CHECKPOINT POETRY
MARZIO PIERI
 





La mia miciona è diventata magra:

altro male non è il suo che un tumore.

Sarà libera presto; resto solo al terrore.

La vita è inferno

per chi fu felice.

Ha 80 anni: mi dicono.

Per me solo 14 e l’eterno.

 

 

 

PRE-TOMBEAU

PER L’ITALIANISTA

FUORI PARTE

 

 

                                                                                in ricordo di ottieri, betocchi, e fitzcarraldo

 

 

e dunque qui finisce la Commedia:

siete qui intorno che mi applaudite,

meglio, mi festeggiate. non me l’aspettavo.

l’idea di questo libro non è mia;

il dono, amici, è grato ma immeritato;

se lo sapevo prima ve ne avrei stornato.

la Commedia finisce, non ancora

quel di vita lucignolo che mi resta.

riconosco, con gioia, nei vostri modi

di scrivermi (ha ciascuno il suo, di certo)

i vostri visi, ognuno mi ricorda

in vicinanza o per confidenza più antica

dei morselli di vita che ho trascorso.

non dirò di stefania: è stata lei la scintilla

di questo persiflaggio; forse, come brünnhilde,

la walchiria disubbidiente, ha letto un mio segreto

rincrescimento di uscire, così, come un fagotto di stracci,

dal luogo di lavoro dove venni, tutto spaurito

nel 1968. Non sapevo che era ‘il Sessantotto’,

prendevo tutte mattine la corriera del ponte alle mosse

e scendevo alle mura di pistoia...

un tardo pomeriggio, le ore di scuola

coi miei ‘bambini’ scesi dai boschi del pistoiese

si erano prolungate in un eterno consiglio di classe

da scervellarsi sopra il sesso (innominabile) degli angeli

una telefonata di mia moglie (di quelle che ti gelano

il sangue, per non essere attese, in quell’orario)

«il prof pesce ha telefonato da parma,

dice che ci sarebbe una borsa biennale di studio

ma devi dire sì o no entro domattina»

la vita è fatta per prenderci di sorpresa,

non so dove l’ho letto: ma so d’aver applicato

la formula al mio idolo giuseppe-

-verdi “l’arte doveva tendergli delle imboscate”

insomma io non avevo mai pensato

alla università, nemmeno entrarci con la punta biennale

d’una borsa di studio... una dizione

che avevo letto prima, il tempo era davvero

volato, azzardo dunque: un quindicennio prima,

sul “Vittorioso”... ove talvolta fumettavano

delle storie ‘realistiche’, borghesi o periferiche,

eccentriche rispetto ai pirati

della tortuga ai martiri cristiani

ai cavalieri delle praterie di chiletto

deluca giovannini caprioli

che faceva le ombrìe con dei puntolini

– e alle esorbitanti monellerie

di jacovitti che ci stava stretto

lurco prefelliniano, enorme, mèmore

di bordelli e ingordigie trimalcioniche

(non per nulla chiamavasi benito)

sul giornalino dei bambini accedere

al kamasutra gli era proibito

 

Così dissi di sì, per telegramma,

inizialmente fu soltanto un anticipo

di un’ora della sveglia – m’era caro

prendere il treno delle sei meno cinque

coi pendolari ancora addormentati

ventura di venture era sentirmi uno di loro – e, appunto, il cambio

della corriera col treno.

Il passaggio degli appennini,

il ritrovare quando comincia ad allargarsi la valle padana

i grandi paesaggi cinematografici,

i campi di grano dell’Uomo del West,

le ‘proprietà’ a perdita d’orizzonte

del Fiume rosso di Duello al sole...

Il “prof Pesce” era stato il nostro professore

al liceo, poi d’estetica a San Marco

ci voleva bene, era un padre giovane, si delirava per lui

che fra Croce e la chiesa – incomponibili

fedeltà – aveva trovato un suo luogo

linguistico (caratteriologico)

uno che non metteva comunque nelle ciotole

degli allievi la repulsiva sbobba

di patate marxiste di luganeghe

storiciste... sembrava un mostro, ed era

o pareva la voce del vero

infine un rinunciare alla retorica che smangiava le mura

e i muriccioli, in un rosso di sole che sfibra...

Fu un paradosso, ma tanti maestri fiorentini

certo più dotti e ambiziosi di lui

pareva che però, fuori dalle finestre dello studio,

vedessero ancora gli anni trenta, la Spagna

gli astratti furori che in pochi

s’erano ritrovati a condividere a tempo

– o l’immediato dopoguerra

un impazzito formicaio sul quale alfine piovvero

a calmarlo e sviarlo,

le fiumane di dollari del piano marshall...

Pesce era uno di noi, lo si vedeva

alla fermata dell’autobus, sulla porta

di un cinema, incantato

alle vetrine di una libreria...

anche magari al bar, intento a consumare

in fretta una tartina...

Ma incontrato una volta, dalle parti

di via Venezia, sui viali

fra Sangallo e la piazza Donatello,

nera sul cimitero degli Inglesi,

ci aveva detto parole misteriose:

‘forse vinco il concorso (?), dovrei essere

chiamato a Parma’. E andò così,

e fu anche rottura: per esempio,

mia moglie aveva in ponte una tesi (su Klee)

con lui ma divenne formalmente impossibile

col suo trasferimento ‘al magistero’

(altro nome, per me, – disinteressato sempre,

per non dire più esatto: impreparato

alle etichette, ai luoghi burocratici del ‘reale’

che poi, ben lo sappiamo, son gli unici a spuntarla –

enigmatico nome) insomma mai

avrei pensato di poter contare su di lui

se avessi avuto qualche ambizioncella.

A me pesava solo, e quello molto,

il silenzio, il bavaglio che mi sentivo imposto,

la mordacchia;

fermentandomi dentro

un irrepresso bisogno di esprimermi

(certo suona ridicolo, anche osceno) ‘nella’ scrittura.

Anche qui, se vogliamo, era bastata una sostituzione

(come dal bus al treno). Fino al liceo

mi credevo un poeta: ‘dai cieli bigi...’

servì a schiarirmi l’università:

la mia parte era quella del rammentatore

del buttafuori dell’operaio che veglia

alle luci, al reòstato; del vaglio

di copioni o copista delle ‘parti’. Ben prima dell’eroe

di Steiner fui maestro correttore di bozze; solo ora

ne capisco il finale: – corre a iscriversi

a un partito nel pieno d’una sua

caporetto,

illuso d’esser l’unico che possa

correggerne i refusi. Semper abbas!

L’addio al liceo si era dato il quattordici marzo del sessanta,

al teatrino degli Artigianelli,

sacro alle memorie di Saba, alla

‘liberazione’: un pomeriggio

di recita, con quattro copioni nuovi,

i primi tre di un atto solo; il mio,

barocco prima del barocco,

aveva il ‘suo’ prologo e il ‘suo’ intermezzo,

come le colazioni degli albergucci marini

the o caffè col ‘suo’ bombolone o con la ‘sua’

fettina di limone fra un primo atto e un secondo. C’eravamo tutti

(strapregato, il “prof Pesce” non volle venire)

c’era francocardini e il primicerio,

cattolici e indipendenti, l’uno di destra

allora famigerato, amico mio del cuore,

l’altro della sinistra lapiriana,

e c’era uno anche finito cuoco

(di lusso) in jugoslavia

e la sua bellissima fidanzata

nicoletta rangoni machiavelli

futura stella minore del cinematografo

e io me la prendevo con le menzogne dei politici dei comunisti

(li trovavo identici ai cattolici)

con la Resistenza del giovedì grasso

col vano sacrificio di chi ci era morto davvero

e, se viveva, magari, anche lui diventava menzognero...

(finivo con un piripacchio,

“la vita è un gioco di specchi”:

ero barocco e allora non lo sapevo).

Fui l’unico applaudito, coronato

di un lauro, per celia, dai compagni.

Ma, questo sia suggel ch’ogn’omo sganni,

io all’università ci finii di sorpresa,

non coltivata, e forse per un equivoco.

A chi legga, nel libretto che qui si congeda,

un mio oroscopo – “Venere in pesci”,

fra le mie stravaganze c’è quella di avere avuto

una unica donna, per la vita, nata appunto nel segno dei pesci

suggerisco di aggiungere che anche il mio Mercurio

(il mio Marte, per dirla con un Mamphurio)

fu in piscibus. Non so se è regolare.

Altre memorie? L’università non era quello che mi sarei aspettato.

“noi andavamo cercando” (paul nizan)

“qualcosa di reale da mettere sotto i denti

ma essi ci strapperebbero il pane di bocca!”

E sia questo suggello davvero, su un cofano che vorrei gettare ai granchi!

Dal sessantotto a oggi, fanno, d’anni,

quarantadue, a recitar la parte

del cigno nero fra candore tanto.

Fu certo una pedata datami a tradimento

(ma ce n’era bisogno? ero indifeso,

non previsti né Ursus né Maciste,

neanche Bracciodiferro coi suoi spinaci,

e dunque? mi venne in soccorso,

amico ritrovato, quello che aveva stroncato le mie

cento e cento e cento pagine del Libro svelato,

su la poesia del Marino, del marzio tentato

dal fustigare il culto dei luoghi comuni:

etica, non poetica! – se n’è accorta,

arrivata per ultima, quando nessuno

più l’aspettava, proprio alla vigilia

della stampa giovanna ioli: – il mio

cordoglio mascherato sulla morte

dell’arte

«il tuo non è mai stato un gioco letterario,

ma oggi come ieri è stato pur sempre un lamento

funebre sulla morte dell’arte, che trova il suo ‘luogo

dell’Utopia’ all’interno del testo»

e non è mai la forma in sé che muore)

 

che mi scagliò a quarantanni, ancora

assonnato,

sulla punta di spillo di una cattedra.

L’equivoco metteva spire.

Si disse che avessi brigato per togliere la direzione

dell’istituto di parma alla insigne,

bisbetica e a me ostile, a me carissima,

maestra che n’era stata la fondatrice e direttrice

per quindicianni: si dimise Franca

Ageno (“sono Brambilla da Milano”)

un pomeriggio che non andai a un consiglio

d’istituto (era all’ordine del giorno:

“fotocopie”)

per essere riuscita in minoranza

sulla richiesta di concedere ai membri

dell’istituto un ‘prezzo politico’

per le fotocopie di cui facevano un uso immòdico.

Scoprii che amavano stare

nell’università per status symbol

(“riverito, professore... servosuo, gentile professoressa”)

ma odiando i libri come costo e ingombro

inutili. Marxisti idealisti.

Anche questo è qui un nodo da risolvere,

non sarà troppo tardi: donerei

a ciascun aspirante alla carriera

degli studî quel libro di S. S.

Prawer, La biblioteca di Karl Marx.

Non era peranco un Leopardi

filosofo, filologo eccellente

topo di biblioteca declamante

tenore (qui mi butto)

dell’“infinita vanità del tutto”;

Marx (come Darwin) dribbla la poesia

il cielo stellato sopra di noi non lo riguarda

lo riguarda il dolore nella terra

un dio non c’è nemmen da bestemmiare

da allora ci ripete hic rhodus, hic salta

hanslick aveva ragione: se una stessa

melodia deliziosa vale “che

farò senza euridice” o che farò

“con euridice” la bellezza è falsa

e dunque aggiungerei anche una copia

nel gotico che sa di piombo e pietra

ma non di carità non di speranza

di Das Kapital – qui, la differanza

 

quant’aria dal bel viso mi diparte

brecht aveva capito se non altro

come rimedio ‘heroico’ (il buttare

uno che abbia il tètano in acque gelidissime,

se non muore si salva) che conviene

tradurre in generale l’essenziale

del tosto ed inamabile

(ma quando mai fu amabile

lo scavo di miniera?)

Libro del Barbatissimo Tedesco,

in mottetti e strofuzze metastasiane,

o kurtweilliane... strawinski non bartok...

(e jacovitti meglio di guernica)

 

il piacere non è catastematico

quello è, vero piacere, che non dura

così la verità vola come le foglie

bugie soltanto hanno le gambe lunghe

libera come l’aria verità

bugia placcata in stampi di retorica

aere perennius...

la mia gatta innocente, moribonda

l’essere più vicino a perfezione

a carità

fra tutti quanti mai ne abbia incontrati

serena non (come dicon gli stolti)

per ‘non sapere’, perché, invece, sa

tutto sa e tutto compie, in ubbidienza

da miliardi di anni, di rivolte

del cielo, (si scendeva nel giardino

dei dì felici, a ritrovar le tracce

per una volta ancora),

ora che invano, in casa, la tentavo

coi croccantini amati, coi bocconcini

di cui era felice, strofinandosi

alle gambe per dire: dammene ancora...

nelle ultime strisce di sole di un autunno

venuto molto presto, o troppo puntuale

quest’anno,

o scendendo di notte, nelle ombre

che ai suoi occhi (“occhiverdi”, la chiamavamo)

non serbano segreti, a una mano

di foglia intrisa d’umido, sul pèrso asfalto,

alla goccia di gioia d’una capocchia d’erba

all’aspro odore – a lei vietato

da me stolto finora – della piscia d’altri animali

sulle gomme delle auto in sosta

al piede degli alberi sofferenti

del viale attoscato dai veleni

degli strumenti umani

strappava ancora, come un’allegoria

ed un ammonimento (“àbbi coraggio!”)

una materia di felicità

 

Ché i momenti felici non mancarono mica,

nella storia di un uomo in fondo solitario, timido,

nella ‘carriera’ di un cavallerizzo

erratico

dondolante (mai scudiero) ma –

mio padre, un poco come il padre ‘tragico’

di nizan (vd sartre), a sedicianni

donandomi i ricordi di beniamino gigli

dettati a un giornalista americano

come in persona prima (io, io, io, io...)

appuntava una dedica terrificante

«a marzio

con l’augurio che riesca ad affermarsi»

(a me dispiacque averlo, e insieme piacque,

deluso)

 

quando giancarlo mazzacurati

che dopo mi avrebbe scritto di gran belle lettere

puntando su un potere di decisione

‘baronale’ che mai fu mio nemmeno

se avessi rinunciato, per averlo,

a quella cosa trascurabile, l’anima

telefonò (vedete, quanto telefono

nelle nostre storielle anche di comprimarî)

per dirmi: “parti? (si era infatti con le valigie pronte

per portare i bambini al mare

dove nessuno mai mi vide a prender sole

l’oroscopo ci ha dato) “qui è finito

tutto, ce l’hai

fatta, sei in cattedra”,

tirai un respiro e si arrivò in centro

a prendere un gelato coi bambini

un “orlando furioso” per me

consapevole che ora avrei dovuto

(non c’è cristi) farmi un “italianista”

 

e l’invito di nino borsellino

a tenere una conferenza a roma sul tasso

(non m’ero accorto ch’era un anno tassiano,

non mi tengo ai sollemnia calendariali)

e ne nacque un librino di qualche breve fortuna,

Tasso e l’Opera; – tessei una tela

che poi parve incompleta e solo valida

per me la telefonata di walter: (non ‘il’ binni, pedullà):

“ti affiderei il seicento per i miei cento libri

nella doppia funzione di scrittore-prefatore e di allestitore

della silloge...” dunque c’era chi non aveva avuto

difficoltà nel capire i miei moti di ragno

dentro le colle dello scrivere...

e la seconda, da un treno che correva in continue

gallerie

facendo cadere l’ascolto: “fammi i libretti

d’opera...” e come aveva capito

ch’era fra i miei desiderî impossibili

nessuno era stato chiamato a curare due tomi

della collana spuntata fra i due millennî,

collana ritardata, accidentata, nata forse senza maturazione adeguata

ma anche un ercole in fasce può strozzare

chi non capisce che in lingua italiana,

che poi son una e tante, lingue diverse,

sparse “sul territorio”, lungo secoli,

si riesce a mettere insieme 130 mila pagine

in-folio

in gran parte leggibili, fra Dugento

e Novecento... autentici ‘antimeridiani’,

frastaglianti ma propositivi

una doppia anima, come lo scrittore

che pei lettori di oggi vale l’italo svevo

di quelli che crescevano fra la spagnuola

e carne del carnàro... dico stefano

d’arrigo

doppio come le vette di Parnaso

l’Horcynus da una parte e, in cima all’altra, Cima

delle nobildonne, il mare-madre

e la madre placenta: – ‘indi trarrem gli auspìci’

avrebbe detto quello dell’Amazzone

caduta da cavallo, infesto al Gadda...

 

Sono nato a Firenze; fra i lungarni e le cascine,

la domenica dopo la messa non era raro

che scarpinando per erte brevi ma non tutte facili

ci si portasse col maestrino

di catechismo verso bellosguardo...

introiettando il foscolo prima di averne

nemmen sentito il nome.

Fui disposto alle Grazie, molto prima

di avere letto gli inviti di derobertis

la cultura era questa, qualcosa da bere

coi pori della pelle

con l’attenzione fiduciosa e vibrante di un animale all’aria.

Alla stessa maniera si era introdotti

ai segreti del cinema (che non sono mai quelli

dei prontuarî e dei dizionarietti corrivi),

alle estasi del melodramma.

Cose catacombali, pronte a esplodere.

Una mattina salpi con le vele al vento

con l’aerostato imbandierato

con la voglia di non tornare.

Hai voglia, sennò, di lauree

triennali, di piani

quinquennali

se mi avessero detto, allora, studia, impara

mi sottraevo come un indiano a cavallo

 (che in indianese deve dirsi mustang)

 

e dunque il mio grazie va a tutti, ora,

quelli che qui si adunano e mi sorridono

(m’inquieta, ma non protesto,

un funebre verso del mio poeta vittoriosereni)

ma molti fra voi avranno anche a memoria

quel film di albertosordi

col funerale del clown che inizia in lacrime e finisce

in lazzi e pernacchiette più appropriate

al morto e solo pochi penso avranno

contezza

della seconda opera di puccini,

l’opera “maledetta”, Edgar, ripresa

a bologna al principio dell’estate

l’ultima volta che son stato all’Opera

con la macabra truffa del demonico

protagonista – si fa creder morto

in battaglia, assiste sconosciuto

ai proprî funerali, travestito

da frate, e si rivela, a cose fatte,

e condanna se stesso e maledice...

 

non sto a ridire il nome di ciascuno

di voi se ne inghirlanda il frontespizio

se ne abbellisce l’indice

se ne rammiela questo mio cuore

vecchio, mai sazio di ricordare

Nel ricordo, nel ‘ritornare a cuore’

molte cose si riconciliano, come andando molto a lungo

in autostrada, con la radio accesa,

riescono a stare insieme l’ora del pop

l’angolo del jazzòfilo

i sei atti di un’opera donizettiana

le previsioni meteo onninamente sbagliate

solo nel caso fossero favorevoli

 

C’è stato un tempo ch’ero convinto

che si dovessero leggere tutti i poeti

ora mi accorgo che non è possibile,

sia servito almeno da fiammella

accesa sull’ampiezza dell’entrare.

Quanti di voi hanno riconosciuto

nelle parole messe, di sopra, in qualche ordine,

il saluto ai lettori dell’Approdo

del redattore ‘storico’ carlo betocchi

(col monologhetto di ungaretti

e il verso lungo di bertolucci

in camera da letto fra i versi del novecento

italiano che ho amato dipiù),

– una goffa imitazione, lo si sapeva fin dapprincipio,

la mia, ma pure dichiarata

certezza: si è sperimentali in tante di quella maniere)

si ricordano che, in quei versi,

il poeta di Realtà vince il sogno

evoca i tempi che, nella vecchia stanza

di via Cerretani, a Firenze

(ma il nome bastava) ― «fattasi sera,

dall’angolo di Santa Maria Maggiore,

lei mi chiamava: – Carlo! ed io accorrendo

alla finestra: – Eccomi! Le gridavo...»,

così che la già, un tempo, bella strada

della oggi così umiliata, così stroppata Fiorenza

sembra che si trasformi in un duetto

della Bohème, fra i tetti di Parigi...

ebbene, via Panzani via Cerretani (lussuoso

budello che va a sboccare nella piazza del duomo)

Santa Maria Maggiore... sono luoghi

che mi porto cuciti nelle viscere.

In via Panzani correvo, ogni mattina,

nanerottolo (da casa erano poche

fermate del tramvai, oltre la porta a prato)

con la nonna instancabile, anche lei viscerale

melodrammatica

(da ragazza ‘faceva’ Ristori)

a crescer la collezione dei soldatini:

oggi penso agli dèi. (E la vocina

tenera, supplicante, benché mai

io gli abbia detto ‘no’, di un nipotino:

nonno, quando vieni, me lo compri

un bakugham? –  [son nuovi balocchetti,

solidi e prismi inediti, colori stravaganti

di un mondo dove, come è giusto, gli uomini contano

sempre di meno],

sulla via Cerretani davano librerie

e avrei voluto saccheggiarle tutte

fin dall’infanzia... A Santa Maria Maggiore

si andava con mio padre, praticante

intermittente, ed io pronto oramai

a porre un vallo fra la mia mente e una fede

cui non prestavo fede ma mi teneva,

a volte, in certe chiese meno pantofolaie,

l’oscura bellezza dei riti, lo accompagnavo

e seguivo la caduta dei fasci di lume dalle vetrate antiche,

come in un Robin Hood, come nel parsifal...

con quei cori che avrei riconosciuto

nel Don Carlos o nel Palestrina...

negli anni della università (nel palazzo

accanto alla RAI, sboccando nella via dei Vecchietti)

con la mia fidanzata ci si fermava sul portone

ad aspettare, a lungo, sempre in ritardo,

che uscisse dall’ufficio il babbo di lei,

allievo di La Pira e di Calamandrei,

un avvocato che non volle mai far soldi

nemmeno quando uno scellerato chirurgo lo sprofondò nella cecità...

chissà, gli anni, i tempi erano quelli,

che a volte non ascoltassimo, sul fragore

più modesto degli autobus, fattasi sera,

quelle due voci che si chiamavano.

Ed a quel punto si tornava a casa,

non “a braccetto”, ancora in case diverse... Io,

tornavo a piedi, solo a piedi

s’impara a riconoscere una città.

Ecco, voglio offrirvi un sorriso che vi liberi

dal tono sempre troppo ricattatorio

d’uno che dice grazie d’uno che dice addio:

anche la letteratura ho voluto conoscerla coi piedi.

Mai fui barocco e ora lo sapete.

 

 

 

 

*  Da Il viaggiatore impolverato (per marziopieri che lascia l'università), La Finestra Editrice, Lavis 2010.

 




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