CHECKPOINT POETRY
CRISTINA VIDAL SPARAGANA
 


BOBBY FISCHER

 

                                        Dey’s two angels hoverin’ ’roun ’bout him

                                               One uv ’em is white en shiny, en t’other one is black.

                                               De white one gits him to the right, a little while,

                                               den de black one sail in en bust it all up.

                                              A body can’t tell, yit, which one gwyne to fetch him at de las’.

 

                                                             Mark Twain, “The Adventures of Huckleberry Finn”

 

I

 

Nacqui quando la grande dama nera

aveva un’anca troppo bassa,

da tramonto a tramonto e un sole stanco

affossava la casa. Fu mia madre

a piantarmi nel cuore un’ansia d’uomo

e a scongiurare il mio perdono, ero

già morto alle sue braccia, vivo

nella biografica empietà del vuoto.

La semitica cetra del mio naso

fuoruscì come un topo trattenuto

fra grattugia e sepolcro, fui sferrato

in una classe che di striscia in cifra

misurava gli idioti, ero nel primo

banco a sinistra della luce, c’erano

rare occhiate in penombra che svogliate

mi saltellavano alle tempie, quando

qualcuno alzava il dito io

lo catturavo nella nube chiusa del

mio bulbo sinistro, tra-sognato, con-

templato puntavo i remi a riva

delle mie scarpe senza suola verso

la sala che mi navigava

come una barca sulla faccia, io

la calma, la notte io l’attraccare

curvo sul tonfo mio cuore, io

nato in marca di confine, io

trascritto all’anagrafe col nome di

R. J. Fischer, Bob per gli amici e i non-amici per

i miei per chi sceso in tanto gelo

mi accendeva una fiaccola alla nuca

come un ramo di salice. Io, proprio

io lo gnomo il meticcio, il quasi-cane, lo

storpiato e l’immobile il ladrone la

corda e l’albero di Giuda senza

padre né gene io rovinato nello

strappo al soprabito, parola

che si torceva all’apertura, vi

rientrava atterrita, vi – di colpo – si

rintanava come una faina

quando il gessetto pizzicava un nudo

di chitarra e d’armonica e il Signore, il

rettore, lo zio, l’incappellato il

trombone e la tuba sentenziava:

il nostro Sacro Stato Americano

è il Migliore del mondo, e la sua Storia la

la sua Fede in un Dio formato a croce, il tac-

chino la guerra la Memoria la

la matematica e la guerra pura il

segnaccio sugli occhi l’arrossare

nella nota di biasimo ogni cosa ci

si legge sul volto, si! E fui preso ac-

chiappato a fiutare nei cassoni

il fumo denso di una Lucky Strike in

un giorno verdissimo, l’estate

che sudava i miei passi, s’incollava

a vasetti di mosche. V’era in cielo

un’alba grassa e strepitosa, sole

e bocca di lutto, pacchi, strade spaz-

zatura e grigliate insetticide. Chi

guardava dal forte davanzale

di una fronte accigliata, l’Uomo, pure

l’animale e il suo simbolo la sbarra

della galera sui talloni mi

sbatteva nel gelo della sala mi

lanciava alle spalle un’acqua dura, ar-

rabbiata di secchio. Quando a sera

una ratta scavata nei gradini

mi catturò nella sua fogna senza

cavalieri al di sotto senza pure

cartapecora e albore fu nient’altro

che pensiero svegliato nel pensiero

di un non mai contenuto mente-

catto.

 

 

II

 

E la Donna mi fu a ricoverare

una tigre sfamata, un sorso ancora

di pozzanghera e notte di

miseria. la

madre-madre la mia

mummy-mummy

trenodia di castrato suono cupo

di finocchio e di femmina lei aveva

aveva un mignolo scarlatto mi

mugolava sul banco, mi strusciava

sulle mani uno smalto da paura. C’è

negli occhi di tutti come un raglio di

di somaro, la luce di una lega

di ferrivecchi, un morso caldo al freno, un’un-

zione di pelle una stoccata, un

ovario a sinistra c’è la mano

sul balcone di latte di una madre. Mi

inoltrai nella pioggia, fui strozzato

da un’acca quasi sospirata, reni

di cavalletta per tentare il volo di-

vorare la scorza della preda ab-

buiata sull’apice ma allora

ripiombai tra visioni sotterrate

in altra calce, parti di maiale

a salare sui ganci, forma, odore, una

stella di piscio quasi d’oro

che centrava il muretto, sobbalzava. Io

il pianista, tempesta di dentiera

sui tasti appena sprofondati, stavo

in punta d’acciaio, martellavo, di-

sossavo una musica cresciuta

in abbraccio di lampade, falene

come ventagli di zitelle a

ridosso dei letti, del sospiro del-

la bibbia e del calice. Io io

io-me a cui i gesti erano tolti solo

una voce a metà che s’ostinava, s’av-

ventava al berretto tra scolari tra

direttori secolari tutto era

voce obesità marciume  

freddo freddato gelido

aspettare.

 

 

III

 

Sognai una torre, un’alba,

alta, battuta

nel rumore del muschio, verticale

e sfoderata a raggio nuovo, naso

di pietra a tutto sesto, solo

un setto nasale che scuoteva

fionde su fionde deformate e ancora

il brusio della scuola che affannata

mi appendeva alle labbra lo spaurire. Iso-

lata di polvere s’alzava, si

drizzava alle taccole, tremava de-

clinava maestosa si colmava

di raduni e di sguardi fatti come

belve a ponente. E allora a poco a poco

m’inerpicai, cervello tra le tempie, mi

levai nel fragore, mi costrinsi

ad allungarmi dilungarmi come

un caprimulgo un punto esclamativo un

cappello di raffica ed allora

un gran dixieland d’anime mi giunse, sus-

sultò in cupa altezza, respiravo grandi

denti bianchissimi in un negro di

carbone e turacciolo, un sorriso

di lustrascarpe di virtuoso che

mi suonò mi guidò su chiare

nubi.

Io

sospeso all’incrocio, io che picchiavo

su una calma altitudine, sembravo

un dio che ancora non cadeva che

s’affrescava nel bilico, e di nuovo

io R. J. Fischer cominciai a salire io

salivo io d’un tratto m’innalzavo

a un manzo appeso a un chiodo duro, mi

scostavo alla luce. Fu un cammino

senza rotaie, senza freni, senza

posti di blocco e doganieri ma

ne percorsi i papaveri, il crudele

belvedere di sagome, le tante

pieghe di muffa, i colpi di fucile. Poi

sputai sul mio foglio, poi il teorema la

la teoria mi scaldò nel suo colore

come un vessillo rosso-fuoco, ipsilon tristi

sciami di sentieri

uccellacci di virgole binomi,

macchie e potenze cifre-cifre, cifre

di nevischio e di martiri, moicani

costretti ad argini di rame, di

povertà, nudità, tende, necrosi,

nomi a tempo di pietra di svaniti

necrologi a cappella di cattivi

e troppo eroici troppo eroici amici, c’era

una freccia nell’ampio rinselvato

margine in-quarto del mio foglio una

dura maiuscola di croci,

un’x per sempre ripetuta, un solo

atterrato, preciso, grande zero.

 

 

IV

 

E un Tale mosse al mio venire, sorse

al riparo degli archi, alto, sottile, di-

noccolato, quasi nato da un

arto ancor vivo che scerpava in aria

un mal di capo erto di napalm, si

slanciava si quasi trasversava

verso ciò che all’interno rimaneva

senza fiato né vita, un imboscato in-

fiacchito buffone un assassino

che mi percosse m’inghiottì le dita mi

accese un ringhio sulle ciglia. C’era un

forte bollore di cucina

economica e sudicia, e poi c’era

un capodoglio-un-capo-d’aglio c’era un

gran spogliarello di cipolla un’acqua

torbida e fognale, la

gallina buttata a dura cena.

 

 

V

 

Siete mai già vissuti in una casa

fabbricata sui cavoli squadrata

tra branda sporca e mutandine, siete

mai entrati siete capitati come per

caso dietro un assonnato

funerale di sedie rose fiori tazze

da tè col braccio in aria tra

sonnambuli d’angolo vi siete

mai rannicchiati sulla stufa, al grano

di una tavola a festa? Io

cambiai alloggio io mi spostai io pure

smisi numero civico, cognome-

targa di marmo-via-indirizzo (solo

un morto stecchito porta il nome

sulla targa di marmo) e cambiai strada, venni

a un altro annebbiarsi dove ancora

nuovi bifolchi entrano al ballo e

i cespugli le siepi i barboncini e

le uniformi dei portieri e i lunghi ro-

dodendri si stendono nell’oro

in eccidio di nuvole, e

una piuma di Dio torna alla notte

sazia di fragili confini e l’altra

sbianca in gelo e unità completa, pura, priva di

polvere non mai violata, im-

pomatata, tratta da segnali

che resistono al vento dove-dove

l’orologio è un bracciale e per davvero

non vi sono più penne e il bollitore

non ha mai fischiettato come un uomo che

esce sbronzo da un bar.

Io dunque, io solo, io

R. J. Fischer io figlio-senza-padre io

sacra prole io quasi bestia nera venni

alla casa di soppiatto mi

inoltrai nella casa vi sommersi

il fil di spada il legno del crinale un

pugno un piede un calcio di pistola un

cammino e un bivacco. Giunsi infine,

giunsi ancor verde nella casa-casa.

 

 

VI

 

E un sole giallo mi sbrinò il cammino e

la mia testa reclinò furtiva

a un ruggito di sbarre, svolazzavo

di dimora in dimora mi stendevo

su guanciali sfondati, ritornavo. Sì

e me ne andai lungo mia madre, chiesi che

indietreggiasse mi avanzasse mi

togliesse al suo giorno la smettesse che

la smettesse la piantasse -dico- di

di colpirmi alla schiena di tuffarmi

le mascelle nel kosher mi lasciasse

ai miei gesti da prode ingigantiti e

a più grandi calzoni. E allora e allora

lei s’impalò lei se ne stette fiera in

un buio di femore e d’un tratto

i guanti stretti alla maniglia mi

s’incollarono sul naso come

due etichette di birra.  Quando

quando

quando questo successe io ero in camicia con

il colletto sbottonato, coi

calcagni piantati congelati nel-

la vasca da bagno e c’era c’era

un filare di stracci alla mia destra e

il quaderno di verbi era vicino

alla sagoma a letto e lei, la vera

mater familias lei la chiara sposa lei

mi chiese mi chiese mi richiese mi

scongiurò quasi implorò, mi fece:

dovrai passare sul mio corpo – m’in-

vocò a piena gola il pellicano re-

cidendosi il collo mentre il sole

era ormai rosso di canzoni e tutto

tutto in giro gridava e strepitava.

Lei si mise due pillole nel seno lei  

la consorte l’anima preclara col

sorriso all’ingiù la scollatura

di balena essiccata coi suoi duri

tagli di lapide e d’insonnia, la

donzella, la bella d’Alabama, la

non-sincera maritata, la

concubina la furiosa blusa.

Penetrò nel tramonto – si tastava

l’enorme-mento, la collana di

madre-uccella d’infermiera a

ginocchioni su un malato don-

dolando provava e riprovava il

suo pane di ieri il caffè amaro.

 

Mi venne incontro, mi chiamò, m’arrise,

mi sorrise, mi rise, si appuntava la

magra perla che l’univa infine

a un discendere d’omeri, a un profluvio di

gridolini di giubilo, al delirio a

un pieno casto abbottonarsi, l’a-

spirata ashkenazi la matura

stradaiola-strozzina. Ecco,

e la curia

pullulava a quell’ora di fedeli

sudici e madidi di notte – poi

venne il Pastore venne il Cappellano

in picchiata e grondaia, sfoderava

un’omelia e una tosse erbosa, nello

stormo dei pollici macchiati dentro i

panciotti zampillava-c’era

un messale un gran coro di persone

già vestite sul giorno e un quasi Führer

cominciò a declamare il suo sermone

braccio in avanti come un palo teso a

sfondare una porta, dentro il tuono e

nei giorni avvenire nel castigo sin-

cavernò il pomo d’Adamo si

compose latrando, fu sul serio

alba e mandibola stizzita un chiaro

cromosomo di pioggia, di furore.

 

 

Sottratto all’arca e al cadenzare, giunto

a un unico palpito, foggiato

da pasta e zangola terrena nella

Chiesa di Dio grande Gentile spro-

fondato allo scempio di ogni Uomo

maschio e maschia, da sempre de-

portata confinata costretta esule viva ab-

baiava abbagliava si stagliava

sul sagrato deserto rovesciava

spallucciava spargeva il pane e il vino.

 

Quando verso Getsemani di sera

Cristo chiamava nel grembiule, e-

vocava alla cena, predicava

è pronto-vieni-si-raffredda-è-un’ora

è da-un’ora-che-sudo-che-cucino, lo

strofinaccio e il detersivo, il suono

della tumbalalaika, lo stonare, l’is-

teria del grammofono sorgeva mu-

sicava strideva si levava a Cafarnao. Risorgi.

Io

mi dispersi io mi sorpresi presi

tutta per me la sua dolente molle

diacronia d’ombre e soluzioni, scesi

a un gran vespro di numeri, pregavo. E

lei l’esclusa la lanciata in aria dalla

mia camera da letto dal-

la camera a gas, dal terminale

di Bergen-Belsen si curvava stava

con il becco a levante, col soffrire

duro in corsa di doglia di svociata

contenzione e acqua pura. Quando

il chiaro di madre, l’Assassina,

la Conversa, la Monaca, la fiera geni-

trice violata, la Marrana,

quando la donna-fatta-donna colma di

parti, mi porgeva invano mi

tendeva l’artiglio e il borsellino e

un quattrino usurato ed io partivo fra

negozi all’ingrosso e domandavo chie-

devo burro pasta all’italiana

pane e salsicce di tacchino, Lucky

Strike senza filtro, una dozzina

di liquirizie, scaglie di sapone, poi

tornavo da Lei, la grande, trita

polvere sparsa a partorire, la

vedevo ficcare tra le case la

fibrillata austerità venire

quasi zappando a sfaccendate cose.

 

 

VII

 

Mi

generò

in in-definito nulla.

In un vaso da notte fui sgravato

come in altro orizzonte costeggiato

da stella a stella, chiuso im-mortalato

nella sua ragionevole statura.

Dallo chignon nel pieno del mattino

il fermaglio si morse mi comprese

in aleph arruffato mentre il gelo

mentre il gelo spiegò nella mia voce

la fisarmonica del non-mai-dire, il

non-detto e il ri-mosso, l’espressione

azzimata ai capelli la parola

la non-mai-pronunciata, la felice

l’ancor di più domenicale danza, mano

alla milza mano come

se una gonna si alzasse ad uomo infame, tem-

perata e inflessibile, flessioni

tute-grembiuli, sottovesti, peli, un

tifone verdastro di forcine.

 

 

VIII

 

Il momento più tragico, la sera:

coricarsi alle dieci in estenuato

addentarsi di spettri, una

sveglia comprata giù all’emporio, una

testa a battesimo, un pallone

affollato di lampade di grida di

gufi bassi e trasognati, l’e-

sattezza del sogno, la visione la

pre-cisione, la com-putazione l’eco

di un no sotto la spazzatura.

C’era un cavallo dimezzato sulla

mano sbucciata del nevoso uomo

del latte e c’era-s’intuiva un

attendere un grigio intirizzire

secchie in forma di zufolo un tradire

la scorreria meticolosa il fiato uno

zoccolo dentro il capezzale e

in un gran spezzettarsi di pensieri un

tossirsi nel pozzo delle mani e

dappertutto un respirato unito

prato di groppe e di battaglie una

sbriciolata pentita ultima-cena.

 

M’alzo e un solo rettangolo di luna

sorge a buccia d’arancia sembra pare

metà bistecca e metà pesce, mi

risdraio su ciò che si rimane di

un inverno impagliato di un’inquieta

spremitura al guanciale. Esco, e il fetore

sbuffa al getto dell’acqua. Penso. Prego.

 

 

IX

 

L’alba è un succhio di brandy è digestione

una veste al ginocchio è uno sfrenato

applaudire di palpebre una vaga

ansia d’entrare-e-non-entrare è

dovunque, si abbatte, si rovina, crolla

in testa ai passanti. poi di colpo

s’avvicina si piega ai sicomori.

I tubetti strozzati strangolati dei

dentifrici al mentolo sono appena

tratti alle lucciole ai lampioni alle

cacche dei cani, e io vado

vado.

Torna il lattaio e quella grande specie

di cavallo lo incalza lo strattona ne

risale la quota lo spintona

traccia un’elle di pergola lontano

lustro-lento-laconico-lanciato

lungo l’ombra lucente lu-

minoso o nu-minoso non saprei, lanoso

luccicando latente lavorato

da focacce di vomere lor-dato,

tra lo stallo e il fienile, la-minore

d’una bestemmia d’una

cantilena la

 

 

                    

                     di

                     le

                     gua

                     ta

                     di

                     le

                     gua

                     ta

                     fie

                     ra

                     bal

                     za in vento e farfalla

 

 

si dilegua si

si sbruciacchia nel ferro al sasso al fioco

sgambettare dei tendini. –Il mattino

somigliava ad un pugile suonato,

un occhio aperto e l’altro nero, sera

sull’occhiaia abbuiata sul tampone

al tenebrato tenebroso muso. Era

un ex-campione da galera, un gioco

di contagio raffermo non

vedeva più nulla, non sapeva

l’abbassarsi del destro, lo svanire al

di qua dei presenti, della bava,

nella gran notte fatta a braccia, il lampo

del contare i minuti su sentieri

di bikini cartelli riflettori.

 

Io

da quando ero nato ero caduto

dalla piccola borsa-alligatore che

strisciava alla coscia di mia madre, mi

facevo la barba mi nutrivo

di silenzio e di giacche non sentivo

altro che il lezzo e il ridacchiare, lo

sporco dei calli sotto il banco senza

calzini senza cuoio senza

lacci e tacchi alla moda, lancinanti

blues di sassofoni che mi sturava mi

sturavano il fondo degli orecchi mo-

tivetti cantati a mezza voce

da Zio Tom troppo pallidi e un mattino un

mattino ci venne il direttore

alto roseo possente, il tutto-grande

uno sparato di velluto un nuovo

quasi  modello di camicia scura mo-

danata e fiammante, ci pareva

un DioCristo, un Rock Hudson, un Bobby Taylor,

un Ricky Widmark, o giù di lì, portava

i pantaloini col risvolto e

agitava nell’aria un fustigare

di cotenna sgozzata. Stre-

pitava e de-clamava e predicava il

tiranno dei secoli il becchino

il rabbino il pastore l’eresiarca,

l’inesorabile torturatore,

il compagno di ballo delle madri

e delle femmine ingabbiate. Stava

sopra di noi come su un campo intriso

di lanugine e sangue, ci guardava

ci adottava, ci-forse-ci-nutriva ci

castigava insudiciava il viso

di pallottole e frasi, d’equazioni. E

nuovamente l’occhio dritto all’uomo – E 

nuovamente-nuova-mente-mente

strisce di pelle allo schienale colpi

di cotenna e di mastice, nell’aria

nell’aria marcia d’attizzata igiene oltre

il fuoco e i lillà lungo il sentiero

sgangherato dei poveri.

Ar-

roccava.

 

 

X

 

Ar-roc-cato. Lo vidi che arroccava.

Tra la cattedra e l’uscio, fermo, preso

in estenuata esitazione, in-

gobbito, l’elastico turchino che

stringeva la manica

chiamava i nomi ad uno ad uno si

scansava il tornado dagli occhiali, sva-

niva in fitta tar-ta-ruga, ci

tar-ta-gliava ci-ci-minacciava

ci mitragliava con un lungo dito

tramontato sull’asola, fis-    

sava ci fissava, ci-forse-giustiziava

al di là della cattedra, severo

boia e goliardo lardo al cinturone

in gran parte a-semitico, dal fiume

della narice dilatata, dal

cammello sul naso dal soffiare

tra l’oriente e il deserto. Stava. Stava

sopra di noi, l’ebreo, l’aspro pastore

il razziale-esemplare americano lo zio Sam

degli idioti, il missionario con-

fortatore-conversore-stava

riformato, pietista, luetrano,

l’uomo del ku-klux-klan col suo cappuccio

di pierrot funerario – stava-stava

come un prete apostolico o uno schiavo,

lui, il vicario, da sempre il sottoposto

del vicario medesimo, un perverso

domatore di maschi e di leoni,

d’impiegatucci e d’assicuratori, ma-

lediva Canaan, svettava. Stava.

 

Così, e d’un tratto, a poco a poco, si

slacciò la cravatta, ora sembrava

un pollo stretto fra le cosce, prese

raccolse cicche e mozziconi fu

un istante davvero molto  

lungo.

Tacevamo, le mani al loro posto sui

geloni e sugli alluci, i duroni, un

cin-cin-pollice-d’inchiostro si avvertiva

nel gelo della sala

un brindare di caccole. E lui, il degno

Custer-Lincoln-John Brown, l’enorme Sire

dal gessetto sul mitra allora allora

si strozzò, affabulò, parlò di nuovo la

la mano al cuore l’inno nazionale, tra

proiettili in piedi, len-ta-mente

si tolse il collo dalle spalle si

sfilò lo sparato lo ripose l’ab-

bandonò sopra una sedia, ci

guardava dall’amido tarchiato

che splendeva al rovescio rivelava

il suo uomobianco di torace, uno

scalpo, la foce delle rughe il

mastino nel corpo un tra-

sudare.

 

Lui

lo zero spaccato la sordina

la ramanzina la furiosa prece un

bubbone di piombo, una verruca

vendemmiata in battaglia. Ci

guardava in silenzio ed era era

era in maniche-adesso-di-camicia

di camicia ed elastico, un crudele basso-

rilievo e palpito d’Adamo, un

respiro tra gli alberi, un fuggire

la pelliccia di martora il tamburo del

Tramp tramp tramp the boys are marching, marching

To arms in Dixie, Rose of Alabamy,

una zattera al sud, una cabina

di negri buoni e sotto pelle un grigio

non-ancora-visibile all’assalto ciò

che restava che rabbrividiva

nella sua cinghia chiusa in vita di

sceriffo e di ranger steso al sole

come un lenzuolo ad asciugare. Ed era

grave e madido d’aliti sciamava

su di noi come un mucchio di giornali come

un berretto da strillone come

una grande divelta

zanzariera.

 

 

XI

 

E tutto tacque e fu dannatamente

strapiombato formato nel

tacere.

Fu una cai-cai di bastardi, un fuggi-fuggi

dai lavori forzati, ma dapprima

il viso gelido fioccò stappato

come un fiasco di scotch qua-quasi come

se un oste obeso, un lurido ciccione

la matita all’orecchio col suo pure

ventre gonfio di mance ci servisse il

tovagliolo penzoloni e

una folgore d’aglio lo tagliasse

in due humpy-dumpy solitari e ancora

un prosciutto salato grande appeso si sfi-

nisse con lui sotto la ghisa.

 

 

E discese. Discese. Sì, discese.

Penzolò. Rimbalzò. Mutò colore

e ci guardò dal punto esclamativo

del neretto sull’indice la sala

che s’imboscava che si sgretolava

in macerie di fuoco, ci pa-reva

che la cute cascando si svegliasse

di gallo in giallo ed era forse appena

ora appena più elastica più tesa

tra spruzzo d’Atkinson e rasoio su-

gli zigomi epatici era-ora

una polpetta masticata un viso

appoggiato alla faccia un’espressione

di commiato e di rabbia, muta. Muta.

 

E looky here noi tutti Tommy Sawyer

lo vedevamo e lui si fece-rise si

si fece maschera e pugnale più

nuovamente se-vera

vera

vera.

Ora simile a un manico di scopa tra

Pixie e Dixie  un calcio al predatore

fitto in ciò che restava rimaneva

della zia cara ai suoi cerati, alle

linde tendine ma davvero

davvero forse non-inquisitorio come

dire svuotato vomitato  

dalla sua stessa austerità. Sicuro.

 

 

Poi la calvizie luccicò, sembrava

che tutto l’oro dei confederati

luccicasse granitico arancione su

quella biglia senza occhiali, prima

ancor unta di caffè sudata

come ascella di donna che s’ergeva

come piena corona, un animale

colto tra porpora e ermellino, una

cotta d’armi via via più luminosa.

   

                     EDORA  

                     EDORA

                     DALLO

 

scempio infame ora

sfuggì smagrì si fece crudo come

una fitta di dolore un

musetto da preda un breve acuto mon-

cherino di pelle una guaìna

un’unghia un tremolo steccato un fiele

di radice purissima un puntale

di foruncolo e lebbra di solare

scorticata corteccia, un grande

tuono.

E sgorgò, si stagliò, divise il lume

in mezza-tacca in mezzogiorno in fuso

d’arcolaio e di tenebra discese

scese dal monte si compose il roseo

scamiciato ma adesso forse infine

ricoperto di gemme

Re  

Sovrano.

 

 

XII

 

Tutto l’acciaio sfolgorava, c’era uno

zittio verminoso nella sala

spintonata premuta sfaccendata af-

faccendata di-sarticolata c’era uno

sgorbio alla lavagna una

caricatura col pancione c’era

un segno di gesso rosso cuore.

La scolaresca fece largo- si

separò in due parti di colore, gli

sgobboni e gli inutili. E, vedete,

qua i pezzenti là i ricchi, qua i servili

e là i superbi, qua i bianchi là i ne-negri

gli ebrei e gli ariani, i quaccheri e i crudeli

anglicani d’assalto, i maccartisti

e i comunisti, Sacco-con-Vanzetti i demo-

cratici e i repubblicani, gli italiani e gli wasp,

gli inquisitori e le streghe di Salem, i ce-

censori e gli anarchici al rogo e sopra sopra

alto di cattedra sorgeva, muto

il Signore venuto alla

cattura. Il Re

schiomato, lo schiomato

ovale.

Tracce di uova e pedicelli, di

dopobarba, di diamanti, strali. Ci

destammo di colpo, ridevamo

schiamazzavamo alla sua volta, vòlta

la faccia alla paura, ci

stringemmo alla cattedra, ci-forse-ci

asserragliammo, ci schierammo, fummo

ri-partito moncone, pezzi bianchi ne-

ri e cianotici di male, nero

e bianco a sua volta. Eppure ancora nel

ragliare festoso rivoltati

a terrore di circo giravamo

da campanello a scudisciata vinti

flagellati da bocche di pistola.

E all’improvviso tutto scolorò:

luci, lampi, riflessi, rifrazioni,

trasparenze e bagliori, iride-

e-scienze, ogni

cosa si perse, si confuse,

si mescolò, franò nell’in-colore

nell’in-distinta gradazione, ci separò

ci separò e ci scisse

in due parvenze definite si

dissolse si sfece si disfece

in cadenza cromatica, assassini,

mezzogiorno di fuoco, ultimi spari dis-

solvenza e caduta-bacio-

fine.

 

E fummo-fummo

fummo con cautela

due estremità sull’aggiornare, solo

notte e lucerna, noi s-solo

luccio più luccio fiamma e interruttore,

due barbagli, due inizi di canzone, una

troppo sguaiata una più austera

a contagio di diapason due lune

due si due no due colpi sulle orecchie, rin-

tronati gridati stralunati, e

finalmente due potenti, fissi

mugolii di trionfo:

il Bianco e il Nero.

 

Ci rampognò, si eresse, prese al volo

la parabola il lancio la fatica le

sue lenti da presbite. Strillava

come Ahab o Caruso: Sale! Sale! O

Sole-mio, Torna-a-sorrento ci

ci diceva a-mumbling and a-growling,

non-sudate-non fate-non-puzzate-non

vi-muovete-non-pisciate-siete

una ciurma d’incapaci non

conoscete né la disciplina, né l’inno o

il salmo del perdono gli at-

tributi di Davide. Vedete

quest’oncia d’oro questo cielo oscuro

d’affogati e di lacrime che fate

che fate-dopo-marinai-ammainate? Si

accigliava e stancava, si riaveva

come un lazzaro tiepido, legava

si riannodava si stringeva-si-la

cravatta alla gola, ci esultava. Poi

 

bestemmiò e ci disse: siete nati

per zappare la terra, non avete

punte di lancia scarpe di vernice che

cosa fanno i vostri padri sempre

che di padri si tratti e non di spuri

violatori di madre. Io sono. Io sono. – An-

naspò tra le folgori –  Io sono.

Ego sum verbum. Il numero infini-

to infinitesimale. Io-sono-io-sono

un marinaio un capitano un sire un

padre un fabbro il primo maggiordomo

il deus ex machina, lo chiaro acuto

trombettiere alla carica il mortale

il battitore la difesa il fuoco. E

se ne andò divino, luccicato, 

cigolante e magnifico, sublime, con-

fermato nel Giorno del Signore. Il

campanello ruzzolò ai suoi piedi

come un uccello in bocca a un gatto, lui

lo scalciò con rogna di stivale.

 

 

XIII

 

Ma un giorno uscii dalla mia pelle, uscii

anzitempo da quel non riverito

ognissanti-cancello della scuola mi

guardai in uno squarcio di cornice

dal fondale appannato, mi

slacciai i ventricoli dal cuore mi

presi il sangue tra i gomiti distesi

la mia tiepida riga di pigiama

nell’incendio dei morti, mi divisi

tra faccia e faccia, tra sor-riso e riso, mi

guardai e mi guardai, mi-finalmente-guar-

dai dritto nel cuore e risi risi

un ghigno proprio da marpione feci il

buono poi il bravo poi il cattivo poi

di nuovo il bastardo il

buono-buono, feci

smorfie e boccacce, feci ancora

feci Frank Miller feci Gary Cooper mi

sfilai l’anima dal corpo come

una lumaca dal suo guscio: polpa

carne escrescenza naso muco

anima in fiamme e pendolo di vena

sfoglia e catarro, lungo gocciolare

di un gran cleenex di lacrime mi alzavo mi

sorreggevo mi tenevo alzato

detto in poche parole mi

levavo. Ero

un’orma di cagna ero un fiutare

tra crosta e zampa ero davvero un grumo

di ferita umidiccia io sì l’untuosa

fissità oscena del salame: un

occhio bianco e l’altro già incielato

nel kajal senza pupa, un occhio solo

bianco bianco rotondo cristallino

come fiocco di neve l’altro scuro

come sterco d’erbivoro da un lato

un candore di madre un detersivo

un colgate fortissimo dall’altro

dall’altro un pettine sporcato su un

acquaio che zoppica centrato fra

il lago Michigan remoto, chiaro

e una pozzanghera di Brooklyn.

 

Mi

sedetti, contai casa su casa,

stanza su stanza e ripostiglio, c’era

giallo d’urina contenuta in

afrore d’equino, un cesso-un-chiuso, un

raspare di zoccoli, sospiro

come di cuore che riposa, la

Regina porgeva l’anca dura

a un viavai di ramazza lei puttana,

meretrice-baldracca-ape-regina, ge-

nitrice di femmine, fenice. La

Regina sostava, stava-stava

al cospetto del Re, lo-senza-nome

scopiazzato all’anagrafe, pendeva-mi

cadeva dal pollice sudavo

da parte a parte mi sbattevo dietro

spranghe e mandate porte alla francese zan-

zariere e battenti arrugginiti, l’a-

pertura, provavo

l’apertura.

Io

dominavo-lo-sfondavo io

lo forzavo alle vertebre, io la-travo

alla catena come un cane io

strillavo: Occupato! nel mio grigio

separé d’omicida, io lo spingevo io

spingevo-lo-sì-lo scantonavo.

Ora non c’erano più porte, non

ci stava un bel niente, non restava-

no più lucchetti né cardini, non c’era

un bel nulla di nulla. Io solo, io solo

io solo-solido nel mezzo, io ramo,

muro portante muro divisorio

cesso sempre occupato io solo solo

io R.J. Fischer, zanna-bianca, Moby, mi

parai sull’in-fondo la colpivo

pugno su pugno sulla faccia, lei

mi stava davanti, germogliava

dalla sua spazzola essiccata come

arsura di campo un rovinare

di capelli e di zucchero fra i molti

bigodini afflosciati quei cafoni

ciuffi rotti alla lacca. Mi-mi dava

lacrime e tette, colla da raschiare

d’uova fritte e d’aringa tazze nere

di nescafé e di mozziconi, pieni

ovari sommersi a breve sera.

 

Esci!

le-dico-le-ripeto fila, portati

dietro la non-porta la

platinata sfiancata erta

maceria. Vi

sono case popolari vi

sono ostelli e ricoveri campeggi

governativi e non governativi

sale d’attesa e pensionati posti

di blocco campi di cotone

case di cura lebbrosa’i ospedali ti

troverai dannatamente bene. Lei

mi guardò lei mi guardava le

cresceva sul capo le affiorava

una breve fuliggine un giallore

di gallina spiumata, poi un’accesa

messa in piega alla moda un sordo un duro ri-

suonare di bambola una spiga

ancora un’acqua ossigenata un biondo un

crudele sbeccare, un alto grido.

 

E si prostrò lei fece fece fece per

sbaragliarmi sugli occhi anche sferrare la

camicetta di flanella come

un pugno allo stomaco, curvata

nel tutto-sesto dei suoi fianchi, mi

sbalzò, stava ritta nell’androne

gamba e smaglio allo stinco, moccio, fiore

tra quadro e quadro dentro il fazzoletto. Quegli

zoccoli e no nei tacchi a spillo, il sempre la-

mentarsi sul dorso della mano, il

nitrito e la greppia, l’oscurato

semitismo-scientismo-va’-a-dormire,

dammi-a-lavare-le-mutande, va’

a-infilarti-la-maglia-a-strofinarti

dietro il collo e le orecchie – di’ al rabbino

di’ a tuo padre-non-padre di’ spergiura

la torah e il parrucchiere lo strigliare

dello stalliere la sua vulva

ariosa e

era freschissima-appallottolata

in un crespo da vedova, di-appena

divorziata stupenda. La scian-

tosa italiana-teutonica-l’inquieta

suffragette londinese, fu da brava

fin dentro l’utero dorata amara

falba baia pezzata

tutta

chiara.

 

Ma

io la respinsi, la costrinsi-misi

dall’albume dal talco nella sera nel

deodorante nella cipira-cipria, io

sbattevo la porta io le gridavo:

non c’è posto per uova nel paniere, non

c’è posto per donne senza uovo-senza

uomo-marito, senza albume

ti-do-le-dissi-tre-secondi, sono

stanco di te e del tuo fottuto “dico”.

 

 

XIV

 

Quella fu la mia prima, empia apertura:

la più maestosa più gloriosa più

sovversiva corrosiva anche

forse più sudicia, mi ero

sbarazzato di lei m’ero sfilato

le sue pieghe scozzesi dalla testa. Ero

solo e composto, ero nel mezzo

di un cantiere o una fabbrica, per sempre

abbandonato forse smerigliato

nella Ford nel garage nella tormenta io ero

tutto svelto a cercare la mia pace

profondandomi in alto, nello zitto

zitto convoglio, io quasi mi estendevo

in un vuoto di gronde, nella forse

colonna a punta dell’iniquità, io, l’iniquo  

io, il giudice di Salem,

il Geovita di fuoco,il Torquemada,

il più spietato mozzo-cavallaro, il

nemico degli Okies, lo scudiere

più crudele del mondo, più sospeso

in dogana e pallottole m’alzavo

tra bifolchi e cornacchie, m’adombravo

di starna in starna, di detonazione

in esplosione troppo fitta, mi

staccavo, salivo, m’assalivo

in ascendente, dissestata ascesa. Io

salivo gittavo

m’intorravo.

 

Come se la nascosta orfanità

del precipizio del prepuzio come  

se il prepuzio il sigillo la sutura

sui calzoni strappati se il calore del

sangue a picco dentro i cani il

traboccare del lezzo, lo scrostarsi

nella vasca da bagno se un toccare

come di dito d’esitante dito

si bagnasse nel colmo d’una veliero di

di tormentate rovinate

tacche. E

furono allora squarci trafitture

che misuravo che sferzavo, che

sbarbavo tosavo tonsonavo

passavo a filo di rasoio, per

altezza di scapola tra fiumi tra

proiettili e fiumi, tra letali

pietra genesi e morsa anse di lupo

io m’affamavo – io divoravo vivo

la nonnina sul letto nel salire tra-

salire a sgomento di bastioni.

Mi

comprai muro e scala, io-mi-compravo

l’entrata, il parco-e-la-veduta, il fumo,

la cicogna ammalata, il fuori-scena

dei gabbiani e dei fulmini, sterravo-io

macigno di dolmen conquistavo

l’orco e la donna il verbo allucinato il

boicottaggio e la segregazione, io

dominavo l’afrore dei cavalli e

il grattare rapace nell’in-nulla

nell’innullato l’annullato viso

il sogno, un cent trovato in strada, e ancora

il coupé, la berlina, il fuoriserie, il

distintivo stretto in mano il fiero lo

scelga-questa del rivenditore io

come Aronne l’ampio l’assoldato logo-

pedista del buon dio e

d’Abramo.

(E intorno martiri vestiti a lusso con

brillantina alla scriminatura e

intorno-rombi-di-motore-e intorno

il vegliato ritrarsi del mattino).

 

 

XV

 

Il sogno è un urlo, è un lampo di quattrino

lavorato e battuto tra fucina

e fucina di palpebra, è un’immensa

costura d’anime e di morti, l’uscio

appena sprangato d’un falsario, un

pagliericcio d’oche d’oro, l’e-

tichetta del prezzo, il rosso acceso

sui dorsali di un’anatra di-

visa in due parti di terra per Natale

Shabat e Giorno del Ringraziamento. È

un rettangolo fragile è un trapezio un

trapezio da circo da-sì-dove

si piomba sempre senza rete è un

turbarsi da sveglia un trasalire un

cacciarsi una palla nella bocca.

 

Oltre la scuola, oltre i mattoni e i giochi

le mezze maniche le gare-gare

nei campetti di base-ball, tra i cantieri

e i grandi silos addormentati, nel

quartiere South Loop, tra gli ospedali-

-tutta la terra è un ospedale- tra

le canoniche, i cortili grigi, tra

i tuguri di fango dove dove

sono cresciuto e poi di nuovo Brooklyn

- Broo-klyn, simile a un suono di ukulele-

negli incavi nell’erba, contro i moli

dei run-off niggers, dei portoni chiusi

nelle stanze a due dollari, ai soffitti

dei granai e delle chiese riformate,

sui camposanti spigolati a ceri, sui

colletti dei parroci, i locali

delle decrepite congregazioni, io

sospinto dal sangue galoppavo,

io cavallo-bicipite-animale

di piedistallo e voce-nella-biada, sca-

valcavo i perduti gli insicuri

gli straccioni e i bocciati gli stranieri cal-

pestavo pestavo sverniciavo

scarpe e mazze di gomma, discendevo

io-cavallo-abbattuto ampio ronzino, ri-

produttore corridore io

signore stallato alto corsiere,

caracollavo nel letame mi

porgevo alle nuvole sbuffavo

trascinavo carcasse io raggiungevo io

driver-fischer-sire-pescatore, es-

tenuata pariglia io solo solo

nella mia casa abbandonata dove si

scappellava la pentola e le donne

raffreddavano lacrime io

tacevo regnavo io mi sedevo

in un caldo di water, ora sì infine scal-

pitavo, gridavo non-entrate.

 

 

XVI

 

A cosa servono le scarpe? Voi

direte che servono a sterrare

cicche e cartucce a consumare andare

inumate al terriccio a non sfrecciare

mai più su dei calcagni anche a remare

affondare attraccare re-migare

tra pioggia e foglie macerate tra

cacca e piscio a farsi impantanare a

non alzarsi venire al tutto-nero. O tutt’al più a

scalciare su un sedere

una pedata di catrame, nei

direttori nei predicatori

nei compagni di classe nei custodi nei

primi primi della classe. Ma

io, R. J. Fischer, qui dichiaro-chiaro che

le scarpe hanno un’altra misteriosa

destinazione o direzione, una

mèta-stagione una più fresca

vita.

 

Quando il vibrato quando il plettro tenue

le arpeggia e pizzica e l’assolo ne

insonora l’orchestra e un Oky a modo tut-

to-conciato-per-le-feste viene

batte il tempo coi tacchi, si prepara

alla prima figura di quadriglia, lo

straight hey e lo sperone, quel cozzare

da pistola a ocarina, una di Frisco

conquistata sul posto – una biondina –

occhio-al-marchio-di-fabbrica- che ride

sguaina ne sguaia l’incisione, la

lavorazione il poderoso prezzo

lucido e tondo il

cartellino

d’oro. Come

fiamme di terra, come nate

sciolte da lunghi funerali, al bieco

inarcarsi del cielo sono nuove non

hanno più fossa comune ma

posatoi di piccioni, di rondoni di

libellule e tortore, sgusciate

da testa e bruco, sono fatte come

lievi farfalle e ancora forse sono

aquile e condor luminosi sempre

punti sul dorso sempre inquieti

ubriachi di pecora assetati una

zampa alla carne mai feriti

in di-lungate sommità smarriti in

anabasi d’onagro spintoni sono

jumbo e Graf Zeppelin, motori bi-

motori di Fokker luccicati

a colpire sfrecciare Mustang duri

lance carlinga carburante sono

puttane altolocate, le

spogliarelliste a tavolino le

avventrici in pelliccia le signore

di prima classe-sala-fumatori scese

a testa all’ingiù per de-collare per

risalire tracollati abissi e

sanno l’alto-dei-cieli, sanno come

l’ala si spiega e la navaja chiara del

colore s’appende alla farfalla come

s’incrina l’azzurrina nuda

strapiombata latente orma d’ozono. Io

decretai, decisi, io-mi-decisi

d’appropriarmi d’avere possedere di

de-florare le gloriose

scarpe.

Quella

uccellata gravità quel breve

rostro di pelle. Io-dico-dico-dico

ch’ero venuto al mondo per volare e

stancarmi al pulviscolo ma pure

a fiaccare le palme di Babele. Io

sapevo, io quasi pre-sapevo

che un rincorrere enorme m’attendeva, che

l’azzurro frustava le mie spalle.

 

 

XVII

 

Mi spostai senza tregua non avevo

più equilibrio sul capo non portavo

né cappello né cencio oltre i cortili

con un laggiù-più-giù spinto nei cedri

rinsecchiti sull’angolo vedevo

la rimessa e il pollaio anche la scrofa

dal sedere di donna il lastricato

e il ripostiglio degli arnesi la

scalea nella ruggine il petrolio e

il non-più-verde e la padella untuosa

accovacciata sul fornello come

un deretano su un bidé ed allora

io il gitano il mulatto io il non-meticcio

né cherokee né gringo né italiano io

cambio d’olio e di gomme io me ne andavo mi

facevo invisibile fuggivo

dove i freschi cedroni di lamiera

dove il becco di gas dove gli scuri

dove l’insegna dove il pasto-e-letto mi

versavano in faccia un caffè scuro. Io

per i buoni e i cattivi io solo io solo

Robert James Fischer, bianco di Chicago

socio dell’YMCA, io sempre andavo e andavo e

m’annaffiavo di pioggia e kerosene io

rincasavo io mi ricoveravo – una

branda di sorba – permanevo

nel mio oltremare di svegliata diga.

 

 

E ogni dimora mi trovò, mi diede

una testa in penombra uno specchiarsi

abbrumato negli occhi –  vento e reni – né

fragore né strepito – sicuro – né

violino né armonica né uomo

né animale né fiera, forse solo

un orologio sul cruscotto, nel

garage che strideva spappolato-

ora e secondi del suicidio – che

ringhiava ai passanti si chiudeva

nella bassa stamberga del mio cuore. Io

disteso sul letto, io già spogliato sul-

l’ovale del cesso sull’acquoso

se-semicupio in verticale tutto

maioliche e piastrelle io-proprio

il mai-trovato il mai-presente il muto

sempre-assente-presente in ogni luogo

io gagliardo-sbarbato io bello-in-volo

come un giornale o un Jesse James, lo sparo

sempre dietro di me nella dogana

calma di neve ma più viva viva

di un terreno a frutteti si muoveva

mi tallonava mi seguiva-guida

e spirito-guida vaso e fiori capo-

tavola e capo di speranza e

io l’accasato io l’ammogliato io come

mai nessuno sposato nella Donna di

di stanza in stanza io senza sosta-tregua

nescafé sulle labbra come un bacio

troppo a fondo stampato stropicciato che

mi succhiava che mi risucchiava

quadro tolto all’intonaco sporcato ero

e non ero con me se mi calavo

a peso morto dentro il fieno mi

grattavo un foruncolo pisciavo.

 

 

Io me io me per tutti Bobby Fischer

R.J. Fischer per me razza di cane po-

vero diavolo sfrattato ora

affogato in pendici di cristallo

colpito al cuore ma non proprio proprio

carcassa solida di vita io

Bobby Fischer polvere-alla-polvere

frac a tempo di rondine, signore io

da sempre malvagio parassita l’in-

vitato il non-mai-desiderato

l’inquilino l’intruso il pro-prie-ta-rio e

il non-mai-proprietario, m’installavo

di casa in casa io non sostavo io non

mai mi arrendevo io per davvero io

prendevo possesso della Torre.

 

 

XVIII

 

E sulla soglia che non c’era che

non era una soglia ma una forma

d’ammazzato nel buio ora davvero Spa-

lancai, le finestre io sì Ski-fato, spalancai

le portiere e vidi vidi

beccheggiare uno stipite stormire un

gallinaio per metà una preda

giunta nel fodero che mi aspettava im-

pallinata a una più tetra ampiezza e

strisciava all’entrata mentre io avevo

le mani forti sul suo muso ne

imbrattavo le impronte.

E adesso

c’ero.

 

E d’improvviso mi trovai pigiato

a un cozzare di spalla che sfiaccava e

raschiava raspava grattugiava

di tana a tana un gomito appuntito, venni

a scongiuri-di-silenzio venni

a un origliare non veduto, a

una vanga sinistra, a un traballare,

unghie giù per la frusta solchi dita

polpastrelli da taglio scarpe bluse

dita come coltelli. Ora potevo

ora sapevo sbattere l’intruso

in un rapido altrove, ora riuscivo

a marchiare il mio nuovo domicilio

come un bufalo a terra, a farci un buco

per entrarci scaldato per dormire

dopo veglie d’inverni, ora per caso in

cadenti crepuscoli io padrone

io un affannato capo-cuoco mi

staccavo dai tavoli, potevo

far sbronzare il barista anche coprire

insabbiare le tombe dilungare

l’ombra dei tassi forse coltivare

fiori e teschi di zucca, ora sapevo

io, R. J. Fischer, stendere teloni

sui divani degli altri

riposare.

 

 

XIX

 

E la notte si fece più vicina,

era un groppo alla gola, un busto alzato su

schiarita collina, somigliava

a un ansioso scemare di persone in

oriente sfinito, a uno smorire

quasi troppo crudele, a un aspro

gioco.

E

il mio pollice fu legno e alabarda, la

mazza-fionda, il giunco da pastore

per sfollare le greggi, fu un suonare

di tonfo e tonfo, un’eco d’archibugio, il

machete e la roncola

ed invece

l’indice fu la curva a nove code nel

domatore di bestie l’arma chiara il

raddrizzarsi nel ring quel ricolpire, sotto

l’unghia tremava una legione

di demòni incalzati: bianchi

neri.

 

 

Fu una serata come tante, c’era

un abbaio di sigari sedevo

in esatto dilemma d’espressione. Io

controluce impomatata col

riporto alla tempia me ne stavo

sotto il tramonto e la resurrezione in-

odore di Lazzaro, sorgevo

a sporgenze di tenebra affioravo

sbucavo a tempo mi spogliavo uscivo

dal più gelido affondo della frana. E il

nemico inspirava respirava,

espirava diacronico tonale era

un do tra le i cespugli un ritornato

movimento di costole formato

impastato di schegge mi attendeva pre-

vedeva che un calcio di fucile

gli rovesciasse il mento in su gli fosse gli

sbattesse gli quasi rivoltasse il

semi-cranio all’indietro che un molare

fuori di bocca che un sangue d’incisivo

un osso marcio un resto di saliva si          

rapprendesse e si appostava come in

un gancio alla Patterson e

attendeva

come chi perde e che non perde, vago ri-

posato e gentile, forse

muto. E

a un tratto guardo e a un tratto dico dico:

morte ai fottuti bolscevichi dico

morte a quanti coltivano storioni  

sdraiati in oro e povertà, alle mani

fatte a palate e dico morte

morte.

La lancetta tremava al polso bruno si-  

mile a un altro capillare, l’a-

vambraccio avventato, quel sottile

sferragliare di tenebre che adesso si diramava si sfiancava si

svestiva a cospetto di una chiesa in-

vischiata alle nottole sul ramo sul

lampeggiare dei piantoni dalla

folgore immensa sui

suoi moti.

 

 

Ne avvertivo il pesare nelle scarpe

frizionate di fresco e in alto avevo un

ossario di nocche che rotonde troppo

rotonde in si’oscurato viso, tam-

burellavano qua e là precise, pre-

cipitando in altro oliare-dare

acqua verde ai cipressi. Mi

sorprese.

Mi sorprese la notte e quelle sedie

quella sedia smembrata che nei giunchi

era cane e riporto quieta, quieta,

maglio su maglio, rullo di catena, e

ancora il pubblico e la folla e ancora

l’ingrandirsi del sonno nei tamburi la

sparatoria abbacinata l’ab-

boccare dei pesci, mi sorprese-

ro tutti quei nasi tutti quegli istanti di

chiassoso anzi-tempo, fui lasciato 

come pacco nel viaggio poderoso

di un Santa Claus venuto a brace. Poi

non vidi più nulla. Poi di nuovo

nuova-mente la mente che sgorgava

da muschio e botole infrascate che

li raccattava li scostava li

cacciava nell’ombra, li puniva.

 

Rossi

arrocca-

te dico agi-

gitatori, moscoviti dannati non vedete non

sentite il fruscio dello sciacquone non

capite che sono sveglio che-che mi

rigiro mi rivolto che

mi rannicchio nel letto ora per primo

fatto-randagio che mi voglio-devo

chiudermi in bagno non venite non

seguitemi dentro state

indietro. Ma

loro i-miei-la mia-famiglia-loro

loro i parenti e non-parenti quelli

che vengono a strillare a dire salute-gente-eccoci-qui nel giorno

della Pesah, e di Tutti i Santi già

satolli di punch di scatoline

e cosci e calici di selz a

deglutire ad assaggiare a fare

e discutere il rancio con tua madre a

dire bravo-sei-cresciuto-bravo che-

voti-prendi-a-scuola- bobby-bobby un

pizzicotto alla guancia, un cinguettare

di otturazione di masticazione di

smalto e protesi spezzata e infine

un fiatare di vino-senza-vino, di

cocacola, pepsicola, solo

brodi analcolici e giù bava

quadri di poker e di tovaglia. Loro

comunisti-giudei-gente-comune

farisei decabristi bracconieri

cuccioli d’amish figli di rabbini,

trombettieri italiani anabattisti

neri battisti prole di sgualdrina

spie del kgb portoricani mi-

gratori e gregari, fanti

fanti.

 

 

XX

 

Esco fuori di lì mi tiro dietro

la porta bianca scaglio sulla nera

un crosciare di carica mi muovo

tra facce gonfie di cazzotti, sono per finire

scardinato e affrancato, rinverdito

da Volga e suoni di betulle io muto io

che scavalco il lastricato e vado

diagonale e traverso-verticale

ambidestro e mancino oriz-

zontale, me-

ridionale, longitudinale,

laterale e diretto, io-proprio

ora

che il ginocchio sovietico ha picchiato

su una gleba di salme ora che ora

la Nevá è fatta fogna che straripa

s’accanisce sugli argini si muove   

come radice d’anulare troppo

costretto in un cerotto grave

forse sottile scheletrito un

entrare nel guanto un callo e dietro

un’unghia mezzo rosicchiata un tetro al-

libito avanzare della

folla.

 

Poi, poco a poco, questo brulicame, questo

capro espiatorio si divide, ar-

ticolato di-sarticolato in

molecole ed anime neuroni uno

e poi l’altro non più massa non

più pane e focaccia tana cova ma

separate identità d’ostili u-

nità singolari, volti, cifre

decimali e molteplici, monete

forre lupesche, blu di selvaggina

divisa in strisce di frisone, graffio

di polvere da sparo, sparo

crepuscolare cadenzato moto cre-

pacuore vermiglio batticuore.

 

 

L’energia la parola o non-parola. La

non-parola che si scava cava

come una calza di Natale come

zanna di Giuda come una camicia

tratta alla forca e poi d’innanzi quasi d’un

tratto l’Uomo e il suo cascare che

si slancia all’attacco che s’immola

che s’ammala che geme che defunge,

muore-nasce-sostiene sulla croce

il suo vestire dondolato tace tace e

sprofonda in crudeltà sos-pesa.

 

Da tramonto a tramonto, nella sola

Chiesa di Cristo dove chi ha tradito

rimbalza a palla e redenzione come

un frutto un cranio un colpo d’esplosivo

come un pezzo di crosta masticata

dal viso adunco di un ramarro un grumo

di latte-sangue-strepitoso-

vino.

 

 

XXI

 

Padre,

io mi piego al tuo sedile, sbavo

lungo i tuoi occhiali che di galapago

hanno un vecchiume di corteccia nel

fondale dell’erba, allo squittire

del cuoio a tempo dell’in-tempo nella

sfolgorata calvizie del biglietto tutto

intero di terza al prezzo al bivio tu

presente-mancante a chi ti vede

smoccolare serale altalenare

in preda e strisce di calzoni ri-

destarti-destarti, camminare, piz-

zicarti gli zigomi cantare

nelle mani ad imbuto rasoiare ra-

soiarti la faccia rincasare mi-

miracolato poi rialzato già

seduto, poggiato alla lettiera, brin-

dare in ossido e orinale stare a

mezzo sdraiato trattenuto.

 

 

Il

il bicchier l’acqua e l’aspirina poi

l’insonnarsi alla tenda, lui

ti prende e t’imbecca ti soggiace

ti costringe all’incrocio con le spine

accecate sul labbro, la paura,

un battaglio che morde, una poltrona-

letto nel mezzo di un furgone che

ti dice sta’ fermo non parlare

strizza i braccioli sta’ seduto chiudi

la bocca e la serranda. Taci.

Tu, il sitting bull, la guardia forestale,

tu, Thathanka Lyothanka rannicchiato

sul tuo vaso da notte sul tuo licet

sul tuo casco d’indiano, sul tuo

trono

Tu

che abbai contro i fari, che possiedi

lombi pieni di polca che ti pieghi

siedi e t’innalzi alla maceria sei

fustagno di marca naso a cuore

incollato a un pagliaccio tu perduto

registrato all’anagrafe spugnato

cancellato per sempre, non-signore,

mon-signore-ecco-il-figlio,

ecco lo vedo:

viene al pasto più grasso vedo vedo

ecco che torna al genitore il buono

prodigante bastardo ecco il tuo lupo

ecco il tuo bobby che ti annusa che

ti porta il giornale che ti strema fra

l’osso sacro fra le dita dita

ar-ti-co-la-te-fi-sar-mo-ni-ca-te

ecco lo scricciolo sacrificale,

l’ictus l’X del tuo abbraccio il figliol-prode,

ecco il figlio di Erode che ti trova,

ecco il prepuzio che s’avventa che

cristianamente ti tenzona, ti

tiene in mano come una candela lo

stoppino e la caccola ti tiene

ti si conviene ti rinviene viene

al tuo adiposo genocidio o in-

fanticidio, uxoricidio-

cidio.

 

Riconoscimi. Iscrivimi. Battezza-

mi, sottolinea il mio nome, di’: d’accordo

rinuncio-a-Satana,m’asper-go bagno

ogni parte di me nel tuo cattivo

gusto di chianti nell’asperger-perger che

mi mozza la voce m’accompagna

a ritrovata identità Ri-sorgi

contro di me abbisognami-abbisogna

il mio fresco be-bop di ritardato

erudito e asinino svuota vuota

la mia testa di legno e il suo sbandare

contro il muro del pianto - nevicava, io

da bambino quando c’era neve ne esultavo davvero m’esaltavo

e se smetteva poi mi deludevo mi

deludevo – dacci-sotto-vieni

al mio chiuso nitrire nella staffa

che t’innalza alla corsa che t’incide nel

principio di tutto, ti re-

dime – nella mia fine è il mio principio -sorgi

al mio sorgere, concedi-cedi

la vittoria ai perdenti. Ora. Di-

rocca, dirocca arrocca sul mio dire-dire.

 

 

XXII

 

Torre e casa poggiavano sul colle e dissi ancora tu

di me più certo, tu

di donna più debole tu fuco

d’Ape Maia accoppato suicidato

ingiallito nel miele seppellito io

t’intiepidisco alle mie esequie ti

perdono e ti libero ti sciolgo io

come-quasi-amante ti respingo

a galassie e cloaca io ti conduco

fra piacere ed asprezze diagonali io

ti schiaffo sul pugno l’altra guancia.

Tu di-amante sull’indice, preghiera,

ingiunzione comando ordine pietas,

tu proiettile entrato tra le schegge, sci-

volato a crepuscolo d’imene

e di letti in disordine. Tesoro. Te-

soruccio di mamma. Coccolato.

Coccolato. Viziato. Preferito. Fatto

così. Baciato dalla sorte.

Bagna il mento nell’Atkinson. Io sono

Madre e Regina sono ancora forse non

congiunto al divorzio, la criniera

di giumenta che bruca all’annottare, la

cremagliera la locomotiva il

diretto per Woodlawn, il non-orario, il

deluso alla neve, e tu che a sera

tu che hai messo l’accetta sul mio viso

strofinando i miei geni, spezzettando

muso-su-muso-naso-di-semita

tu che hai fatto strillare oltre la vita

l’amaca e il seme il fischio il frullo vano

in semi-tono della mia caduta, la

gobba il palpito quel freme-freme-re

d’ala in tenue narice l’aria pura la

la respirata aria serale il naso

bruciacchiato dal napalm tu che sceso

a notte gialla mi hai nazificato

al di-razzare di una donna al vento

del sukkot e dell’acino a sventare

il cedro il mirto il larice il palmeto, il

il sefirot di mescolate grida

e d’arcuate candele, dalle braccia

braccia di donna-braccia-di-mezzana,

scollo potente sempre inalberato

su battaglia a cuscini sul cuscino nel

grondare dei sogni per assioma ro-

rovinati da morsi di persone

non ancor bene personificate, nel-

l’eccidio negli incubi nei volti sui

fazzoletti stropicciati dal-

l’alfiere all’adultero al buffone al

folle al matto all’artigliere al bruto.

 

Io

qui schiaccio il grilletto sui tuoi piedi io

ti schiaffeggio in nome del Signore ti

ripudio e ti adultero io qui sono

il marito tradito il beffeggiato, io

Tonius Fock, la morte e l’indovino io

mi gioco la vita con la falce.

 

 

XXIII

 

E grido e taccio, io mi silenzio e sputo

sul giullare in mutande sul finito                                               

carro d’asfalto, il Chrysler incenerito

nel garage di mio padre, la carrozza-

carrozzeria della sua Ford nel vuoto

del fonografo azzurro-Sarah Vaughan

troppo acuta di bassi io canto rido

sulla bacchetta sulla fede d’oro

sonorizzata dentro il mitra rido

sul direttore e il suo becchime vado

al di qua di me stesso. Forse. Nato.

 

E lo zar, l’operaio, il bolscevico,

lo stalinista, il pogrom-ista, l’uomo,

il condomino povero, l’iniquo

delatore dei figli, l’uomo, l’Uomo,

l’assassino e l’autocrate fu solo

un grande pacco di silenzio stava

con le mani alle tempie, gli occhi scesi

a balconi di palpebre regnava

come un padre all’inferno, un candeliere di

settemplice fiamma. Ed io mostravo un

tatuaggio di Reichstag lo guardavo io

nella mia grande Nacht der langen Messer,

scarpe e giacca alla moda bei baffetti

gemelli a punta d’esplosione mani-

che strette a elastici vermigli ali

a passo dell’oca io solo solo

di meninge affilata di pensiero

tra-sognato e compreso io-si-di-nuovo

afflato in punta di forchetta acceso ac-

canito guizzato proiettato,

balestrato su sciami di pivieri.

 

E il suo sguardo era un urlo di digiuno,

sulla tempia spianata inferociva

dal fendente nel petto al gran finale

e dietro a tutto l’immutato

naso.

Faccia a faccia poi muso contro muso. Poi

morsa-quasi-contro-morsa. C’era

una gran selva un’accigliarsi come

d’aquile e ruderi cenciosi un

viavai di sottane uno stentare

tra dito e dito e c’era-c’era ancora

uno studente fuori corso c’era

un’enorme-rossiccia scottatura

di collo e braccia sotto il sole c’era

un’attesa di perle un passeggiare

una rumba di luci una-per-ora

troppo tenue vedetta un ponte d’oro

da dente a dente un ponte già imbrunito

fra paludi di palpebre un arcuato

non-mai-compreso sopracciglio, duro

come una fune da bucato tesa

tra gracchio e scorza, un rinfrescato

dito.

 

Lui mi guardava-ah-si-se-mi-guardava,

tutto lo sguardo in un sol occhio e l’altro

orbato in pieno da un’estrema cupa

innescata ansietà di botta in tuono nel-

l’ascella spiumata nell’incavo

di un ciliegio e di un condor mi parlava

al di là dell’orecchio ripeteva

tra pendenza e patibolo diceva

prega-figliolo-pentiti-rinnega

il peccato la foia la lussuria il

delitto d’onore il furto il malo

matricidio arrabbiato l’aggressione

del grassatore del sobillatore del

brigante e del ladro del

suicida.

 

Ed io gli dico io gli-proclamo-dico:

allontana lo stinco dal mio seme,

cambia casa e indirizzo cambia nome

identità certificato di

nascita morte matrimonio sposa cir-

concisione residenza vita pro-

fessione di fede domicilio.

Retrocedi-sfinisco-retrocedi:

altro non sei che un fondo di calzone una

stampella un rosso di pedata

tra chiappa e chiappa un’altra ragnatela sei

una suola sfondata un tramontare

presto sbiancato sei un pierrot

un pedone.

 

Tu,

moccio grigio, resto di

stoppino, ciotola d’acqua a più canili, muco, tu

mio bilico d’ossa tu malsano

colpo di tosse e sputacchiera come

mezzo tacco scollato spurgo fame

che raccoglie che quasi-senza-quasi

che raccoglie qualcosa che si piega

a raccogliere a-forse-raccattare

un oggetto dabbasso che si inchina

o mio stancato che ti chini chini

troppo in basso dall’albero che giuri

giuri e spergiuri vieni al traspirare

di vetustà d’asperità di posa.

Hai

una mano nell’acqua, sbalzi, tieni

cose su cose, sei scalzato, privo di

pane e orfanatrofio, solo.

Tu, che non spacchi l’aride vetrine

della Fifth Avenue, che non hai paga

al cospetto dell’alluce, cammini

sì-cammini, procedi  -cedi-cedi!-

traccia di fionda in campo giallo, seme,

cane su cane coda-tra-le-gambe tu

pianoforte-a-coda fuori-d’uso che

stecchi in folle che trascini in prima il

calzare e la pianta la misura

troppo grande per te rovini-muovi

venti di tromba li coltivi imbevi

da gran fiumi di brocca ne ricevi

a bicipiti aperte il diroccare la

sgolata vestigia la canzone

dei non-mai-seppelliti la deriva di

cancellata cancellata pietra.

Hai assaggiato un marsala funerario hai

tagliato uno strato di locusta, ti fai

colomba e esterno destro. – Sali! – gemi

sul prato spezzi il verme in

in due lacci contrari sei fragore puoi

strisciare sul muro scoppiettare

fra cucine economiche piombare

dal belvedere a testa in giù salire

come nessuno è mai salito.

Dopo

i gerani alle finestre dopo

le cascine e le strade e i marciapiedi

curvo di donna giravolta, giro-

e scossa di raffica ri-vieni e

nidifichi in volo provi steli

colmi-ri-colmi d’ascendenza-ascesi, testa

busto granito torso mole

ammassata nel fango lancinata

in pena d’aria in spasimo di cielo, in

ficcare di artigli, forse breve

saliscendi sul petto tu che lieve tu che

ti levi e non sei più tornato

da un raccolto di terre non sei stato

calpestato da femori di grano non sei più

sporco non sei più annegato

in un fresco di lacrime e ti pesa ti

corona le costole tra poco ti

spaurisce ti lancia ti racceca

sempre più in alto, e guarda, sali.

Sali.

 

 

XXIV

 

Un guardare nel nulla, lo sbrinare sulla

scala antincendio, ecco e s’appicca

fra i capelli una tegola io ti vedo sei

il figlio maschio tanto atteso sei

una fonte a battesimo una crepa un

fazzoletto annodato fra le piume raschio

e planata forse un altro ancora

parto vermiglio, cena senza cena.

 

Ora t’inerpichi ora senti vedi barcollare la tuba del

sovrano tu, l’affaccio negato alla cattura che

non hai colpi che ti sei smarrito dal

tuo cavallo inginocchiato oltre

il niet della torre oltre le risa

dell’amante e l’amante nella dama

nella calce sui corpi invano ora

colti sul fatto ora addentati tra

unità e giarrettiera ora puniti

colti sorpresi in unità

ghermiti, a-

dunghiati e snudati presi,

presi.

Rosso-di-sera -io-qui-ti-onoro, vedi mi

rimetto ai tuoi piedi e piscio e nuoto

nelle tua fogne io adesso ti segrego

nella camera d’aria del mio diesel nel

mio portabagagli io ti rinserro

come una protesi dorata, io

il tutto-fumo io slip d’alba d’aurora che

rincorro farfalle sono prima

come un bambino nell’enorme vaga tua

coscienza integerrima io volo io

spulcio croce e torace io mi rallegro

sullo spasimo estremo nel tuo sacro

affiorare dal fango di

nessuno.

 

 

XXV

 

L’Altro. L’altro e nient’altro.

L’Altro.

Solo.

Solo un Altro più brutto, un più Cattivo

al di qua d’ogni uomo-non-più-uomo.

Poiché mia madre mi sbatté alla luce e

mi depose al contatto mi scoscese

(tatto e contatto pelle e contrazione

co-abitazione ri-con-centrazione

co-operazione fissità con-tagio)

a co-amare a con-stare a con-statare

l’Alterità e l’Altra metà, l’Altrove

dell’Altrui e l’Alter-ego e l’Alternanza la

tracotante transustanziazione

tra due facce due spasimi due pesi due

bretelle alla moda, due cimieri.

 

Lo folgorai sui polpastrelli, feci del

suo muso una clinica un penoso

bianco di sberle, lo distesi-stesi        

tra palmo e palmo di regina misi

una buio a una mano e all’altra mano lo

innalzai nell’aceto lo deposi lo

aspettai di deporlo di fasciarlo di

perizomi giunsi al suo allattare lo

lo spillai fra l’incudine e il boccale lo

lo zampillai nella fontana, nella

traccia di sterco. Mentre stava come

un quadro al muro troppo sporco come

un gran verde di mosche alla testiera, colla

su colla piede contro piede

spugna e voglia di luce mi fissava

calpestato e pestato mi pesava

fra un arto e l’altro si raccomandava, mi

diceva ti adoro sei davvero

il migliore di tutti era sembrava

sbronzo e umiliato inebetito schiuso per

un angolo brullo di sepolcro.

Come una torre come un grattacielo o

un asado fiorito germogliato

nella conca di Dio. E d’un tratto io dico

dico non mi tradire all’apertura quella

che sgrana le mascelle toglie

unguento alle salme non-gli dico-non

mi tradire non ti ricacciare nel-

l’obitorio nel penoso androne.

L’apertura è Abbadon è Babilonia,

è la Donna è l’In-fante è i Cavalieri,

gli asini e i fuori-dalla-classe i nati per

non porgere mani vergognate

a un righello d’acciaio per coloro

che vanno e tornano da scuola in

un chiuso di stalla per ragliare

per scappare da mamma scalpitare

la carcassata metamorfizzata

onestà di monello, l’apertura

è una cattedra a pezzi è stare in piedi in

un bus di Montgomery è la fede          

in zio Sam e Dio Padre, è un nero-nero col

biglietto scaduto l’apertura

è il torace carponi del becchino

il teorema degli altri, l’algebrato

battere il tempo sotto i santi, è pure

la violenta violenta mozzafiato

minigonna nell’ombra, è il non-sapere,

l’esitante nervosa esitazione.

Cosa,

chiedi-gli chiedo all’apertura?

Ora, in quest’ora-senza-più-quest’ora

in cui il motore retrocede siede

pesa sull’erpice s’affila,

in depennato-cancellato gesso, nel-

l’astrarsi del giorno, nel grondare

nel non grondare così fitto contro

salto e vertigine nel fiato

sui connotati sulle occhiaie sui

listoni  d’un vecchio imbarcadero,

Uomo

o nostromo,

capitano,

Sire

dico:

non mi tradire.

All’apertura.

 

 

XXVI

 

L’indice è un vecchio così magro, è un seme

chiuso in notti di scheletro, un sottile

zigzag di taccole atterrate forse

mago tra i magi –fatto cieco

sulla spalla dei figli, è il miagolare

di una tromba da nebbia, un arrembare

di marinai sulla coperta un silo

un gracchio un no l’acuto di un soprano è

una mantide a nozze un lieve fiore

un vessillo pirata un orbettino una

flebo al suonare della vena

di un malato di cuore un verme un tono

anzitempo stonato, forse adesso

l’oplà nel blu di un altro grillo, il

coltellino di un barbiere, il duro

graffio nel graffio, graffio nell’ucciso.

L’indice è l’albero malato, un vago

decimale di nuvole un pastore

tra mascella e battaglio, è quasi fame,

un rizzarsi di penne, lo stridore

di vanga e vanga sui sepolti, è il primo

maschio che piange è un ringraziato grigio

filo di perle sulla Madre sceso

a colostro e capanna è il vino acuto

al pasto insonne dei congiunti, uno

schizzo di doccia, Tony Perkins

fazzoletto e parrucca, grido

grido.

Ah, ma il pollice razza di ciccione che

s’accoscia sull’unghia sbuffa strema

in adiposa avversità, tenace,

basso e tenace nano nano,

nano ego-

centrico gnomo, cucinato ma

ancor vivo cappone, dio sbozzato

da fisarmonica d’affanno, grasso e

prosciutto, quasi faraone

troppo corto al sepolcro, lui, piccione

tra le colombe, chiazza di falena

tra le farfalle variopinte, sego

a cera vermiglia, pollo in posa tra

fagiani dorati -  pietra

pietra. Che

si sposta accaldato che s’allena

in palestre e salita ecco s’annida an-

simante fagotto si sostiene

sangue in mano ai masai - si desta, stira s’ap-

pollaia e si appoggia a mezza vita, poi

ritorna abbassato alla panchina torna

a colpire si risiede come un

peso massimo all’angolo o sul serio co-

me un uovo deposto un gran felino

troppo sazio di pesce faccia al suono

del gong del dente ciondolante, è

spiazzato dal picco del dolore.

 

 

XXVII

 

Per chi ricorda la miseria, lo

smemorarsi del bene, per chi viene

da un viavai di cassoni per chi è stato

rannicchiato fra tacca e sgabuzzino la

razione di latte nel sicuro

pezzo a forma di specchio, nel carcame

appiccicato al lavatoio coi

capelli sul pettine, la strada, una

stufa intasata, un grande muro

senza botta d’intonaco, statura

fra soffitto e minestra, per chi dove

ogni cosa s’estenua si deprime

s’inginocchia nel gas, procede piano

a funeree stoviglie per chi è stato in-

gobbito turato all’angolino ha

mangiato alla folla e all’evasione ha

orinato per birra si è chinato a

un crollare di giorni, per chi infine

si è incavernato forse si è buttato

giù dalle tarme

ecco

si strema-estenua ma

sorge insieme al colosso di granito la

carceriera delle dame, viene

a disciogliere chiome a radunare

lacrime e fuochi rinselvati la

dimora dei massimi sistemi

dei sospinti alla forca dei paesani

delle megere e delle capre andate al

di sopra del colle, della pira

 

 

                    ecco-sor-ge-la

                       torre, che

                          l’asse

                            dio-

                           muo

                           ve-a

                          aperta

                         colonna

                       la magione

                     mai disperata

                 la tenace-pietra-che

 

dal suolo si stona, si

alza

stira.

 

Io

sfondai

l’uscio io m’inoltrai compresi

frasi d’amore cavalieri ca-

primulgi e donzelle io mi sorpresi

uomo sbarrato alla tortura io, la

pedata, oltrepassai il burrone col

mio pugno di dollari e la presi

in suonare nervoso di abbaini

sette a sette crepati disastrati con-

ficcando l’aurora cupo ostile

m’inoltrai m’inoltrai con le mie nuove

scarpe di roma di parigi che

l’aguzza dentiera dei mattoni

non spellava alle punte non

scheggiava.

Io, il tutto-nuovo lucidato a nuovo, gesto

tic contrazione scavalcavo

sciami di lettere e acquazzoni ed ero

lava giù per le balze trascorrevo

oltrepassavo getto dopo getto

fiume-oltre-fiume mi curvavo mi

quasi-troppo-mi sporgevo con-

templavo dirotte miniature

di passanti e di greggi ma-

turavo, rinascevo-io-si-mi-trasfromavo in

panorami illuminati sgra-

nellavo il vedere e il non

vedere. Io,

R.J. Fischer, dimoravo piano nella

casa-su-casa su radici fon-

damenta e pilastri su doccioni

e piedistalli già stallati, avevo

la mia torre di pietra sulla testa come

un berretto bisunto una visiera

un pan di zucchero un chepì una tiara

un cilindro alla moda un cappellaccio

alto su slancio di cavalleggeri. Io

portavo sul capo

una

Corona.

 

 

XXVIII

 

L’Uomo abboccò. La palpebra schiariva

il suo globo di cefalo che l’amo

strapazzava alle viscere, sdentava, l’Uomo

picchiò un san-pietro luminoso, venne

a lenzuola fatte a strisce sul-

l’affaccio a ponente, serio.

Serio.

Sì, ma di colpo sogghignante fra

bagliori affossati si torceva in

fretta e fiamme in riga di clarino, un

vuoi-ballare che centrava il viso il 

guanciale ammaccato, si-nel-vuoto

disordinava le coperte come

un azzurro di donna, mi

guardava.

Musica

e ascolto nell’orecchio, aveva

un rilievo di laghi sulla tempia, sven-

ventolata a segnale, a piena grida. E

io, l’alzata dei lupi, io l’assediavo. Io,

R. J. Fischer, m’inoltravo entravo

fra bocconi e ruggire ma lui era

lui era un’agile nube era un fuggire

di carcassa e di nervi, chioma, odori,

colpo di testa, faccia come ovale

accanito alle borse, si ri-stava

al sisma-scisma che di rabbia in quiete

sospendeva nel tempo l’edificio,

finché poi sollevato, ora per ora

divaricato, sbilanciato, stretto

fra chitarra e chitarra, atemporale,

temporeggiava s’avvinghiava come

un sax disenfiato, e somigliava

a un peso-morto sì pesante troppo

gravoso alle sue arterie, nel

cipiglio del mastice del

cuore.

 

Un

rumore svegliato e la bufera gli

latrava alla testa, lo colpiva,

lo scappellava gli stampava in viso

un mangime rognoso gli mostrava

balaustrate letargiche giù code

all’entrata del cinema e nell’aria un

marmocchio che urlava si premeva

un sole acceso sulla guancia come

dopo un ceffone e allora io vedo

ah, i bolscevichi, e la Costituente,

e il Secondo Congresso, e il Capitale

e il vagone piombato, la paura,

Stalin e la testa dello zar, lo scudo,

Stalingrado divisa, Kirov-Kirov e

il Consiglio del Popolo, il terrore,

la guerra fredda e

tutto viene insieme viene

adesso alla torre bussa piano

piano-forte-fortissimo, e mi chiede

di sottrarsi al di là del forte ariete

che come un uomo incontinente stava

in fila aspettando ai

vespasiani.

E io, i pidocchi nello shampoo, sceso

a tanto urtarsi mi scioglievo ardevo pen-

zolavo alla musica tracciavo

rose sfiatate e anse di spade e avevo

la sua piaga nei rovi e la incallivo

da botto in chiodo io sì la disossavo la

frustravo la credo flagellavo

la processavo l’abbattevo ed ero

l’olio bollente il crampo la calcina

un ferro, un padre! un masso rotolato un

crosciare d’accetta un buio dopo

sterrato in piombo e uccellatura io

arrabbiavo la terra contro il fiume io

spalavo i badili io

l’arginavo.

Io, R.

J.

Fischer,

strade di Chicago,

giacca-sparato-di-velluto drago

spiaccicato alla torre gli frugavo

nel più fitto dell’occhio lo staccavo, a-

doravo il suo doppio io lo guardavo

borsa e borsa di sguardo smantellare

la potenza e la molotov venire

al cervello snudato allo spaurire tra

divano per ospiti e palloni di

camicie da notte a mungitura al

rombo al pane a un fiore di vinaccia nel

fazzoletto-coi-buchi sul fragore

della zucca a novembre ed era come

una ruggine stanca,

un raschio,

muto.

 

 

XXIX

 

Gli colmai le caviglie sanguinose, lo

additai lo ritolsi al suo

vestire, l’usai contro di me, lo cacciai dentro

una pelle di vacca un’urna in-fame 

di deiezioni, di minzioni di

sostanza in-organica quattrini

sotto la coda dentro la vescica, io B. F.

né giudeo né americano

né tedesco né wasp né bolscevico,

da sempre estraneo all’Internazionale,

io l’abbuiato il garantista il Genio,

né zio Tom né Nat Turner, io-il-senza-vita. Ah!

la forma, la stele nell’impuro          

cimitero semitico, la fede

ebrea-scismatica-ortodossa, il

perdono, la grazia che negavo ri-

fiutavo al suo straccio bianco-pace già

confitto nel legno, al cuore a cuore, al

rock-al-boogy-al-twist delle sue mani.

Ed ecco, a un tratto lo mettevo in fila per

una terza visione una lattina un

poliziesco d’anni fa io ora lo

impigliavo alla gogna io che sorgevo

tra corpi-in-croce e mosche cavalline

jets di carta carbone cerbottane risa

pallottole di abbasso-evviva, sul-

l’attenti, io-sì, e lo scoppiettare

d’ingiunzione e silenzio…l’incarnare che

pascolava sul bazooka…E allora…

 

Sorse,

fece uno sforzo-Serse-mise

un sopracciglio nella classe come

un coltello nel manzo, il

Direttore ri-tornò ritornò stanò di nuovo si

schiariva la voce tossicchiava

tra scettro e palmo alto di luna ed era

era in maniche-adesso-di-camicia, senza

colletto senza lenti un solo

gocciolare di grasso un trasudare

da naso e labbro di chicha c’era c’era

afrore d’ascelle c’era in giro

puzzo e stallatico era tutto greve

distratto trepido in gran parte chino, stra-

pazzato sul dorso, tutto aveva ri-

velava l’attesa, la paura. Ma   

guardategli i calli ma guardate

gli stivaletti al ballo enorme, lungo

migrare e avventurosa mandria, un ringhio

come d’asprezza e luccicore, due

transatlantici di lusso due

pianole stonate due Titanic una        

messa e poi l’altra due offertori

d’acqua e di seltz, un paio di pinguini       

di cameriere inamidato. Io

maggese di diapason forzavo 

lo splendore nuziale delle

parti.

 

 

XXX

 

Disse:

silenzio. Disse: tuttinpiedi. Disse:

fuoco su Sodoma e Gomorra. Aspetta solo che

ti peschi Fischer e

voialtri là in fondo non-fiatate, poi

giù un colpo alla cattedra, giù un tuono,

un rutto un fuoco di cannone un roco

squillo di tromba militare di

sifilide e carie di cancrena.

L’aula fa schifo-fa-guardate-date

questi bifolchi questi senza-patria che

non si puliscono neppure il…Voi! – censurò –

voi siete-siete-siete

nati-sbucati come i vostri padri

per zappare la terra non sapete la

sola fides dell’algebra, la Gloria.

Qualche ebreo tra di voi? Qualche italiano

che non merita neanche la galera – o

la sedia a due posti – siete siete

un branco di porci, siete stati

acido-fenico-spulciati-pure

spidocchiati nel porto di Ellis Island?  Co-

noscete George Custer, Abramo Lincoln,

La Convenzione Federale, il mille-

settecento-tecentottanta-sette,

Hamilton, Franklin, il basso di Elvis Presley?

la Rimozione, la Costituzione? I

crani immensi nel Rushmore, avete fede

credete in Dio nostro Signore, avete

ricevuto-mai-avuto i sacramenti?

Cosa sapete della Chiesa-cosa?

Dei papisti, dei negri, degli schiavi… Mai fatto

all’alba il fritto di rognone? Data

e morte di Washington? Preghiere?

Chi ha spartito il suo coscio di tacchino coi

i genitori, con i bisognosi, dicendo

grazie-dio-padre-dei-cieli e

scalciandone un pezzo ai cani e ai neri? 

Vi torcete il cervello sui teoremi?

Vi lavate le orecchie? Vi lavate

quelle facce da checca? Forza! fuori:

gusto e marca del vostro dentifricio! Lo

sapete che il tartaro fa male che vi

mangia la bocca che vi fa

puzzare il fiato, lo sapete-pete che

il latte a cena è meglio di una soda che

c’è sempre una specie-sottospecie

di John Barleycorn al fianco dei piselli

dello stufato e del Kentucky Chicken?

Fuori le gomme fuori tutte quelle

pallottoline colorate, i

francobolli, i tappi rari, le lattine

di coca di gassosa… Prendete a calci

a quelle figurine! Via!

i doppioni dei pugili, dei santi dei

rugbisti, dei pusher, degli attori!

E ricordate, io sono come un padre, come

un padre per voi, io sono stato io

ho condotto all’altare vostra Madre; l’ho

recata al Vicario, l’ho impalmata, l’ho

con-templata in abito da sposa, bella

come una nuvola, ancor pura

come un giglio di roccia, esile, rosea,

fatta di grazia e castità, velata

come-quasi-una-monaca, teneva

gli occhi alla Croce, e poi, di sera sera

io l’ho guidata oltre la soglia, l’ho

portata in braccio nella c-casa-casa,

bianca, nievea, fugace, le ho soffiato

i capelli dal volto, le ho sfilato

la chiara garza dalle guance, piano per

non farle paura, l’ho sfiorata

appena appena con due dita, era

un fiocco di brina, era un bocciolo, uno

stillare di rugiada su

corolle d’anemone ed aveva

tutto il corpo soffuso dalle rose, le

guance accese solo un poco da

un sublime rossore e allora e allora io

con dolcezza io con estremo amore

con verecondia e con pudore con

devozione e silenzio ho cominciato a

a spiccarle tremando uno per uno

i bottoni sui fianchi. Oh…

e il suo vestito

timidamente è scivolato al suolo

come un parto ancor tiepido e lei madre, lei

la-sorella-la-vergine-l’amica ha

avuto un brivido leggero, si

celava il bel seno con le mani

fresche di piccolo sudore. Io

le ho scansato le dita, io le ho sorriso, l’ho

sospinta sul ciglio dell’alcova… Ha

mormorato qualcosa ha sussurrato

una protesta, forse una preghiera,

ma ormai era tardi ed ecco, ho seguitato

a spogliarla con garbo, l’ho persuasa

teneramente, gesto dopo gesto,

a giacere sul letto, inerme,

nuda.

Lei ha fatto come per alzarsi, c’era

un occaso alle ciglia, aveva aveva

i capelli in disordine, era china, le

gote in fiamme sullo sterno, ma… so-

migliava a una morta, ed io impaurito quasi

intimorito io ho azzardato, io ancora quasi schivo le ho

baciato la guancia, sono piano

sono disceso lungo il collo, poi

sulle mammelle intirizzite, fatte

a gonfiarsi di latte per sfamare

cuccioli d’orso e bimbi americani, ne ho

percorso l’ardente meridione,

le ho disciolto le membra, l’ho sorpresa  

slacciando il nodo delle cosce, l’ho

stretta forte fra le braccia come

una bimba che dorme. Mi ha guardato, ha        

avuto un moto di sorpresa, mi

fissava spaurita, supplicava,

quasi-si-supplicava si copriva tutta fremente la fessura che

ora vedevo che guardavo che

veneravo rapito sospiravo

bruna cupa godibile arruffata

come pelo di pecora sentivo

il suo sguardo nel mio, l’a-corporale

corporale miseria mi sembrava

un’agnella in ginocchio ora pietosa sì

implorante e pietosa gli occhi come

due uccelli usciti da una gabbia due

beccacce da preda due frisoni

tolti a vischio e proiettile ma pure

ormai era tardi la presi e il suo bel seno

mi venne a mezzo di torace lei     

sobbalzò lei si ritrasse lei

modulò la sua supplica e daccapo io

nuovamente la toccai la stesi

tra disordine e teschio le sospinsi

la testa vuota sul guanciale m’ero

inoltrato entravo nel suo nido col mio

crampo di gemiti ed ero ero

già nell’ossario lacerato al

di là del suo latte del suo pieno

granaio caldo di galline, andavo

più in làpiù in làpiù in làpiù in là dell’uovo

rotolato in altezza più del sole

che mangia i corpi alla deriva più

d’un raggio d’incudine d’un suono

da buio a squillo di campana sulla

tazza ancor tiepida colmata

di legumi e di colpa, io Figlio-io-primo,

spento da gleba derisione fato

io rossiccio io peloso io quasi ingrato la

ghermivo l’avevo tra le cosce

gamba e gamba sui fianchi la

premevo.                                            

Bella-dico-sei-bella sei una rosa

nel mio vaso d’acciaio sei il mio grano

sei il mio granturco sei la mia zizzania

la mia ortica il mio fieno il mio covile

sei il mio quarto di manzo sei il mio pane

tolto dal forno sei il mio vino scuro                     

invecchiato e gagliardo sei il più sano

grasso dell’oca di Natale sei

questo pezzo di dollaro che azzanno per

sentire se è buono sei il mio amore il mio

senso di colpa il mio dovere sei

mia la scavo mia l’invoco e grido la

sorreggo la schiaccio la comprimo ne tra-

volgo le natiche la immolo la

costringo ad arrendersi a cadere

nuovamente sul letto sono sono la

spigolatrice che si muove al sole

di un gran delta a ponente l’epicedio

nella bocca  dei morti e lei lo zero

quasi perfetto e gemo infine gemo

una mano al revolver una al bacino

addossato ai cespugli al solco nero

delle capre spiaggiate alla collina

alla tonsura-per-la-tosatura alla lo-

canda solitaria al brodo che un gran

cuoco paonazzo mi rovescia dentro

il  palmo caldo della mano e prego

pietà-Gesù-per-la-mia-vacca-vacca

macellata ed appesa, e allora allora

un non-umano disumano acuto

di soprano ammalato mi scongiura

mi scongiura m’implora una più dura

tregua che non concedo che – Dio-cielo-cielo –

lacrimo a tempo fra le reni sono

in un grande mattatoio dove

vibra il liuto del panico l’armonium

del piacere sferrato sulla piaga dico

sta-zitta-non-urlare-dico nuoto

a lungo nel miglio e sono sono

il violatore l’inseminatore,

il cromosomo il protozoo il piacere

lo zio Sam il Winchester la bandiera

remo il mio femore di stelle vivo

nella terra e nel cielo la-de-                 

floro.

Ma

è ancor-presto-di più-la muovo-dio-se non

la muovo verbo osceno

nudità di novena mai

compiuta smuovo il suo torbido oltremare che

m’inselva nell’alga che mi tiene

quasi a picco nel fondo mi trascina

a groviglio di canapa m’imbevo

in un santo di tenebre. Comgiunto-mi

congiungo-al-mio-piombo-muoio-vivo. Taci!-

insulto-puttana-non-urlare non

schiamazzare non belare non

provocarmi meno-male-male

che hai sporcato il lenzuolo sta’ a vedere che

non debba mollarti da tuo padre

come due chili di patate e

una volta di più una volta sola il

piacere mi sbava munge stride mi

sommerge e m’avventa ed io la chiamo lei

non risponde e io dico dico dico

Parla! Sta zitta! Grida! Adesso! Grida! Ho

ficcato un figliolo nello strame

della tua spazzatura nel tuo ardore nelle tue

erbacce delle tue rovine.

 

 

XXXI

 

È chiaro adesso? E tu-tu-là-cretino con

le orecchie più grandi delle scarpe tu

là in fondo che ridi tu-che-scemo

scemo-storpio mi guardi e non mi segui e

fai coriandoli di moccio tu

che premi zitto il tuo inver-dito dito

e lo appiccichi al banco forza-vieni-alzati-in-piedi

mostrami quel muso

foruncoloso tu laggiù-tu-proprio stacca

la caccola da sotto scatta fissami bene dentro gli occhi muovi

le chiappe vieni al mio

sedere.

 

E il Re depone la corona e io vedo

un ardore di martora sul dito che mi

balza alla retina mi guida

a uno strabismo inalberato, io vedo

una falla in rilievo rosseggiare

giù dal sisma alla gola dalla piena

pappagorgia decrepita, un più nuovo

nuovo di pietra solchi e fresca vita

che geograficamente lo recide lo

rinasce e l’inquieta, lo

rincuora.

Lui

che innalza lo stomaco che viene    

a fauci e volpe a un più vorace gioco

d’equinozio e risposta. Io

non perdono no- non gli-condono

la zavorra segreta dei gattini

ammazzati nel fiume e torno a riva lo 

ferisco a sinistra lo decido

a salire al cavallo più appestato apro la

notte dei calcagni, lo

denudo di

strisce di stoppini io come un boia ampio torace io

lo conforto io vengo al suo volere-non-volere morire… no.

Non ora. Lo

stramazzo al capestro bianco-

nero.

Ah, la groppa che calco-peso-schiudo a

temporale di staffile la bruna

gibbosità fatta a brandelli, al

di là di ogni santo, la sua ansiosa

fissità tra l’avena, nel cortile

che si sparge e si sporge si ritira, io

lo divarico nell’acqua io solo

lo disserro e sigillo io lo

catturo.

 

Lui-costui-egli-lui-lui-me-lui-pure non

è nulla di me non è neppure la

mia ciabatta sotto il frigo non è

neanche una carie, un’aspirina

un bubbone un hangover un’orticaria una

sbornia da segale neppure quel

raschiare nel lardo a colazione, non è

un ascesso, non è un dolorare

di pus giallognolo non è neppure

una fitta allo scroto, un vomitare di

liquore avanzato, un’emicrania, il

il piscio il flusso il puzzo allo sciacquone non

è nulla sì-forse-non-è-neanche il

serbatoio di una vecchia Cuddy, lui

svenduto anche usato mal pagato

nostalgia del suo Mid-West, un pezzo grosso uno

da cinque bigliettoni un tipo

da funerale e sparatoria un

compare di Al Greco, ha dentro il

cranio una forma di calce uno sfrenato

bestemmiare di giubilo è davvero

il flit nel letto un’aria chiusa proprio un

buttarsi di coniglio un tipo

in codarda boscaglia una radice che

dilunga le nuvole un vegliare

su corteccia d’olivo, ha una corona

d’inguine e spine che non punge che

non punge non preme che non brucia non

m’incute timore ed ora io ora

ora lo fulmino negli occhi chiedo: dove

hai messo la vulva di mia madre

e il suo bucato di mutande dove

in che raffica d’acini l’hai steso. Ma

i suoi bracchi m’inseguono, è un segugio

come di quelli che la fanno dietro

a Cool-Hand Luke, un’altra cicatrice un

gatto in aria che rinuncia al peso

di un uccello braccato che ricade

mi cade-cade tra le braccia mi

corruga la fronte, mi ri-fiuta, mi-si

rovescia come un vino buono sulla

tovaglia delle feste un nero sul

colletto stirato sui

polsini.

 

 

XXXII

 

E poi il ferro e poi il bronzo e la sutura,

l’armatura sul sasso, quel feroce

memento-mori a testa in giù, poi solo un

grecale al di là dal falconiere e

l’insicuro l’insicuro-ottuso

passo nell’ombra, un gelido profilo

a soccorso di polvere, quel grido

su folata di folaghe che vola

come un solo uccellaccio come blusa

di macellaio di garibaldino che

dà il braccio in tremenda confessione

a Mistress Putnam, e a Mister Hale, quell’eco

che stramazza nel bianco, che s’estingue

e non s’estingue, mi soprende-vede

spada a mezzo di cervice mi-pure mi

minaccia a voltarmi mi rintana

tra zampate e molari, ecco m’in-fila

in crepuscolo equino, sale.

Sale.

 

E l’editto regale viene come

a strombare le regole, e io-quadro-vento

a babordo della luna giro

nella stanza con lui che insedia-siede

le gambe corte sotto il trono, pen-

zolanti calzate e lui che dice

lui che ciondola e dice meno-

male che non

trovo la cinghia dei calzoni per

sistemarti-dice-e io proprio proprio io

ho la testa nel sangue sono quasi

corna a corna con lui sono cascato nel-

l’ospedale da campo nell’antica

casa di cura nella casa-casa

disinfestata e solitaria, nella

caserma, nella polveriera nella casa-la-casa

casamatta. Sono

nel tempo sono e non ci sono

non-ci sono-gli dico (patta! patta!)

sbottami in faccia io sono sono ancora

io l’assente-remoto che s’asciuga

come una lacrima una foglia quasi

come un fondo di fiasco o una piscina

che si vuota a settembre io giro giro

io giro io schiocco in una bocca cava priva di

di lingua e di palato sono

uno spazio anagrafico, una firma

cancellata all’ufficio-vedi-sono

sono forse

colui che

mi

si

crede.

 

 

Io, il Signore Dio Tuo che ti configge

una morte nel fegato punisce in te

le colpe dei tuoi padri fino alla terza ge-

generazione per

coloro che mi odiano, per quelli

che non credono in me che hanno voluto

fotocopiarmi nella terra, darmi

un guscio di spalla, modellare

impastare il mio cranio nella sabbia. Oh-

nora ciò che non si vede. Oh-nora

l’ormai-faccia mai-muso mai-sorriso,

l’ala scorciata, l’angelo punito,

la non-altura, l’alitato grido

che di vertebra in vertebra ti sgrava.

E

la vista di lui vedeva-ardeva

come un sorso di whisky, si premeva

la mano al petto dopo il finto sparo di

un accanito giustiziere sulla

sponda di un’Hollywood da sposa un

pomodoro dentro il sangue un colpo

appeso a forma e riflettore, una

bruna in lamé che lo perdona

t’amerò sempre dice tutta tutta

doppiaggio e trinoline- sil-

labando lui sì che sillabava o si-

bilava il dio serpente, l’e-

sitazione, si porgeva, si

volgeva in ansiosa rotazione e  

gli occhi in bianco erano gravi ogive

intagliate nel Rotary, un bambino

che sta in piedi sul letto che ha paura un

ricordo di guancia, un breve tenue

sussurrare su-su-non-c’è-nessuno

dietro-l’armadio-fa-l’ometto-viene

l’uomo del ghiaccio-viene-l’uomo l’uomo

della sabbia e degli occhi degli indiani un

willie-winkie che ti acceca

taci, che ti purga-che-acceca il tuo ononare

sotto l’orso di pezza,

nel guanciale.

 

 

XXXIII

 

Ecco,

e l’Anima emerse,

ecco ad oriente

il cloroformio sulla bocca, il fuoco

io già un pazzo di rabbia oh grandi streghe sono

sfiancato dall’arcobaleno, ora

evaso dal sonno ora di luce

sotto il piede smarrito, chiusa chiusa

a uno scempio d’aurora, ecco il respiro

dallo Scricciolo tiepido del

Cielo.

Adonai-Elohim-Shadday-Yaveh

Cristo-Sangue-di-Cristo-Dio-caino

cane e non cane

Giuda e contro-Giuda. Padre. Padre

di me. Retrocedva.

Re-trocedeva. La cattura stava

ai suoi tacchi sabbiosi, lo

braccava.

L’occhio scettro petrolio sulla croce

due pollastri alla trave – padre,

Padre.

E la pupilla fiammeggiava-ansava

in un che di ciclopico, sembrava

l’alfa e l’omega, il centro del bersaglio, la pu-

pilla guizzava, si gettava

dalla loggia atterrata del mio sguardo. Ora 

da torre era affiancato, ora

straparlava, svettava in esplosione, in-

comprensione di gergo, di babele, era

rudere e folgore, un chiarore

polverizzato, cancellato, fuso,

sradicato dall’alba. Ed era era

un gran nichel lunare, un solo assedio,

olio e rovina, vergine sprangata.

E

il Re marciava alla colonna, entrava

nella capanna, nel suo verde-chiuso

bunker profondo in sommità, cercava

la sua calda krusciova, il suo

Cremlino, la

sua Eva Brown, la platinata unita

unità nella morte. Chiese. Chiese.

Chiese il divorzio, s’affrancò, ficcava

le sue prugne in valigia, e fu vicino

troppo vicino a quel blindato varco.

L’avvocato mi dice –disse- sono…

ho visto a Broooklyn, ho visto un posto a Broo-klyn

-Broo-klyn come un arpeggio d’ukulele-

alle tre e mezza c’è un diretto sono

in-ritardo-ti-contatto-credo…

ho lasciato qualcosa sulla soglia. Si

stagliava così, gracile, eretto

nel manicomio-che-vestibolare-pro-

cedeva a pigliare le sue cose, i

piatti rotti l’esodo i quattrini

la gillette e la collera il sapone il

dopobarba un antitarme che

asfissiava i soprabiti i calzini il

mein kampf le cartina di Chicago

il lavoro interrotto la furiosa

serenata degli atomi.

E

Regina, la sua Re-

gina lo guardava tra la frangetta e la palpebra guarda-

dava lo guardava adiacere riposarsi

ritto col petto al grande muro mentre os-

sificava di-sossificarva il suo blues di cutrettola, il suo estremo

cementato incompiuto monumento.

Io-sentivo-io-tutto-io-sì-sentivo

io l’orecchio da mulo la mia grande

sventola e parte di segreto dal

mio posto a una piazza de-clamare

lei urlare vattene-bastardo-ariano- bec-

camorto-goîm-boia-diceva lei

gli sbatteva, gli metteva in cuore

un gran cedro divelto ed era come

piena di Grazia era una luna nuova

un coperchio sbalzato dal bollire, la maris stella lo

cholent di ieri una lavanda nel cassetto un mare

di stampelle e di jersey un chiodo un piano

forse troppo così mummificato tra

cerate di bisso cetriolini.

 

Dove

andava lo sguardo? Io lo cercavo, lo

cercavo per strada, lo cercavo

sotto i ponti, nei bar, negli ospedali

nel Bronx tra i Gulag verso Newark tra

le derrate alimentari nelle

stazioni di servizio i banchi di

Chinatown fra i solidi edifici di

co-abitazione, negli uffici anche nei

sottoscala dei laboratori, tra i

cloroplasti e i mitocondri nelle

reti dei nervi, nelle-nelly

codifica-codificate logi-

che della reazione della percezione a

Sing Sing Sing tra i matti i musi gialli nel

bagagliaio della sua Volkswagen in un

White Christmas d’obitorio. Pacchi.

Pacchi su pacchi. Pacchi e insieme

grandi

enormi

depositi

di

cose.

 

 

XXXIV

 

Il cucchiaino da caffè incideva

dolcificanti chiaro-blu strisciava si

appostava batteva sul pallone

schizzato agli angeli e agli esterni preso

in guanto di nubi all’esplosione

di una bomba di collera ed io come

il suo lurido durex come un pelo

di barba fatta a giorno pieno io

carta igienica da bar io solo

quadratino di carta naso chino io

coltello incrostato io che pulivo

la schiuma e il taglio io adesso lo

trovavo.

 

 

Trova-mi-dico trova trova trova.

Metti-un-pezzo-d’annuncio-sul-giornale.

E m’alzo e infilo i pantaloni e imbraccio

un fucile a tracolla come una

pupa da sballo che ci sta, un violino

di spari e fischi nella nuca vado

parto-comincio

a caccia del

nemico, l’av-

versario di porpora,

il demonio, ram-

poniere o demonio

solo

solo.

Sono-con-te sono-con-lui-ti-vedo (non

raccogli il cappello) a testa nuda

ripulirti sbarbarti ingurgitare

sali da frutta stelle d’aspirina com-

pitare contare una per una

pecorelle da sonno stare come

più in su del ventre di mia madre come

se guardassi qua e là ti sfondo e sono

il cecchino alla porta il porta-voce l’alto-

parlante che ti dice-tuona

tuona-rimbomba-arrenditi-esci-fuori… io ci

sono-consegnami-ti

trovo.

Lo trovo oh sì lo trovo ammanettato

al mio basso sinistro, al mio gelato

spiaccicato-alle-labbra-da bambino come in un

bacio alla francese. Lo  

sfondo all’apice del medio gioco,

nella gittata degli alfieri, nel-

l’infilata, nell’attacco, muovo-

Who’s afraid of Virginia? – le mie mani.

 

Se

mi dicono sadico, io dico

che il malincuore è un jazz quartet, che viene

come un pugno allo stomaco, un fioccare

da swing a twist a nitroglicerina uno

slancio agli eroi agli attori bravi

ai cowboys che non crepano che sono

sempre per mano alla giustizia, un bacio

alla stella di plastica, alla piaga,

tutti ritti sul set nella ripresa a

inchiodare baciare fidanzare

questo rosso d’infamia a lietofine, per in-

tralciare la colonna, amare carez-

zare il cavallo anche lavarlo a

una vasca di morti a forse ancora a

ficcargli una spazzola nel prato

troppo bagnato del pelame, verso

pelle e traguardo, a farlo zoppicare

tra forchetta ed hey--ho

di vetturino. Dove

un gomito d’aria s’alza, suda, si

si sbottona nel busto si concede

a mungitura ed orizzonte, il

il Nemico mi appare e mi traspare si

fa martello sopra i tasti è

un dentista rapsodico, compone

grandi incendi si stona si talora si

sgranchisce le nocche si divide tra

cordiera e vescica in oltre-neri

smorfie e gesti acquattati pa-ro-li-ne stra-

lunate stormite fa

sentire

cenni tic sopraccigli mezzi toni

aldilà chiaroscuri. Ed ecco, infine, lui

s’inginocchia io lo rinvengo

io vedo

l’animale più grasso io capitato

a un desco ancora non acceso. Io, suo

gene, lo stringo fra le mani, fra

pulsioni-minzioni-deiezioni, lo di-

rimpetto-me-lo premo-al-cuore

lo insapono al catino, lo

richiamo.

Ed infine l’istante l’ora l’ora

del figlio in grembo in contropelo, bianco

di latte,

nero

di cianosi, una

culla di scheletri, un cantare

dalla piana cicogna che di spiedo

in brace e legno gira-fuma-gira.

Le ginocchia che s’aprono-attenzione

uno-due-tre-alla-curva-c’è-un-burrone.

Figlio,

Nemico, cataro, crociato,

paladino, templare, selgiuchide,

bianco-candido-moro-figlio-nato

gigantesco e atterrito ac-coccolato

adombrato nel bulbo sbattagliato

a fil di lamina e cresciuto nuovo

umanizzato poi svirilizzato

pendolo e amaca gronda di pitale

così rosso di lampade, svernato,

munto a becco d’uccello se-parato

dalla terra e dall’acqua dal ferire.

 

 

XXXV

 

E

dai monti discese il cavaliere, si

spostava voltato sulla schiena

col cielo in spalla, modulava, strom-

bettava un blues di funerale, lui

pulito di sangue, l’inguainato

clarinetto ossidato, il cadenzato

marching-in del Missouri, sui bottoni

un alzarsi di molotov, veniva,

sbozzava a tempo convertiti e neri,

marrani e teschi d’ottomani – mani

sui fanti, ferro sugli

alfieri. Disse:

Ho un sogno,

ogni valle, ogni collina

sarà appianata, i luoghi più scoscesi

saranno piani e quelli più tortuosi

dritti nel nome del Signore. E chiese

chiese

a un uomo smarrito, chiese-chiese

dove si trova il bar-proibito-ai-neri per

cambiare i cavalli per provare per

genuflettersi allo scotch per pure ri-

posare dorso a dorso con l’oste? Chiese.

Chiese.

E l’altro disse-biascicò-rispose: siete

stato a McAlester?-va-bene-non-

m’interessa-siete-un buon cristiano vi

si legge sul volto. Siete. Siete. Sempre

dritto, poi a destra, in diagonale,

a sinistra e poi ancora, in

ver-ti-cale, ver-ti-cal-mente alla tempesta dove

la bonaccia scoscende dai pistoni

di un gran filo spinato e

lo ascoltava, lo

ascoltò il tizio senza nome ed era

stretto in fondaco d’ossa e nella sera

il suo cavallo si perdeva, posto non c’era per

per cavalli persi, non

strigliati maneschi non an-cora lu-

neggiati di setole, sbarrati,

curvi a falerno e damigiana. Morti. Il

cavaliere era nel nord, piangeva

dentro il suo morso in correre d’oriente, tutto

a strisce di sangue, un demolito

minareto di viscere, pareva

simile a un sole così stanco, forse

bendato a plenilunio. Il caro

cavaliere sfoggiava un male antico

mal francese di sotto al braccio scuro.

E ne ebbe in cambio due castroni neri, una

pariglia di motori-diesel a

trazione anteriore-posteriore che

grattavano in folle, che spingeva-

no un’ardita premuta sospensione. E

looky ha’ ora stride ora rintrona: tu!

donna incisa alla finestra, suora

ricurva dalla torre, tu

un prepuzio alla testa uno sul pieno

campanaccio legato al sicomoro data

a troppe cerniere monacata

quando ancora le ovaie rosso fuoco non

svolazzavano ai tuoi fianchi. Disse,

e aveva una mano così indietro

indiavolata, si-se-in-diavolata.

E il ragazzo frugò nella criniera,

SPA-zzola forte gli SKI-fosi-dico-

ronzini zuppi di calura, SPA-

zza la SKI-ena, SPA-zza via gli sciami-di

SKI-fose-zanzare-dico. Dico.

Non t’accorgi che il tempo, che la piena

corsa d’autunno è stata già munita

di ferite e di colpi, che le poche

munizioni di larici non stanno

più dentro il sole al declinare che

troppo sonno ci preclude ancora

la cifra e il vano dello zero, che

ci viene un gran pianto dalle selve?

E

si scosse il gagliardo e lo spogliava

un temporale a tempo perso un sale

d’Eva e di bestia e adesso lo montava

una scena a rilento e c’era-c’era

fame al fiato e alla bocca c’era un lago

d’alfabeti feroci, intirizziti,

sommersi in algebra ustionata. C’era

c’era a sinistra un cozzo di pariglie. Lui, lo

giunto si-mosse-non-si-giacque si

premette sul labbro si premeva

un azzurro violento mi guardava

da un gran rogo di cavoli avanzava tra

patate e giunchiglie stra-taceva mi

stancava la braccia infoderava le

pallottole d’ombra il faro il lungo

batticuore a rovescio. Si sdraiava. Si

sdraiò nell’ardesia, miagolando

la blue note degli impavidi, mi mise-mi

cacciò nel bel mezzo della fronte

un raglio acuto di somaro, gli occhi

due forti uccellatori, due

maniglie di banjo, due mastini,

le gole appese all’ansimare, fece

un passo  e poi un altro, venne a mare

di tanto cuoio poi come per gioco poi

dalla pia decimazione di

molecole e flutti dalla luce

delle dita nervose fu un migrare

d’ossa e di belva di pietà di mitra

raccolte in buio di preghiera, e infine

poco per volta si formò s’intrise

di voliere fugate la ventura

d’ogni ventura, l’impaurito

vuoto.

 

 

XXXVI

 

Una spranga sul fiore, uno scoccare

d’atto sull’atto, un arido venire e

ritrarsi dell’anima un bruciare

di candele all’indietro un’es-pressione un

chi-va-là di crisantemi un cupo

retrogusto di soda uno staccare

gesso alle gambe delle statue un buco un

delta in fretta saccheggiato il mare

tolto alla barca, un rosso di gengiva

ritirata sui denti, il blues tagliato

a metà luna, l’inno nazionale

nel risciò di defunti sulla riva il

battaglio reciso al campanile

da un tanagliare di cicogna, il

battaglio-tonsilla, la schiarita

vacuità della voce, il mai compiuto

innervarsi del tempo

e dopo dopo

la vanga tolta a terre ed urne, prati

mai saziati al rumore del brucare.

 

E

il rifugio scovato, l’annottare,

l’orizzonte-mandibola che in cielo

serra e mangia se stesso, si divide

tra fiamma e bocca d’ammazzato e infine

la parola non detta, la parola

arroccata nel sorgere, ci aveva un-

c’era un ginocchio sulla pietra, un

parigliare di gemelli d’oro

alla vena slacciata, c’era un bruno

margine d’alba oltre il binario e allora

e allora il matto l’empio e il semi-bruto

l’empio e lo scempio il perditempo il prete il

balordo e lo sbronzo che di sera

batte la testa sul gradino, e ancora

la cecità la sordità il peccato,

la pazienza trafitta l’estinzione

l’estenuarsi a libeccio, lo stentare

ambidestro del gallo-banderuola

sull’impiovuta-l’impiovuta casa

che non-becca-non-morde-che non stride,

che sotterra le tegole, che dice

che pronuncia-non-dice-non-ridice

cade tra pezzi d’orologio, trama-

trama-trema-sospende, colma un vaso

mai posato nel muschio sputa al vuoto una

crosta azzannata un miglio in fuga

sulle creste dei corvi, l’avanzata, la

non-ancora-non-ancora piuma, l’af-

focato dio-salvi-la-regina, la

boccaccia e la smorfia, la

discesa.

 

Si udì un tratto di corda, lo scalciare

al di qua della vita, il breve ottuso

rantolo d’aria a testa in giù, l’ansioso

peso nel sacco giustiziato, il tenue

morso all’obolo d’oro, il già-respiro che

non osa curvarsi a troppa quiete.

Il silenzio nel fondo è come un uomo

pigiato in tasche di terrore, un nudo

sino a colpo di pelvi, è un gran puledro che

ha smesso a tempo di nutrirsi, un sale

da sacrilego gomito

versato. Io

R.J. Fischer, sono stato allora

partorito al silenzio, sono nato

da una trappola d’anime, compiuto

di fronte al nulla, forse scodellato

da un uggiolare che di terra in gelo ha

incrociato la nebbia, non ho mai

riposato mai dormito in

caverne scaldate da nutrice. Sono

nato pedone, divenuto

onagro ombroso ciuco cavaliere

con bisacce d’eclissi con pivieri

infilati alla monta son finito

Stato-Confederale nato Nato dal

principio di tutto, condannato

all’intuizione e a un testa-e-croce infame, ri-

lanciato a un John Wayne sempre sparato

da bella a colpo di pistola urlato, la

cicatrice sulla guancia come

uno sfregio tellurico, da allora dal

normale e il bandito bello-e-buono, ven-

dicatore innamorato solo

sopravvissuto alle detonazioni, io

riflessa placenta di suzione, io

R. J. Fischer, madre divorziata, originario di Chicago di

un ospedale senza scollature

d’infermiere educate, come come

un cinema sudicio gremito

troppo gremito dove il proiettore

s’inceppa sempre in pieno atto di sfida e  

lo schermo è un lenzuolo d’obitorio con

un geco incollato-spappolato

sul rossetto retrò di Marlene Dietrich. Mio

padre, un uomo senza età, un ariano un

tutto ariano un isolazionista so-

cialista nazista bello albino, a-

ladino sgusciato ai suoi alambicchi in

acrobatica vivisezione, e io R. J.F, io proprio il

figliol probo il pescatore il pesce cucinato

bruciacchiato vicino alle cascine - Brooklyn mi

sfece mi sgravò-Chicago-

io, Sen Pietro risorto al suo carcame,

io Bobby io Jimmy

Fischer Fischer

Fischer.

 

 

XXXVII

 

Tutti tacevano, e il tacere-cere

fu uno scialle bisunto fu un sombrero

dalle tese galattiche, sfondato, fin troppo

troppo-quasi sollevato, in

saluto e vertigine, calcato

sul pallavolo della testa, gonfio

d’ossequio, fu lo scivolare, l’in-

ciampare fra mine e mezzi fiori

d’un artigliere ai suoi calzoni grigi, un

mimetico salto alle araucarie. Il tacere

fu come se il perdono

si mettesse col diavolo, se il cielo

tremasse in altra moscacieca dal

medio gioco dalla mezza vita dalla

mezzana dalla meretrice

dalla salve-regina dall’unghiata

che mi amò mi tosò mi circoncise mi

schiacciò i brufoli mi scese-mise

in fiumara di piedi all’aspersorio che

mi prese mi trasse mi ri-tolse, mi

mi-nus-co-la-men-te mi sottrasse,

da Stone Mountain a New Hampshire all’Allegheny mi

negò i sacramenti mi convulse mi

sprofondò un naso camuso, questo

naso-sellaio, stralunato, pal-

leggiato nell’azzimo, nel

viso.

 

Ed io, lo sposo, il granchio al lato, io proprio

come Lot stretto al fuoco di Gomorra, poi

sottovento d’incestuoso seno io

colonna di sale sposo-sposa da

traversa a traversa io provocato a

tarantola e patta io che pattato

cavo la vista cavo gli occhi cavo

la miopia l’albinismo lo strabismo

l’inibizione e la cadenza senza

magro di feste senza luce io

il barbiere il chirurgo il ciarlatano il

cavadenti che di coca in stame

strappa l’erba ai sepolti ara coltiva

campi e prati minati io giardiniere, a-

bitando laggiù disabitando

la stamberga la casa la Troiskaia,

uscendo-entrando-rincasando-stando

a gambe larghe sul bidè sostando di-

rimpetto all’acquaio al bagno in piedi di

soglia in soglia di lavacro in strame di

di menorah in altare in campanile io

gargolla ingiuriosa umida oscena io

padrone io padrone io sissignore mon-

signore prelato. Io, pieno

Sire.

 

 

XXXVIII

 

Ora a te,

padre silenzioso, ora

che il pubblico ha la guerra ai piedi e

il campo è piccolo di foglie con

più piccole foglie, con più brevi

cascate d’anime e di rami, ora

io butto i geni nell’elemosiniere

del tuo sudore a mani tese, io vado

torno al seme zappato torno vivo

brucio e brucio al tuo rogo mi commuovo

al rastrello e alla gomma io prego prego

ti riconosco-disconosco sono

e non sono il tuo tallone il tuo 

calzascarpe d’avorio il tuo più vero

luogo di lutto io sono e più-non-sono

sono e non sono la tua parte ma

ti ninno al flagello ti conduco

al mio kaddish di fragole ai miei ulivi ti

bestemmio e t’insulto ti rinnego ti-

pronuncio-il-tuo-nome-in-vano-in-vano, io ti

spugno le piaghe io ti perdono ti

reclamo e ti esecro io tocco lavo

la tua calvizie la camicia a brani

che ti frusta la schiena ti confina

tra lavandino e eternità t’irride io

rovescio le palme delle mani

ai tuoi no di maestro al bacchettare di

tutto ciò che ti-sul-capo iscrive

re-dei-giudei ti spinge anche ti nutre dal-

la fossa dei poveri al tuo calamo

di piombo fuso al lento cigolare

della tua stilografica io sono come il

tuo sudicio allievo il tuo assassino io

su-di-te-contro-di-te mi vedi io

mi rannicchio nell’angolo io quasi

m’insabbio in te io come un boia io pure

confortatore io quasi-appenditore

per non farti soffrire al primo tratto

dò la morte indolore, scacco

matto.

 

 

(novembre 2011 - marzo 2012)

 

 

______________________________________

 

Note al testo.

 

Per comporre il poemetto Bobby Fischer, ho studiato a fondo la vita e il carattere del campione di scacchi statunitense (Chicago 1943- Reykjavic 2008) e ho consultato, purtroppo con scarsi risultati, diversi manuali sul gioco degli scacchi. Ho inoltre letto il breve volume Psicologia del giocatore di scacchi di Ruben Fine – Adelphi, 1972 – ed ho ascoltato alcune interviste rilasciate da Bobby alla televisione e ai giornali americani.

Mi si perdonerà se quest’opera, pur incentrandosi sulla vita di un uomo realmente esistito e morto di recente, gli attribuisce, con una buona dose di libertà e di fantasia poetica, taluni tratti e aspetti psicologici e così pure un tipo di “discorso interiore” che non saranno forse totalmente inerenti alla realtà  Ho comunque cercato di attenermi quanto più ho potuto ad una “anamnesi” come direbbe Freud, propria del suo carattere e della sua irrequieta biografia.

Mi auguro inoltre che si chiuda un occhio sul fatto che della vera e propria tecnica del gioco degli scacchi entri ben poco nella mia invenzione nonché su alcuni anacronismi relativi al contesto storico e socio-culturale degli Stati Uniti d’America e a certe fasi della vita di Fischer.

 

 

I film a cui si allude nel poemetto sono:

Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman

Psycho di Alfred Hitchcock

Cool Hand Luke, in italiano “Nick Mano fredda” di Stuart Rosemberg

Mezzogiorno di Fuoco di Fred Zinnemann.

I modelli vetero e neo-testamentali sono evidenti.

I calligrammi si riferiscono alle figure del gioco degli scacchi.

Le frasi e i sintagmi in inglese si rifanno ai dialetti del Missouri usati da Mark Twain in “Le avventure di Huckleberry Finn”.

 

 

Le citazioni, le allusioni, i “tributi” intenzionali e no, riconoscibili o meno sono da ricondursi a:

 

Dante Alighieri, Sigmund Freud, Friedrich Hölderlin, Arthur Rimbaud, E.T.A. Hoffmann, Herman Melville, Nathaniel Hawthorne Lewis Carroll, Mark Twain, Jack London, John Steinbeck, Arthur Miller, John O’Hara, Eugene O’Neill, Edward Albee, Dylan Thomas, John Fante, Allen Ginsberg, Martin Luther King, Francis Scott Fitzgerald, T. S. Eliot, Wlliam Carlos Williams, Ezra Pound, Luigi Pirandello, Amelia Rosselli, Eugenio Montale, Michael Cunnigham, Carlo Collodi Le rime inglesi di Mother Goose  

 

 

Nel linguaggio di Fischer mi sono riproposta di accennare a grandi linee all’espressione “ottusa” e “reiterata” delle persone affette da sindrome di Asperger, una forma di autismo “intelligente” di cui si dice che soffrisse Bobby.

Per una strana ironia del destino, la madre del campione si chiamava effettivamente “Regina” Wender ed era una infermiera svizzera di origine ebrea, da cui le munerose allusioni presenti nel mio testo, mentre il padre, Gerhardt Fischer era un fisico di origine tedesca.

La “sedia elettrica a due posti” è ovviamente un’allusione a Sacco e Vanzetti.

Ho giocato con le parole fisher (pescatore) – pescatore – pescare

Per non annoiare il lettore con troppe note, trascrivo qui unicamente i significati delle citazioni più importanti o remote al contesto italiano.

 

1. Tramp tramp tramp the boys are marching marching

    To arms in Dixie

    Rose of Alabama

sono marce militari dell’epoca della Guerra Civile Americana.

 

2. Humpy Dumpy è un ometto a forma di uovo che si trova in “Alice attraverso lo specchio” di Lewis Carroll. Antonin Artaud lo tradusse in francese nell’ospedale psichiatrico di Rodez.

Wee-Willie-Winkie è il bambino del sonno in una celebre nursery rhyme scozzese.

 

3. Gli Okies sono gli abitanti dello stato di Oklahoma, guardati con disprezzo dai californiani ai tempi della Grande Depressione, protagonisti del romanzo “Furore” di John Steinbeck.

 

4. Il Graf Zeppelin era un enorme dirigibile tedesco varato nel  settembre del 1928 e a proposito del quale rimando a Allen Ginsberg,e al suo poemetto “Urlo”.

 

5. Jesse Woodson James (1847-1882) fu un soldato confederato originario dello stato del Missouri, divenuto bandito subito dopo la Guerra di Secessione.

 

6. Thathanka Lyothanka (letteralmente “bisonte maschio seduto”) è il vero nome del condottiero nativo americano conosciuto in Italia come “Toro Seduto” e, nei paesi anglofoni, come “Sitting Bull” (1831-1890). Appartenente alla tribù Hunkpapa del popolo Sioux, si distinse nella celebre battaglia di Little Bighorn (25 giugno 1876) dove ottenne una schiacciante vittoria sul Tenente Colonnello George Armstrong Custer.

 

7. Woodlawn (Woodlawn Cemetery) è uno dei più grandi cimiteri di New York, situato nel quartiere del Bronx, riguardo al quale rimando nuovamente ad Allen Ginsberg e al suo poemetto “Urlo”.

 

8.Il Sephirot o “Albero sefirotico”, include, secondo la Cabala, i 10 attributi o qualità di Dio, corrispondenti ad altrettanti nomi .Le varie denominazioni presenti nel poemetto sono state tratte dal calendario delle festività ebraiche.

La menorah, lampada eterna di Gerusalemme è simboleggiata dal lume Ner tamid  situato sull’Aròn, arca-armadio, all’interno della Sinagoga

 

9. Nat Turner (1800-1831) Fu uno schiavo nero, leader della famosa ribellione avvenuta in Virginia il 21 agosto del 1831, che terminò con il drammatico eccidio dei rivoltosi e con l’impiccagione dello stesso.

Mistress Putnam e Mister Hale sono personaggi del dramma di Arthur Miller “The crucible” (“Il crogiolo”).

Al Greco è anch’egli un personaggio del romanzo “Appuntamento a Samarra” di John O’Hara.

 

10 Sergei Mironovich Kirov (1886-1934) è il celebre politico bolscevico assassinato all’epoca delle grandi purghe sovietiche.

 

11. Lo Troiskaia è la storica torre per cui si entra al Cremlino

 

12. Lo cholent o shalet è un piatto tradizionale della cucina degli ebrei askenaziti.

Le frasi in inglese riproducono il dialetto dei neri del Missouri, usato da Mark Twain in “Le avventure di Huckleberry Finn”.

Il termine americano “hangover” definisce lo stato di malessere fisico e psicologico posteriore alla sbornia.

L’“asado” è il termine sudamericano, più specificamente argentino, per barbecue.

Padre del discorso “I have a dream” di Martin Luther King sarà riconoscibile nella citazione in corsivo.

Per capire certi elementi metaforici di radice “aneddotica”, invito il lettore a rifarsi alla biografia di Bobby Fischer.

 

 

Cristina Vidal Sparagana

 

18 febbraio, 2012

 




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