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di Leo de Berardinis *
Leo de Berardinis
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Ogni tentativo poetico è una sperimentazione, per
cui se il Teatro è un tentativo poetico è inutile aggiungere il sostantivo
sperimentazione.
Bisognerebbe invece fare una differenziazione tra
evento teatrale e spettacolo.
L’evento teatrale è un processo che si svolge in
uno spazio-tempo reale in cui tutti sono partecipi, sia attori che spettatori.
Lo spettacolo è una rappresentazione in cui il
pubblico è spettatore passivo e, molto spesso, l’attore è un esecutore,
altrettanto passivo, dell’autore o del regista.
In effetti tutta la poesia, non soltanto quella
teatrale, è sperimentazione, in quanto dovrebbe innescare un processo
conoscitivo che produca idee nuove anche a prescindere dalle intenzioni dell’autore.
La differenza importante è che presumibilmente un
quadro, un libro non mutano se stessi mentre in teatro l’attore dovrebbe essere
in contatto col pubblico, aprirsi ad intuizioni sconosciute di se stesso. Si
potrebbe quasi dire che l’arte scenica in generale è l’unica forma d’arte in
cui avviene – o dovrebbe avvenire – una mutazione seppur momentanea, piccola o
grande, di tutti i partecipanti al processo.
In questo senso si può accettare la parola
sperimentale in teatro, nel suo vero significato di esperienza che non
riproduca l’esistente, il già noto.
Ed è solo l’arte scenica l’unica in cui il corpo
dell’artista stesso diventa poesia vivente. Naturalmente il corpo non si
intende solo nella sua fisicità ma in tutte le facoltà psicosomatiche dell’individuo.
Ciò non esclude che un attore possa stare in silenzio ed immobile e non obbliga
il violinista a parlare; l’importante è questo diventare poesia e non prodotto.
Detto questo, è evidente che per me non sono
valide tutte le etichette di ricerca, avanguardia, teatro immagine, eccetera,
in quanto soltanto classificazioni schematiche e razionali, che niente hanno a
che vedere con l’artista, sempre unico e irripetibile.
Come in ogni forma d’arte anche l’attore
sperimentale non è che la sua autobiografia; questa autobiografia è esemplare,
conoscitiva di se stesso, e suscita nella collettività in cui avviene l’evento
un analogo tentativo di autoconoscenza non di massa ma individuale: ciascuno a
suo modo.
La presenza del pubblico è essenziale per creare
dei campi magnetici forti perché ciò avvenga, e non è soltanto la quantità dei
partecipanti a determinare questi campi magnetici, ma anche e soprattutto la
loro qualità. La qualità non si deve confondere con l’intellettualismo, con la
conoscenza intesa come informazione, ma è da intendersi come disponibilità,
fiducia mentale e amore del rischio.
Così come c’è una conoscenza come avere, c’è
anche una conoscenza come essere: cioè vivere la conoscenza. Ed è per questo
che io dico sempre che non faccio Teatro ma sono e siamo Teatro nel momento in
cui l’evento accade.
Da un’esperienza simile l’uomo dovrebbe uscire
trasformato e riversare nella propria vita e nella società questa
trasformazione, così come la vita, la società, la cultura si sono in qualche
modo riversate anche nel Teatro.
Teatro e vita, quindi, in un gioco di specchi,
che dovrebbe portare all’eliminazione di ciò che nella vita stessa è
impermanente, e allo stesso modo anche nel Teatro dovrebbe essere eliminato
tutto ciò che è di moda, già esistente.
Allora Teatro come palcoscenico del mondo, dove
ognuno dovrebbe recitare la propria parte, togliendo l’ego, il superfluo, per
contribuire, anche se in minima parte, alla trasformazione del mondo stesso.
Se ne dovrebbe dedurre che l’arte è un mezzo e
non un fine e che il cosiddetto teatro politico inteso come messaggio, è un
falso storico, perché penso sia più rivoluzionario e più propulsivo per
un’azione politica l’aver partecipato ad un evento in qualche modo evolutivo e
poi, uscendo da queste dimensioni, incontrare le storture del quotidiano
mistificato.
L’evento naturalmente deve essere commisurato al
contesto, per cui un Rimbaud urlato in tutta la sua bellezza e disperazione tra
uomini costretti a subire le miserie morali e materiali della vita dovrebbe far
rimpiangere quella bellezza, quell’utopia, e renderli capaci d’azione per
realizzarle: è decorativo recitare Rimbaud in un salotto buono.
Anche quest’ultima affermazione comunque è
relativa: in un salotto buono si può incontrare la persona giusta. Per questo
motivo da sempre ho sostenuto che il Teatro non si deve autoemarginare, non
deve diventare tribale, ma deve entrare nei cosiddetti “teatri ufficiali”,
anche se molto spesso questi non sono salotti e neanche buoni, dato che in tali
edifici, a partire dalla biglietteria, dai tecnici, dai direttori, frequentemente
c’è pochissimo amore per il Teatro (per non dire indifferenza).
E quasi sempre, dove maggiori sono le possibilità
economiche, maggiori sono l’incuria e l’alienazione dal proprio lavoro; al
contrario, in spazi precari economicamente e tecnicamente, si viene accolti,
nei limiti del possibile, con grande partecipazione e disponibilità.
Il mio Teatro di sperimentazione vuole essere in
mezzo alla gente, vuole abbattere le barriere economiche, che escludono la
maggior parte dei cittadini, e vuole anche abbattere, con la potenza insita in
questa arte, le barriere culturali derivanti da una pseudo-intellettualità e da
una pedagogia non democratica ma di massa e, paradossalmente, di privilegio.
Si ha bisogno di una politica culturale non
partitica, di una ridistribuzione delle strutture e dei mezzi produttivi, di
una distribuzione degli eventi teatrali che non sia vagabondaggio imposto a chi
fa teatro con povertà di mezzi, e ricercato da chi lo fa per interessi
economici: la distribuzione dovrebbe invece essere veicolazione di idee,
nomadismo.
È logico che la situazione del Teatro è correlata
a tutte le altre situazioni, dalla scuola alla disoccupazione, dalle USL agli
interessi privati, dagli orari di lavoro alla latitanza di uno Stato sociale.
D’altra parte la tecnica dell’attore sperimentale
deve essere rigorosa e perfetta, sempre in evoluzione, deve coinvolgere ogni
parte del corpo e non va distinta dall’arte stessa, né dalla mentalità con cui
ad ogni appuntamento l’attore fa accadere l’evento scenico. La tecnica dovrebbe
anche essere trasferita nella vita.
Si tratta di una tecnica che, a partire da
elementi di base, va personalizzata per farla diventare unica: ne consegue che
non si adotta nessun metodo specifico, che naturalmente vedrebbe l’arte scenica
solo da un’angolazione parziale. In questo senso potremmo quasi definirla un
non metodo, anche se culturalmente può tenere in considerazione i diversi
metodi e le diverse tecniche che si sono sviluppate nel tempo.
Bisogna distinguere la tecnica dal tecnicismo,
che non è altro che un supporto comune e valido per tutti e che si sostituisce
alla creatività, laddove la tecnica, intesa in senso corretto, deve liberare l’attore
da ogni intoppo fisico e mentale e venire abbandonata affinché la creatività
possa uscire spontaneamente.
Il percorso dell’attore sperimentale è
difficilissimo ed ha come partenza una vocazione.
Purtroppo, in nome di un vago desiderio di
esprimersi, comune a tutti gli uomini, si è scambiata la spontaneità, che si
raggiunge con studio e rigore, con lo spontaneismo, con la cosiddetta
naturalezza, col quotidiano o con la falsa originalità: si è invece spontanei
proprio quando non si è ignoranti del sapere scenico.
Ultimamente, dal punto di vista storico, questi
errori sono stati determinati dal naturalismo, da una pseudo-avanguardia e da
un malinteso concetto di democrazia, per cui si è confuso il diritto di
esprimersi con il dovere di sapersi esprimere. Bisogna essere democratici nella
vita ed aristocratici nell’arte, come diceva Arturo Toscanini.
Il diritto all’espressione è un diritto sacro e
democratico che può essere esercitato in diversi modi nella vita senza bisogno
di salire su di un palcoscenico. Se proprio si sente l’esigenza di esprimersi
artisticamente e, in senso specifico, teatralmente, basterebbe togliersi di
dosso la vanità ed il personalismo per essere in consonanza con l’artista: ci
si può esprimere anche ascoltando.
Chiunque può fare teatro, ma in scena bisogna che
ci vada chi ha vocazione ed abilità, perché ci si deve rapportare con la forza
di una collettività intera.
Non è obbligatorio e non a tutti è dato fare
questo percorso, che alle volte si può iniziare e poi interrompere, per
incapacità a sostenerlo.
L’attore deve perciò avere grande consapevolezza
di se stesso e grande senso di responsabilità, doti che fanno di lui non un
semplice esecutore ma un attore-autore.
Per attore-autore non intendo colui che scrive un
testo per poi interpretarlo, ma un artista responsabile di ciò che egli è in
palcoscenico.
L’artista riesce a trasformare qualsiasi materia
testuale o di vita in accadimento poetico, in virtù della sua creatività, che
non è altro che la sua biografia interiore, talmente profonda da diventare
esemplare.
Oggi purtroppo il Teatro è accerchiato da
pseudo-attori, che utilizzano soltanto il tecnicismo, e da sprovveduti che
pensano di poter rinnovare l’arte scenica senza possedere nessuna cultura
teatrale o scimmiottando i Maestri del Novecento, per cui sarebbe augurabile, e
questo non soltanto per il Teatro ma per tutte le arti, un’analisi
disinteressata e spregiudicata del ventesimo secolo.
Il Teatro è come la vita, non in quanto metafora
o imitazione di essa, ma perché, come la vita, è una tecnica di conoscenza,
però in economia di spazio e di tempo; nella vita, tranne casi e tecniche
eccezionali, c’è più dispersione.
Il Teatro, come la vita, non lascia tracce
tangibili se non nella memoria, da intendersi non come inventario ma come
elaborazione dinamica: non può essere fissato ed immobilizzato da documenti
che, oltre ad ucciderlo, ne falsificano anche la sua intima natura.
Preliminare all’arte scenica è non considerare il
personaggio come individuo ben definito e quasi anagrafico, ma come stato di
coscienza, per cui l’attore, affrontando i cosiddetti personaggi, dovrebbe soltanto
far risonare una certa corda interiore che, pur essendo in qualche modo diversa
in ogni uomo, è analoga in tutti.
In un processo lungo e faticoso, l’attore
dovrebbe toccare tutte le corde possibili per completarsi, conoscersi in tutte
le sue componenti; sino a diventare il mago Prospero della Tempesta di Shakespeare o Dante sulla montagna del Purgatorio.
Questo tentativo di realizzazione, questa
tensione non potrebbe essere se non attraverso il sacrificio ed il martirio;
dove per sacrificio si intende sacralizzazione della vita come eliminazione del
superfluo e dell’ego, e per martirio, testimonianza.
Il tentativo è quello di portare a compimento
tutte le proprie potenzialità, per essere pronti al Silenzio.
* Dal
sito del Teatro San Leonardo, Bologna
(http://www.comune.bologna.it/iperbole/tsanleon/pages/leo/scritleo/scrit1.htm)
** Per poter vedere
un piccolo documentario su Leo segnaliamo: http://www.youtube.com/watch?v=pMeLLHsa_FY
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Leo de Berardinis in due momenti dello spettacolo "Totò principe di Danimarca", 1990
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(scheda di
Nevio Gàmbula):
Leo de Berardinis è uno degli attori più importanti nel teatro del
secondo dopoguerra. Fin dal suo esordio, protagonista dell’avanguardia teatrale
insieme a Carlo Quartucci e Carmelo Bene, si è sempre collocato nel solco di un
filone rivoluzionario e prettamente italiano, quello dell’attore-autore,
di un attore cioè che non delega ad una figura esterna (il regista) la
composizione della scena e della sua parte, ma se ne assume in toto la
responsabilità, decidendo personalmente la disposizione dei segni. Il suo
percorso umano e artistico si distingue per coerenza e per l’insistenza con cui
cerca di mettere in relazione le tradizioni della commedia dell’arte e del
teatro popolare (in particolare quello della sceneggiata napoletana), con le
migliori avanguardie, riuscendo ad elaborare una sua personalissima versione
del grottesco, in cui il tragico smania fortemente di trasformarsi in
comico, e viceversa. L’irriverenza del suo virtuosismo d’attore, la sua
recitazione attenta alla phoné, al pari della sua grande capacità di
riscrivere i classici, lo rendono a tutti gli effetti un poeta della scena,
dunque qualcosa d’altro rispetto alla solita e stantia figura del “grande
interprete”. Leo de Berardinis, anzi, nega che l’attore debba essere interprete
di un carattere altrui: l’attore deve rivelare allo spettatore la sua
autenticità, e per fare questo non deve prendere a prestito caratteristiche
umane che non gli appartengono (quelle del personaggio). In scena c’è solo il
corpo dell’attore e, come dice lo stesso de Berardinis, “la tecnica non serve
più per rappresentare un personaggio, ma per agire”. Amleto, Macbeth, lo stesso
Totò (la cui maschera è stata fatta propria da de Berardinis in uno splendido Totò principe di Danimarca), non sono
personaggi da rendere con puntualità e secondo la famosa tecnica del “come sé”
(come se fossi lui in quel momento); l’attore li usa per svelare il proprio sguardo
sul mondo, ossia sono un tramite tra l’attore stesso e la sua relazione con
l’altro e le cose. Se si pensa a come ancora oggi vengono giudicate le prove
degli attori, si comprende come le splendide sperimentazioni di de Berardinis
sono risultate alla fine minoritarie, senza seguito, marginalizzate. Si discute
di un attore sempre e soltanto in base all’interpretazione, se questa sia o
meno aderente al personaggio scritto dal drammaturgo, come se il Novecento
teatrale, con la sua ferocia anti-rappresentativa (da Mejerchol’d ad Artaud, da
Brecht a Grotovskij a Bene), sia transitato invano. Eppure, nei libri di storia
del teatro nessuno parla mai di Gabriele Lavia o di Branciaroli (figuriamoci di
Montesano!), semplici ripetitori automatici di caratteri inventati da altri. Si
storicizza chi, distruggendo dalle fondamenta il teatro, arriva a proporre
l’unico vero “grande teatro”. Leo de Berardinis è uno di questi. E proprio per
la sua caparbia e ostinata decostruzione delle regole teatrali, non stupisce il
silenzio che il sistema-teatro ha stabilito nei suoi confronti, ancora più
pesante se si pensa all’angoscioso silenzio in cui è costretto l’attore, da
quasi quattro anni ridotto a vivere in uno stato di coma permanente. Ma
l’assenza è parte del gioco, e de Berardinis ne è consapevole. Scegliere di
percorrere onestamente una strada di sperimentazione può condurre
all’isolamento, a essere dimenticati. Uno dei principali guai del pubblico
contemporaneo è rassegnarsi a ciò che “passa il convento”, addormentando in se
stessi quella curiosità culturale che dovrebbe sempre portare nei pressi delle
opere originali, magari grezze, ma vitali. Troppe volte, oggi, si sceglie il
già saputo, come se il teatro fosse un semplice passatempo tra altri. Il teatro
non deve consolare, deve aprire nuove prospettive al dubbio. Leo de Berardinis
sa far risuonare le corde interiori dello spettatore, pur senza ricorrere ai
trucchetti volgari dell’ammiccamento alla moda o della facile risata. Il suo
lirismo amaro smuove la passività dello spettatore, lo accompagna delicatamente
nel labirinto dell’evento teatrale per chiedergli poi di ritrovare da solo la
strada d’uscita: perché il teatro non vuole offrire scappatoie; è teatro e
basta. Nel suo ultimo spettacolo prima di entrare in coma, Past Eve and Adam’s, l’attore, ripercorrendo alcuni autori a lui
più cari, dal Joyce dell’Ulisse a Rimbaud a Shakespeare a Leopardi, ha proposto
un inquietante eppure altamente affascinante concerto di poesia, come a voler
affermare la grande capacità del teatro di aprire nuove suggestioni di senso.
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