sogno europeo che
non si faceva mai vita, che restava vitalità impedita, gesticolante, egotica,
al più recitata, per chi poteva, dentro la forma burocratica dei gruppi civici
in manto letterario. Sbagliavo. E in due sensi, perché – come difatti notavo
subito all’inizio dell’intervista – la realtà, la vita, è sempre parecchio più
annodata da come semplicisticamente ce la figuriamo prima di provarla, e perché
non tenevo conto che gli scrittori, se veri, addirittura sono più complicati della
stessa realtà. A questa essi aggiungono un doppio, cioè il ‘possibile’, il
possibile della parola che lo dice reale, insomma gli scrittori vivono una
doppia vita. Quindi ti depistano per loro natura.
E depistante
Tabucchi lo era in parecchi sensi: era un toscano quasi strapaesano, ma
raccontava del Portogallo; raccontava del Portogallo, ma parlava di noi
italiani; parlava di noi, ma cercava di vedere (più che sentire o capire) la
vita tutta. Poi, ammmirava notoriamente Pessoa, ma gli piaceva Gadda, che però
letterariamente non seguiva. Notissimo come scrittore di racconti e romanzi
(chi non ha letto Sostiene Pereira o, prima ancora, Piazza d’Italia?),
trascorreva le sue giornate in disparte tra il paese quasi natale («quasi»,
perché Tabucchi era nato a Pisa, e ci teneva), tra Vecchiano, Firenze e Siena,
nella cui università insegnava letteratura portoghese. Filologo romanzo, dunque,
che andava percorrendo da sempre una pacata carriera universitaria, era però
anche inquieto uomo di lettere che ansiosamente guardava al ‘Parlamento degli
scrittori’, allora esistente a Strasburgo e Parigi, perché «la parola
letteraria», come mi diceva, libera e perturbante doveva avere una sede
istituzionale da cui esercitare funzioni d'intervento nella vita dei popoli e
delle persone.
Effettivamente
privo di pista, io a questo punto cercai un terreno solido e, avendo in mente che
poteva confidarmi il titolo di un nuovo romanzo o almeno di un racconto, gli
chiesi che cosa avesse scritto di recente. Tabucchi tranquillo rovesciò l’ovvia
aspettativa così:
“ Ho
fatto una specie di vagabondaggio riflessivo intorno a un mio libro, Requiem,
scritto in portoghese nel 1991 e questa riflessione è ora uscita sulla Nouvelle
Revue Française. L’alloglossia in letteratura… ho riflettuto su questo tema
muovendo dalla mia esperienza con quel libro. Che ha avuto origine da un sogno in cui avevo ascoltato una
voce che parlava in portoghese. Così mi sono domandato che cos’è «la voce» e,
cercando, ho incontrato un libro straordinario, La vive voix di Fónagy. Ivan
Fónagy per esempio parla della «mimica glottale»: dice che il suono della voce
è un gesto nello spazio, un gesto fonico, che dunque ha suoi modi d’essere
diversificati a seconda delle lingue e delle persone, un po’ come la langue
e la parole di Saussure: cioè,
per emettere un messaggio di tenerezza o di ira o di disapprovazione la voce
umana ha una tonalità che appartiene solo a quella voce, una sorta di impronta
fonica invece che digitale, e inoltre ogni lingua ha un suo diverso tono.
Quindi un messaggio di tenerezza in portoghese avrà una curva tonale diversa da
un simile messaggio in giapponese, in ungherese, in italiano; inoltre il
parlante avrà la sua curva tonale personale.
Dunque in letteratura accanto al
gioco semantico dei vari significati di una parola e di una frase ci sono i
giochi fonici, i giochi del significante, che includono per così dire i movimenti
corporei della voce?
Sì,
ma comunque, il mio è stato un libero vagabondaggio a esplorare terreni ignoti.
Per esempio, sono arrivato anche nei pressi del Circolo di Praga dove il russo
Kartsevskij aveva detto che qualsiasi messaggio vocale ha un ritmo biologico,
ha cioè una nascita, una crescita, una permanenza e poi un processo di
esaurimento, fino alla morte, perché è cadenzato sul respiro e il respiro è un
ciclo biologico.
Si possono costruire molti castelli
teorici, vagabondando a questo modo. Ma la scelta di scrivere Requiem in portoghese ha a che vedere con la sua esperienza di vita?
Certamente,
ha a che vedere con l’esperienza vissuta, ma soprattutto italiana. Sì, la mia
famiglia per metà è portoghese, lo è mia moglie, quindi la mia vita è intrecciata
con il Portogallo, tuttavia io parlo il porgoghese da alloglotta, non da
bilingue, l’ho imparato da grande, avevo oltre vent’anni…
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Antonio Tabucchi
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Già, ma perché ha
imparato il portoghese?
È
stato casuale, come spesso nella vita. Le racconto: nel 1964 trascorsi circa un
anno a Parigi, perché, non avendo intenzione di iscrivermi all’università, ero
molto indeciso su cosa fare nella vita…
Beh, mi pare assai positivo che un
giovane, nel decidere di essere indeciso, decida di andare Parigi.
Sì, a
Parigi. Dove, per sopravvivere, finii alla città universitaria, ma a lavare i
piatti. Così ottenni una stanza e solo allora mi iscrissi come auditeur
libre… che per me costituiva in sostanza una carta di credito da usare
nella corrispondenza con la famiglia. «Che fai a Parigi?» «L’auditeur libre
alla Sorbonne». Dava un tono alla cosa. Anche se poi in realtà seguivo qualche
lezione di filosofia…
Di chi?
Di
Jankélévitch. Ma non lo sapevo che era importante. Mi piaceva la filosofia e
seguivo le lezioni di filosofia. Tutto qui. Ma poi, essendo auditeur libre, facevo quello che volevo, quindi seguivo
anche lezioni di critica e di storia dell’arte. Dopo quasi un anno di questa
vita indecisa, pensai di tornarmene a casa, dove orientativamente mi sarei
iscritto all’università e probabilmente a Lettere. Andai dunque a prendere il
treno alla Gare de Lion e lungo la strada mi fermai a comprare qualcosa da
leggere per il viaggio: mi capitò tra le mani un libretto che, intanto, costava
poco, e questo era già un buon motivo per acquistarlo, ma inoltre aveva un
titolo bizzarro, Bureau de tabac. Un poemetto in francese con testo
originale a fronte in tema di tabaccheria era decisamente attraente, quantunque
l’autore, Ferdinando Pessoa, mi fosse del tutto sconosciuto. Quindi lo comprai
e lo lessi. Arrivato a casa, effettivamente mi iscrissi a Lettere e, poiché mi
interessavano le cose soprattutto francesi, ma anche spagnole, decisi per
Filologia romanza. Lì vidi che c’era anche un insegnamento di portoghese e lo
scelsi. Poi la vita ha fatto il resto.
Quel libro è stato come
un segno del destino.
Certo.
Tuttavia... un libro può portarti in un
paese, però non è sufficiente per fartici restare. Ci vogliono le persone.
Allora possiamo sfatare la leggenda
metropolitana, se esiste, che lei in realtà sia un portoghese sotto la parvenza
di scrittore italiano.
No,
no. Io sono nato a Pisa, dove del tutto normalmente ho fatto l’università
laureandomi in Lettere, con una tesi in quella zona di studi di Filogia romanza
che possiamo chiamare lusitanistica. Successivamente ho avuto una borsa di
studio di specializzazione della Scuola Normale di Pisa e, nella più piena
normalità, ho seguito la carriera universitaria.
Ora insegna a Siena?
Sì, a
Siena. Come scrittore ho esordito tardi, prima ho pubblicato i miei studi di
filologo romanzo, cosa che continuo a fare anche adesso: è il mio lavoro universitario…
Solo nel 1975 è uscito il mio primo libro di narrativa, quando avevo già 32
anni.
È stato Piazza d’Italia?
Sì. Ma ero già «assistente stabilizzato» e professore
incaricato…
Di quale materia?
Sempre
di Letteratura portoghese. E diventare scrittore non rientrava nei miei piani.
Infatti scrissi Piazza d’Italia, nel 1973, un po’ per me, per
divertirmi… Era d’estate, stava per nascere mia figlia, non dovevamo
allontanarci, faceva un caldo diabolico, e io, in casa, in attesa dell’evento,
mi sono tenuto compagnia scrivendo.
Sembra un libro che si rifaccia a una
tradizione orale. Si trattava di storie che lei aveva già sentito raccontare?
In
effetti è una storia immersa in mie memorie infantili. Piazza d’Italia è
un collettore di racconti ascoltati nel mio paese, nel paese dove sono
cresciuto… In realtà, io sono nato a Pisa, ma sono cresciuto a Vecchiano, dove
ho passato l’infanzia nella casa del mio nonno paterno. Per questo in quel
libro c’è un’eco dell’oralità paesana e della sua epica locale: le vicende
della prima guerra mondiale che sentivo ricordare, le storie del periodo
successivo che ascoltavo da mio nonno antifascista, in più c’era poi l’atmosfera
di quella zona costiera della Toscana che ha profonde tradizioni mazziniane e
anarchiche. È, insomma, l’epica che fa parte delle radici, come si chiamano
queste cose.
Ma, come ha detto, questo scrivere
non era esplicitamente destinato al vasto pubblico, era per sé e forse per gli
amici.
Infatti
arrivò ad essere pubblicato a causa di un amico. L’avevo fatto e lasciato lì,
senza altri pensieri. Poi un giorno venne a pranzo un amico, Nanni Filippini…
Il cui nome pubblico
era Enrico, se non vado errato.
Sì,
lavorò alla Feltrinelli e successivamente alla Bompiani, prima di trasferirsi a
Roma come giornalista del quotidiano la Repubblica. Nanni
fu a pranzo da noi e tra una chiacchiera e l'altra venne a sapere del libro.
Decise di portarselo via per leggerlo. Poi un giorno mi telefonò: «Sai, quel
tuo libro ha vinto un premio. Ce l’ho mandato io». Era un premio intitolato L’inedito. «Per cui lo pubblichiamo.»
Lui in quel momento stava da Bompiani, ma già voleva abbandonare tutto e fare
un’altra cosa. La Repubblica è stata fondata nel 1974 e Nanni andò a Roma nel 1975. Me lo ricordo
bene, perché il suo primo servizio fu un reportage sui fatti portoghesi
di quell’anno e io gli diedi una serie di indirizzi di amici e intellettuali
per avere informazioni e orientamenti, anzi anche alcuni piccoli ritrattini di
scrittori portoghesi amici, che ora sono morti, come anche Nanni.
Com’era Enrico
Filippini?
Un
uomo pieno di vitalità, d’inquietudini, di cultura. Forse per questo ha scritto
meno di quanto avrebbe potuto. Ma, per esempio, fu lui a introdurre Günter
Grass in Italia, di cui tradusse due grandi romanzi: Gatto e topo e Anni
di cani. Anche se, di fatto, amava di più tradurre filosofia.
Torniamo a Piazza d’Italia.
Ogni
libro è un’avventura diversa. Penso però che in Piazza d’Italia ci
siano, magari in nuce, temi e aspetti che mi hanno poi sempre
accompagnato. Prima di tutto, vi è una certa pressione verso la realtà
effettuale, un aspetto che ritornerà successivamente con evidenza, che so, in Pereira
e Damasceno Monteiro. Inoltre, c’è l'uomo come creatura desiderante,
come essere che vive di aspirazioni e sogni, anche se in quel caso i
protagonisti dei sogni appartengono a quelle che una volta si chiamavano le
classi umili. Più tardi nella mia narrativa appaiono personaggi delle classi
colte, con un orizzonte intellettuale meno semplice, ma la struttura di base è
quella. Un tema che ritorna è, già lì, quello del «doppio» fra persone. Ma
soprattutto, forse, c’è la struttura formale, tutta una serie di accurati artifici
celati nella voluta immediatezza della scrittura.
Di che cosa si tratta?
Quella
struttura narrativa è anche il risultato di un montaggio di tipo
cinematografico eseguito seguendo in parte le indicazioni di Eizenštejn appunto
nelle lezioni di montaggio, che allora studiai appositamente. Per esempio,
tutte la serie di sinestesie che Eizenštejn indica…
Pensava al cinema?
Non
al cinema nel senso dello schermo, ma nel senso narratologico. Naturalmente
molti miei accostamenti sono del tutto arbitrari, ma in parte ho seguito
proprio quelle indicazioni. Pensavo al metodo della moviola. Il libro in
origine non era come appare oggi, aveva una logica narrativa molto più
tradizionale, poi lo stesi tutto sui pavimenti, lo tagliai, lo disposi a
quadretti e gli diedi, da una parte, la struttura del montaggio cinematografico
e, dall’altra parte, il ritmo del cantastorie popolare che espone le sue
vignette sulla piazza. Perché pensavo a una narrazione molto attaccata alla
realtà culturale del «paese», un paese inventato naturalmente. Sebbene, poi, il
racconto non si restringa a quel piccolo mondo.
Infatti c’è anche
l’altrove: i viaggi, l’Argentina, l’America. Alcuni personaggi aprono…
Sì, alcune persone aprono prospettive lontane…
Dietro quei personaggi
c’erano persone reali?
No,
no. Intendo semplicemente che i personaggi, una volta inventati, divengono
persone… Forse, senza volerlo, mi riallaccio alla lunga discussione sul «personaggio»
che oggi mi pare vada riprendendo vigore. In fondo, da Pirandello a Pessoa,
tutto il Novecento non ha fatto altro che pensare al «personaggio». La scuola
formalista, gli strutturalisti si sono rotti il capo su questo tema e la
discussione pare interminabile, perché oggi ricomincia. Per esempio Calvino in Se
una notte d’inverno un viaggiatore ha cercato di sottrarre il personaggio
all’autore, ma adesso i giovani critici dicono che forse l’autore vi è più
presente di quanto non sembri. Il personaggio è sempre molto pesante per l’autore.
Mi viene in mente un mio amico, Cardoso Pires, che verso l’inizio degli anni Ottanta
aveva scritto un libro in cui agiva un personaggio non troppo simpatico, così
un critico gli osservò: «Lei qualche volta ha personaggi che non tratta con
troppa simpatia». Cardoso Pires rispose: «Questo è un fenomeno abbastanza
comune. Il problema per me nasce quando sono io che non resto simpatico a
qualche mio personaggio». Che era un modo, folgorante, di rimettere in
questione tutto.
Parlavamo degli
emigranti di Piazza d’Italia.
In Piazza
d’Italia ci sono alcuni personaggi che nutrono già uno spirito nomade. Uno
dei Garibaldi, quello con cui si apre il racconto, è particolarmente incline al
viaggio, all’evasione. È ovviamente spinto a partire da ragioni economiche, e
andrà a far parte di quelle masse di persone che emigravano come forza-lavoro
pura, come bestie da soma, verso contesti economici diversi, ma mostra di avere
una insofferenza congenita per la piccolezza del mondo paesano, oltre che per
la oppressività dello Stato fascista.
In effetti è un personaggio dove
risalta fortemente il temperamento anarchico. Un temperamento cui lei sembra
guardare con simpatia. Ma nel 1975, anno di pubblicazione di Piazza d’Italia, esplode in Portogallo la «rivoluzione dei garofani», dove lei
simpatizza invece per lo Stato, democratico
ma sempre Stato. Come mai?
La
rivoluzione portoghese fu opera dei capitani di aprile e sostanzialmente venne
ispirata da Ernesto Melo Antunes, che è morto quest’anno…
E Saramago?
Mah,
Saramago non ebbe altra funzione che quella di giornalista. Era «direttore
aggiunto» in uno dei più importanti quotidiani di Lisbona, il Diario de
Noticias… Per capirci: il partito comunista nel momento più caldo impose
questi «direttori aggiunti» la cui funzione era semplicemente di controllare il
funzionamento del giornale. E questo fu nella seconda fase della rivoluzione,
quando alcune sue parti oscillarono verso posizioni radicalizzate e il partito
comunista tentò di prendere il potere, anche occupando taluni snodi dell’apparato
militare, della società civile e dell’informazione. D’altronde, era del tutto
esplicito che Álvaro Cunhal, il segretario del partito comunista che veniva da
Praga, e con lui tutto il partito avevano posizioni sovietiche, tanto che
veniva condannata e criticata aspramente l’idea berlingueriana dell’«eurocomunismo»,
un’idea – come si sa – assai invisa a Mosca. Melo Antunes invece, di cui ero
amico, guidò la rivoluzione verso la democrazia, nel senso che, dopo un paio d’anni
di potere militare, così oscillante come ho accennato, restituì il potere alle
istituzioni politiche civili, cioè a un parlamento dove erano rappresentati
tutti i partiti.
Queste, ed evidentemente altre
vicende, su cui non occorre soffermarsi ora, appartengono comunque alla storia
portoghese e non alla sua storia personale.
Certo.
In realtà io sono una persona scettica che guarda con grande curiosità a quello
che càpita nel mondo. Ma, quanto al mio atteggiamento di simpatia verso questa
o quella cultura politica, vorrei evitare un corto circuito sbagliato: una cosa
è l’anarchismo toscano fine Ottocento, che è un fenomeno storico ben preciso
verso cui, per certi motivi, si può anche nutrire simpatia; un’altra cosa è l’estremismo
di sinistra, incluso lo stalinismo dei comunisti portoghesi, come si è
manifestato negli sviluppi della «rivoluzione dei garofani» in Portogallo. Chi
come me aveva riflettuto sullo stalinismo nella guerra di Spagna, aveva letto
Orwell, e ora, di fronte al plateale stalinismo di Cunhal, vedeva l’atteggiamento
orripilato degli scrittori e artisti portoghesi, di suoi amici poeti, come per
esempio Alexander O’Neill, che erano stati antifascisti davvero, non per far
colore politico, ma per cultura, chi come me si trovava in queste condizioni
aveva poco da scegliere.
Possiamo dire che in
lei si presentano così due radici, una toscana e una portoghese?
Sì,
possiamo dirlo. Il Portogallo è anche il mio paese, io gli voglio bene al
Portogallo. Infatti, quando ho scritto Requiem in portoghese, mi sono
reso conto di avere anche un’altra anima. Noi non abbiamo una sola anima, ne
abbiamo varie.
Le persone sono
costituite da confederazioni di anime, sosteneva Pereira.
Certo,
è così. E quando si scrive in un’altra lingua la situazione appare chiarissima.
Per esempio, si può dimenticare in una lingua e ricordare in un’altra. La frase
non è mia, l’ho trovata in un trattato di psicolinguistica. La lingua è la
vita: le persone che abbiamo conosciuto, le esperienze che abbiamo avuto, le
nostre memorie, insomma quello che gli psicoanalisti chiamano il nostro vissuto.
Articolando ulteriormente l’idea,
potremmo anche arrivare a concludere che ogni narrazione di un narratore sia
una sua anima. Parliamo allora di quella che per lei ha avuto più successo, del
romanzo Sostiene Pereira appena ricordato appunto per l’opinione del
protagonista secondo cui in ciascuno di noi c’è una pluralità di anime.
Con
Pereira ho inteso disegnare un personaggio comune, contrassegnato soprattutto,
come per l’appunto è comune, da uno scarso coraggio nelle scelte. In fondo sono
pochissime le persone che riescono a scegliere alla prima mossa. E devo dire
che gli indecisi mi sono più simpatici, come credo lo siano a tutti. E però
Pereira è più radicale: non vuole scegliere. Ecco, volevo creare un
personaggio che avesse una grande ostilità nei confronti della scelta. E
Pereira è così. Lo è per suoi motivi esistenziali: non è più giovane, è
cardiopatico, è solo, è attaccato al passato, non ha elaborato il lutto per la
morte della moglie.
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La pellicola del 1995, tratta dall'omonimo, fortunato romanzo di Tabucchi
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Sembra però una persona che abbia
questa volontà di non scelta ab origine, infatti usa il ricordo della moglie come una tecnica di isolamento dal
mondo.
Sì il suo mondo è come chiuso dentro una palla di vetro.
E in quale senso
potrebbe essere una delle anime di Tabucchi?
Adesso
non saprei. Io in molte cose l’ho immaginato assai diverso da me, per esempio
nella sua sensibilità religiosa. Forse sono stato arrogante, io che non ho
nulla a che fare con il cattolicesimo; ma mi piaceva tentare di descrivere la
sensibilità di un cattolico, e di un certo cattolico. E qui torniamo al
rapporto fra autore e personaggio, perché l’autore inventa anche personaggi che
gli permettono di scandagliare l’anima altrui, di capire ciò che egli non è, ma
poi il personaggio cresce un po’ da solo, anche dentro di lui, e talvolta diventa l’autore stesso, magari
solo per il tempo in cui sta scrivendo quel libro.
Forse si può usare la categoria del «come
se». Il personaggio è per l’autore sempre un «come se».
Sì,
il personaggio è l’autore «come se», è una protesi. È l’autore che s’immagina di
essere se stesso e insieme un’altra persona. Questa finzione tutto sommato è
anche un’operazione di grande tolleranza: quando ci si sforza di essere quello
che non si è, si è portati a capire meglio gli altri, e forse alla fine anche
se stessi. È una strana ginnastica inventare personaggi.
È la strana ginnastica di Pessoa, che
inventa di continuo personaggi con cui si identifica o da cui si fa sostituire.
Ma, parlando di lei, sappiamo che Pessoa è intervenuto sul suo destino a Parigi
nel 1964 sotto forma di libretto casualmente incontrato nei pressi della Gare
de Lion. Dopo, questo poeta ha continuato ad agire per lei?
Ha
agito in due maniere. In primo luogo, come grande poeta. C’è una qualità
estetica dei suoi testi che lo pone a una grande altezza letteraria, al livello
poniamo di T.S. Eliot o di Eugenio Montale. In fin dei conti, egli avrebbe
potuto creare la sua impalcatura poetica, producendo testi di scarsa qualità.
In questo caso non sarebbe stato interessante se non, poniamo, per la psicoanalisi
o per altre discipline, ma non per la storia della letteratura. In secondo
luogo, Pessoa ha agito come attore di un’avanguardia molto speciale. Non si è
mosso sulla scena letteraria producendo manifesti con l’arroganza di passare
dal piano estetico al piano pragmatico. Come i futuristi per esempio, che
pretendevano di «futuristizzare» il mondo, e infatti intendevano avere una
cucina futurista, un abbigliamento futurista, un comportamento futurista,
insomma una vita futurista. L’arroganza delle avanguardie consiste sempre in questo passaggio dalla parola alla
pratica. Lo fecero, con segno politico opposto, anche i surrealisti, i quali
allo stesso modo volevano lavarsi i denti ecc. alla surrealista. In questo slittamento
della parola verso l’azione è presente, io credo, tutto sommato un certo
disprezzo verso il linguaggio o almeno una sua svalutazione.
Nelle avanguardie storiche sembra
infatti palese la tendenza, non solo a estetizzare l’azione, a dare valore
artistico a taluni atti pratici, ma anche a sottovalutare gli aspetti estetici
del testo scritto.
Nella
vita pratica, evidentemente, una realtà concreta, come per esempio una sedia, è
più importante di un testo, perché «esiste» di più. Beh, in Pessoa niente di tutto
questo. Pessoa si apre all’avanguardia in un altro senso: intanto, se la
costruisce in termini personali, tenendo lontano la propria vita pratica dalla
sua attività intellettuale e artistica. Qui somiglia ad altri grandi del
Novecento che hanno avuto una vita quotidiana comune, magari grigia come Kafka,
che era un impiegato delle assicurazioni, come Joyce, che insegnava inglese
alla Berlitz school di Trieste, come Svevo, che vendeva vernici, o come Eliot
che se ne stava in pantofole, quando non partecipava ai cocktail dell’alta
borghesia britannica. Tutte persone che non hanno mai preteso di investire la
vita quotidiana con i modi della loro attività artistica. Nello stesso tempo
Pessoa costruisce avanguardisticamente una specie di romanzo, anzi un suo
smisurato teatro, una gran commedia con molti attori, privi però del
palcoscenico, i quali dunque recitano il proprio vissuto, il proprio ruolo, il
proprio linguaggio, la propria esistenza non in un luogo visibile, ma nel luogo
astratto che è il teatro della poesia. Un mondo fragilissimo ma consistente,
come un cristallo, che chiude questi personaggi, i vari scrittori eteronimi di
Pessoa stesso, nella sua assoluta autonomia, dove ciascuno di essi non ha
bisogno di posare i piedi su un palco per esistere e neppure ha bisogno di
partecipare a una trama comune per dire che esiste. Infatti l’operazione di
Pessoa è radicale all’estremo: pone nello spazio astratto della poesia delle
creature creanti. Un autore di norma crea un personaggio il cui compito è
semplicemente quello di vivere, non di creare. Pessoa invece, ponendo al posto
dell’autore il personaggio e al posto del personaggio l’autore, a suo modo
risolve il problema del rapporto fra i due, un problema che è come un rovello
per il Novecento, su cui questo torna di continuo a riflettere e lavorare.
Ma perché, secondo lei,
il personaggio costituisce un rovello per il Novecento?
Perché,
forse, il Novecento è molto vecchio e gli è vietata l’ingenuità. Ci sono
quattromila anni di letteratura dietro di noi e questo non possiamo ignorarlo,
quindi la riflessività dell’arte sull’arte è quasi obbligatoria. L’autore del
Novecento ha questo peso o svantaggio o malattia, lo si chiami come si vuole:
gli è vietato essere spontaneo.
Ma perché questa
autoriflessività si appunta proprio sul personaggio?
Perché,
io credo, la riflessione sull’arte converge con l’altra riflessione sull’io,
sull’identità, che viene dalla psicoanalisi. Il Novecento fra l’altro si apre
con Freud e noi siamo ancora qui a chiederci se chi scrive siamo noi, se il
personaggio è lui o sono io. Del resto, in termini sociali il problema dell’identità
è proprio il nucleo della Modernità: significa chiedersi che cosa si è, sapere
chi è l’altro, sentire di appartenere antropologicamente a una cultura,
concepire la propria civiltà.
Pessoa dunque ci porta
a queste altezze…
E
tuttavia non lo si può proseguire. Ci sono degli autori che costituiscono un
punto di arrivo oltre il quale non si può andare. Ti offrono il motivo di una
riflessione culminante e inevitabile, con loro però la strada finisce: dopo
Borges c’è solo l’epigonismo, dopo Pessoa la proliferazione infinita dei
personaggi-autori, dopo Beckett il silenzio, l’acte sans parole, e anche
oltre Kafka non si può andare. Oltre quel tipo di scelta radicale bisogna
cambiare strada, occorre riaprire la partita.
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Un'altra immagine dello scrittore deceduto a 68 anni
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Ma Pessoa non ha a che
fare con il Portogallo?
No.
Pessoa è un marziano, un marziano paracadutato in Portogallo, dove anzi ha
scelto lui di atterrare dall’astronave. È stata poi la grande anima collettiva
portoghese che si è impadronita del suo grande poeta, ma lui non esprime il
Portogallo, salvo in un piccolo poemetto intitolato Messaggi. Viene da
un altro brodo di cultura, quello inglese, anche se tenta in qualche modo di
riappropriarsi dell’anima portoghese, ma con operazioni intellettuali che
rimangono intellettuali.
Lei come scrittore che
cosa ha raccolto di Pessoa, ne è stato influenzato?
Sì.
Allo stesso modo in cui Pessoa era stato influenzato, secondo una sua frase, «da
tutti gli autori letti». Vengo influenzato dalle mie letture. Però non saprei
dire dove e come. Io, lo confesso, in questo sono una spugna.
Ci sono degli autori
che ama particolarmente?
Ma,
non so… forse Gadda, da cui come scrittore sono lontano, poi Svevo cui invece
sono forse più vicino, poi Stevenson, oppure Flaubert… Ma, in realtà, più che
di scrittori io parlerei di libri. Singoli libri di singoli scrittori.
Sono dunque i libri che fanno la vita
di uno scrittore, quelli che legge oltre a quelli che scrive. Come si combinano
le cose che lei scrive con la sua vita?
Questo
proprio non lo so. In ogni caso, io non direi mai come il personaggio di
Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Come scriverei bene
se non esistessi». Per me, più si esiste e meglio si scrive. Dice Pessoa: «ci manca
sempre un bicchiere, una brezza, una frase e la vita ci manca quanto più la si
vive e quanto più la si inventa». È un ricarica continua. Un autore destituito
della sua esistenza non riesco a concepirlo.
E come giudica le
teorie letterarie secondo le quali esiste solo il testo?
Per
una scelta dettata dalla mia personale sensibilità culturale, mi sono sempre
tenuto lontano da quelle teorie, anche quando erano in auge. Non ritengo che un
testo venga portato sulla terra, non si sa perché, dallo psicopompo dei
neoplatonici. Un testo letterario a sé non si dà, dietro c'è invece sempre un
autore. Ora, chi sia esattamente questo autore, io non lo so. Ed è un problema
che un autore non si può porre, nelle sue mani diventa un falso problema che lo
conduce su strade false. C’è il pericolo di produrre letteratura che vive di
letteratura estenuata. Di per sé il problema è interessante, ma soltanto quando
lo si mantenga sul piano teorico.
Se ne potrebbe trarre una
indicazione: lo scrittore vive la scrittura, perciò non dovrebbe metterla in dubbio mentre di fatto
scrive.
Oggi
una critica fortemente formalizzata e un’altra fortemente problematizzata con
elementi culturali provenienti da fuori, come ad esempio la psicoanalisi e l’antropologia,
tentano di sciogliere questo nodo, ma se uno vuole scrivere, la cosa migliore è
dimenticarlo. È bene non radicalizzare i problemi, altrimenti il sofisma ci
strozza. Dall’altra parte, forse è bene anche non farsi attrarre dall’inventiva
mercantile dell’industria editoriale che, se vogliamo giocare con le parole, è
un po’ cannibale, prima li mette al mondo e poi se li mangia, i propri figli.
Il meglio è starsene per conto proprio a scrivere qualche libro.
Non vede nessun gruppo
o movimento cui appartenere come scrittore?
Forse
un coagulo interessante esiste, ma non è italiano, è internazionale. Si tratta
del «Parlamento degli scrittori» che ha
sede a Strasburgo ed è interessante perché il suo terreno è la difesa della
parola letteraria. Nel mondo spesso la parola letteraria dà più fastidio,
specialmente ai regimi totalitari, dei pronunciamenti politici.
E quanto ai regimi
democratici?
La
parola letteraria, che opera in profondo, è sempre altra cosa dal potere e
poiché la democrazia, pur essendo una buona organizzazione del potere, non è
mai perfetta, ma solo perfettibile, non è male che esista un osservatore
esterno del suo funzionamento come è la parola letteraria, perciò questa sua
funzione di sorveglianza va salvaguardata con grande cura. Funzione di
salvaguardia e di disturbo. Non per nulla Les fleurs du mal e Madame
Bovary vennero mandati sotto processo nell’Ottocento quando circolava
indisturbata una quantità di libretti pornografici. Chi parla in profondo dà
fastidio al potere. Non dimentichiamoci che Socrate è stato mandato a morte
dalla democrazia ateniese. ”
Ora,
dopo aver riletto questa intervista e ripensando a Tabucchi scrittore, mi
domando se non sia che, diciamo così, alcuni, con quella loro scrittura, di
fatto non muoiono mai. Per il nostro bene.
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