Testi da: Index Vacuus (Edgewise Press, New York 2004)
IV
Resti raggiungibili,
da qui, e niente che divida
dalla perduta completezza
della voce, nera di suono
quale tamburo
gravemente tenuto
alle ginocchia
mentre scivola nel tempo
che sotto, infuriato
come acqua di mare
dentro un fosso — tempo,
aureo accanto al morire
tenace fra le ombre,
mentre le bestie son salite
all’orizzonte, a mai non dire
– donna – dove il pettine
ricami i tuoi capelli, mai
dove s’inverino le onde —
ecco, flutti per sempre.
XIX
Qualcosa, dove
germoglia il transito,
lungo la via
dell’estinzione delle piante.
Qualcosa d’incompleto,
letto rimasto
dopo il morto addio, che
difende sua misericordia
mentre si riordina la stanza,
mentre al davanzale
si dimentica la rosa,
sopra
l’assoluta direzione
dei fiumi.
XX
Settimo giorno interminabile.
D’altra parte, non fu difficile
disfare il fatto, revocare
ricordi, e lacera adunanza
su l’usata terra. Pure
uno di noi con un sospiro
assapora tutti
nella notte di Shabàth —
zakhòr! le nostre provviste,
le utili spose delle nostre lodi.
XXII
Un niente, un
vuoto
di memoria, tolse vento
al fogliame. Briciole
di pane raffermo
caddero indietro.
Talora si stanca il vero,
come la gente al pensiero
del giorno dopo
del giorno dopo,
sempre a seguire l’orlo
temuto rovinoso.
XXX
Quante,
l’una sopra l’altra
quante vesti,
e padri senza prova,
pesanti per le vie.
Conosciuta alfine
– e consentita – fune
tesa fra due aldilà,
fra due stranieri presagi.
Crescita gemito
separazione.
XXXIII
Qualcosa d’irreparabile:
una luce spensierata
a leggere penombra.
Non battere moneta
in questo bosco,
su cui gravita il falco
che ha negozio
fra gli sterpi,
e non farti animo.
XXXVIII
Gli inni non sono teneri,
e stomachevole ogni prova
d’esser popoli in sfilata
nel downtown della storia.
Nell’angolo di quel sorriso,
ignaro cantare — passa di lí
la solennità del tempo,
la sua voglia la sua brace,
storditamente passa.
XLIII
Quando, oltre i vetri,
tra esperti sospiri, si guarda
un’illustrazione della luna,
o ci scontenta nel fare
altro rancore, si perde
la bravura del presente
(come sommariamente dissi
a un gatto di passaggio),
quasi non bastasse a sé
ma fosse
tutto che ci attornia
bisognoso.
Tormenta me
solo
l’indipendenza del tufo
presso le case?
XLIV
Libeccio,
irragionevoli
esaudite voci
da chi rovente
su colline d’aprile,
unendosi
al facile mattino d’erba,
e incertezza nessuna
a separarlo, se non timore
di salvare oltre l’attimo
la gioia.
Avvenire,
firma di pubertà
sotto rovine.
XLV
Nel ragionar
della brace
tra la cenere, o nell’affollato
delta del fiume, prima
che si confonda, ci sarà
un desiderio di fermezza,
di gloria minore,
un prolungato esercizio
di povertà
che eluda il mutamento,
l’idea di un passo leggero
senza precipizio, oppure
nient’altro che una lezione
d’agonia — una sola lezione,
per mancanza di tempo?
XLVIII
Nella
cronologia
di una rosa,
ha maggiore rinomanza
lo sfiorire. Non si deplori
la malinconia: questo
è il giorno seguente,
la solennità del rastrello
sulla ghiaia, lo stelo
che sotto il cielo lucente
deve risalire
come un sonnambulo.
Ma eunuchi di
primavera
nel giorno divulgato —
pochi discepoli,
avanzi di un raccolto.
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