TEATRICA
LECTIO MAGISTRALIS

L’attore consapevole
è pronto
al silenzio


      
In questo scritto – “Teatro e sperimentazione” del 1995 – il grande attore-regista (da tempo malato) traccia il diagramma della sua poetica e, insieme, ci consegna il testamento della propria idea ‘forte’ di ricerca scenica che rifiuta sia il tecnicismo convenzionale sia lo spontaneismo insipiente. Perché, in accordo con quanto sosteneva Arturo Toscanini, “bisogna essere democratici nella vita ed aristocratici nell’arte”.
      




      

 

di  Leo de Berardinis *

 




Leo de Berardinis



Ogni tentativo poetico è una sperimentazione, per cui se il Teatro è un tentativo poetico è inutile aggiungere il sostantivo sperimentazione.

Bisognerebbe invece fare una differenziazione tra evento teatrale e spettacolo.

L’evento teatrale è un processo che si svolge in uno spazio-tempo reale in cui tutti sono partecipi, sia attori che spettatori.

Lo spettacolo è una rappresentazione in cui il pubblico è spettatore passivo e, molto spesso, l’attore è un esecutore, altrettanto passivo, dell’autore o del regista.

In effetti tutta la poesia, non soltanto quella teatrale, è sperimentazione, in quanto dovrebbe innescare un processo conoscitivo che produca idee nuove anche a prescindere dalle intenzioni dell’autore.

La differenza importante è che presumibilmente un quadro, un libro non mutano se stessi mentre in teatro l’attore dovrebbe essere in contatto col pubblico, aprirsi ad intuizioni sconosciute di se stesso. Si potrebbe quasi dire che l’arte scenica in generale è l’unica forma d’arte in cui avviene – o dovrebbe avvenire – una mutazione seppur momentanea, piccola o grande, di tutti i partecipanti al processo.

In questo senso si può accettare la parola sperimentale in teatro, nel suo vero significato di esperienza che non riproduca l’esistente, il già noto.

Ed è solo l’arte scenica l’unica in cui il corpo dell’artista stesso diventa poesia vivente. Naturalmente il corpo non si intende solo nella sua fisicità ma in tutte le facoltà psicosomatiche dell’individuo. Ciò non esclude che un attore possa stare in silenzio ed immobile e non obbliga il violinista a parlare; l’importante è questo diventare poesia e non prodotto.

Detto questo, è evidente che per me non sono valide tutte le etichette di ricerca, avanguardia, teatro immagine, eccetera, in quanto soltanto classificazioni schematiche e razionali, che niente hanno a che vedere con l’artista, sempre unico e irripetibile.

Come in ogni forma d’arte anche l’attore sperimentale non è che la sua autobiografia; questa autobiografia è esemplare, conoscitiva di se stesso, e suscita nella collettività in cui avviene l’evento un analogo tentativo di autoconoscenza non di massa ma individuale: ciascuno a suo modo.

La presenza del pubblico è essenziale per creare dei campi magnetici forti perché ciò avvenga, e non è soltanto la quantità dei partecipanti a determinare questi campi magnetici, ma anche e soprattutto la loro qualità. La qualità non si deve confondere con l’intellettualismo, con la conoscenza intesa come informazione, ma è da intendersi come disponibilità, fiducia mentale e amore del rischio.

Così come c’è una conoscenza come avere, c’è anche una conoscenza come essere: cioè vivere la conoscenza. Ed è per questo che io dico sempre che non faccio Teatro ma sono e siamo Teatro nel momento in cui l’evento accade.

Da un’esperienza simile l’uomo dovrebbe uscire trasformato e riversare nella propria vita e nella società questa trasformazione, così come la vita, la società, la cultura si sono in qualche modo riversate anche nel Teatro.

Teatro e vita, quindi, in un gioco di specchi, che dovrebbe portare all’eliminazione di ciò che nella vita stessa è impermanente, e allo stesso modo anche nel Teatro dovrebbe essere eliminato tutto ciò che è di moda, già esistente.

Allora Teatro come palcoscenico del mondo, dove ognuno dovrebbe recitare la propria parte, togliendo l’ego, il superfluo, per contribuire, anche se in minima parte, alla trasformazione del mondo stesso.

Se ne dovrebbe dedurre che l’arte è un mezzo e non un fine e che il cosiddetto teatro politico inteso come messaggio, è un falso storico, perché penso sia più rivoluzionario e più propulsivo per un’azione politica l’aver partecipato ad un evento in qualche modo evolutivo e poi, uscendo da queste dimensioni, incontrare le storture del quotidiano mistificato.

L’evento naturalmente deve essere commisurato al contesto, per cui un Rimbaud urlato in tutta la sua bellezza e disperazione tra uomini costretti a subire le miserie morali e materiali della vita dovrebbe far rimpiangere quella bellezza, quell’utopia, e renderli capaci d’azione per realizzarle: è decorativo recitare Rimbaud in un salotto buono.

Anche quest’ultima affermazione comunque è relativa: in un salotto buono si può incontrare la persona giusta. Per questo motivo da sempre ho sostenuto che il Teatro non si deve autoemarginare, non deve diventare tribale, ma deve entrare nei cosiddetti “teatri ufficiali”, anche se molto spesso questi non sono salotti e neanche buoni, dato che in tali edifici, a partire dalla biglietteria, dai tecnici, dai direttori, frequentemente c’è pochissimo amore per il Teatro (per non dire indifferenza).

E quasi sempre, dove maggiori sono le possibilità economiche, maggiori sono l’incuria e l’alienazione dal proprio lavoro; al contrario, in spazi precari economicamente e tecnicamente, si viene accolti, nei limiti del possibile, con grande partecipazione e disponibilità.

Il mio Teatro di sperimentazione vuole essere in mezzo alla gente, vuole abbattere le barriere economiche, che escludono la maggior parte dei cittadini, e vuole anche abbattere, con la potenza insita in questa arte, le barriere culturali derivanti da una pseudo-intellettualità e da una pedagogia non democratica ma di massa e, paradossalmente, di privilegio.

Si ha bisogno di una politica culturale non partitica, di una ridistribuzione delle strutture e dei mezzi produttivi, di una distribuzione degli eventi teatrali che non sia vagabondaggio imposto a chi fa teatro con povertà di mezzi, e ricercato da chi lo fa per interessi economici: la distribuzione dovrebbe invece essere veicolazione di idee, nomadismo.

È logico che la situazione del Teatro è correlata a tutte le altre situazioni, dalla scuola alla disoccupazione, dalle USL agli interessi privati, dagli orari di lavoro alla latitanza di uno Stato sociale.

D’altra parte la tecnica dell’attore sperimentale deve essere rigorosa e perfetta, sempre in evoluzione, deve coinvolgere ogni parte del corpo e non va distinta dall’arte stessa, né dalla mentalità con cui ad ogni appuntamento l’attore fa accadere l’evento scenico. La tecnica dovrebbe anche essere trasferita nella vita.

Si tratta di una tecnica che, a partire da elementi di base, va personalizzata per farla diventare unica: ne consegue che non si adotta nessun metodo specifico, che naturalmente vedrebbe l’arte scenica solo da un’angolazione parziale. In questo senso potremmo quasi definirla un non metodo, anche se culturalmente può tenere in considerazione i diversi metodi e le diverse tecniche che si sono sviluppate nel tempo.

Bisogna distinguere la tecnica dal tecnicismo, che non è altro che un supporto comune e valido per tutti e che si sostituisce alla creatività, laddove la tecnica, intesa in senso corretto, deve liberare l’attore da ogni intoppo fisico e mentale e venire abbandonata affinché la creatività possa uscire spontaneamente.

Il percorso dell’attore sperimentale è difficilissimo ed ha come partenza una vocazione.

Purtroppo, in nome di un vago desiderio di esprimersi, comune a tutti gli uomini, si è scambiata la spontaneità, che si raggiunge con studio e rigore, con lo spontaneismo, con la cosiddetta naturalezza, col quotidiano o con la falsa originalità: si è invece spontanei proprio quando non si è ignoranti del sapere scenico.

Ultimamente, dal punto di vista storico, questi errori sono stati determinati dal naturalismo, da una pseudo-avanguardia e da un malinteso concetto di democrazia, per cui si è confuso il diritto di esprimersi con il dovere di sapersi esprimere. Bisogna essere democratici nella vita ed aristocratici nell’arte, come diceva Arturo Toscanini.

Il diritto all’espressione è un diritto sacro e democratico che può essere esercitato in diversi modi nella vita senza bisogno di salire su di un palcoscenico. Se proprio si sente l’esigenza di esprimersi artisticamente e, in senso specifico, teatralmente, basterebbe togliersi di dosso la vanità ed il personalismo per essere in consonanza con l’artista: ci si può esprimere anche ascoltando.

Chiunque può fare teatro, ma in scena bisogna che ci vada chi ha vocazione ed abilità, perché ci si deve rapportare con la forza di una collettività intera.

Non è obbligatorio e non a tutti è dato fare questo percorso, che alle volte si può iniziare e poi interrompere, per incapacità a sostenerlo.

L’attore deve perciò avere grande consapevolezza di se stesso e grande senso di responsabilità, doti che fanno di lui non un semplice esecutore ma un attore-autore.

Per attore-autore non intendo colui che scrive un testo per poi interpretarlo, ma un artista responsabile di ciò che egli è in palcoscenico.

L’artista riesce a trasformare qualsiasi materia testuale o di vita in accadimento poetico, in virtù della sua creatività, che non è altro che la sua biografia interiore, talmente profonda da diventare esemplare.

Oggi purtroppo il Teatro è accerchiato da pseudo-attori, che utilizzano soltanto il tecnicismo, e da sprovveduti che pensano di poter rinnovare l’arte scenica senza possedere nessuna cultura teatrale o scimmiottando i Maestri del Novecento, per cui sarebbe augurabile, e questo non soltanto per il Teatro ma per tutte le arti, un’analisi disinteressata e spregiudicata del ventesimo secolo.

Il Teatro è come la vita, non in quanto metafora o imitazione di essa, ma perché, come la vita, è una tecnica di conoscenza, però in economia di spazio e di tempo; nella vita, tranne casi e tecniche eccezionali, c’è più dispersione.

Il Teatro, come la vita, non lascia tracce tangibili se non nella memoria, da intendersi non come inventario ma come elaborazione dinamica: non può essere fissato ed immobilizzato da documenti che, oltre ad ucciderlo, ne falsificano anche la sua intima natura.

Preliminare all’arte scenica è non considerare il personaggio come individuo ben definito e quasi anagrafico, ma come stato di coscienza, per cui l’attore, affrontando i cosiddetti personaggi, dovrebbe soltanto far risonare una certa corda interiore che, pur essendo in qualche modo diversa in ogni uomo, è analoga in tutti.

In un processo lungo e faticoso, l’attore dovrebbe toccare tutte le corde possibili per completarsi, conoscersi in tutte le sue componenti; sino a diventare il mago Prospero della Tempesta di Shakespeare o Dante sulla montagna del Purgatorio.

Questo tentativo di realizzazione, questa tensione non potrebbe essere se non attraverso il sacrificio ed il martirio; dove per sacrificio si intende sacralizzazione della vita come eliminazione del superfluo e dell’ego, e per martirio, testimonianza.

Il tentativo è quello di portare a compimento tutte le proprie potenzialità, per essere pronti al Silenzio.

 

*  Dal sito del Teatro San Leonardo, Bologna

(http://www.comune.bologna.it/iperbole/tsanleon/pages/leo/scritleo/scrit1.htm)

**   Per poter vedere un piccolo documentario su Leo segnaliamo: http://www.youtube.com/watch?v=pMeLLHsa_FY

 

 

******




Leo de Berardinis in due momenti dello spettacolo "Totò principe di Danimarca", 1990


(scheda di Nevio Gàmbula):

 

Leo de Berardinis è uno degli attori più importanti nel teatro del secondo dopoguerra. Fin dal suo esordio, protagonista dell’avanguardia teatrale insieme a Carlo Quartucci e Carmelo Bene, si è sempre collocato nel solco di un filone rivoluzionario e prettamente italiano, quello dell’attore-autore, di un attore cioè che non delega ad una figura esterna (il regista) la composizione della scena e della sua parte, ma se ne assume in toto la responsabilità, decidendo personalmente la disposizione dei segni. Il suo percorso umano e artistico si distingue per coerenza e per l’insistenza con cui cerca di mettere in relazione le tradizioni della commedia dell’arte e del teatro popolare (in particolare quello della sceneggiata napoletana), con le migliori avanguardie, riuscendo ad elaborare una sua personalissima versione del grottesco, in cui il tragico smania fortemente di trasformarsi in comico, e viceversa. L’irriverenza del suo virtuosismo d’attore, la sua recitazione attenta alla phoné, al pari della sua grande capacità di riscrivere i classici, lo rendono a tutti gli effetti un poeta della scena, dunque qualcosa d’altro rispetto alla solita e stantia figura del “grande interprete”. Leo de Berardinis, anzi, nega che l’attore debba essere interprete di un carattere altrui: l’attore deve rivelare allo spettatore la sua autenticità, e per fare questo non deve prendere a prestito caratteristiche umane che non gli appartengono (quelle del personaggio). In scena c’è solo il corpo dell’attore e, come dice lo stesso de Berardinis, “la tecnica non serve più per rappresentare un personaggio, ma per agire”. Amleto, Macbeth, lo stesso Totò (la cui maschera è stata fatta propria da de Berardinis in uno splendido Totò principe di Danimarca), non sono personaggi da rendere con puntualità e secondo la famosa tecnica del “come sé” (come se fossi lui in quel momento); l’attore li usa per svelare il proprio sguardo sul mondo, ossia sono un tramite tra l’attore stesso e la sua relazione con l’altro e le cose. Se si pensa a come ancora oggi vengono giudicate le prove degli attori, si comprende come le splendide sperimentazioni di de Berardinis sono risultate alla fine minoritarie, senza seguito, marginalizzate. Si discute di un attore sempre e soltanto in base all’interpretazione, se questa sia o meno aderente al personaggio scritto dal drammaturgo, come se il Novecento teatrale, con la sua ferocia anti-rappresentativa (da Mejerchol’d ad Artaud, da Brecht a Grotovskij a Bene), sia transitato invano. Eppure, nei libri di storia del teatro nessuno parla mai di Gabriele Lavia o di Branciaroli (figuriamoci di Montesano!), semplici ripetitori automatici di caratteri inventati da altri. Si storicizza chi, distruggendo dalle fondamenta il teatro, arriva a proporre l’unico vero “grande teatro”. Leo de Berardinis è uno di questi. E proprio per la sua caparbia e ostinata decostruzione delle regole teatrali, non stupisce il silenzio che il sistema-teatro ha stabilito nei suoi confronti, ancora più pesante se si pensa all’angoscioso silenzio in cui è costretto l’attore, da quasi quattro anni ridotto a vivere in uno stato di coma permanente. Ma l’assenza è parte del gioco, e de Berardinis ne è consapevole. Scegliere di percorrere onestamente una strada di sperimentazione può condurre all’isolamento, a essere dimenticati. Uno dei principali guai del pubblico contemporaneo è rassegnarsi a ciò che “passa il convento”, addormentando in se stessi quella curiosità culturale che dovrebbe sempre portare nei pressi delle opere originali, magari grezze, ma vitali. Troppe volte, oggi, si sceglie il già saputo, come se il teatro fosse un semplice passatempo tra altri. Il teatro non deve consolare, deve aprire nuove prospettive al dubbio. Leo de Berardinis sa far risuonare le corde interiori dello spettatore, pur senza ricorrere ai trucchetti volgari dell’ammiccamento alla moda o della facile risata. Il suo lirismo amaro smuove la passività dello spettatore, lo accompagna delicatamente nel labirinto dell’evento teatrale per chiedergli poi di ritrovare da solo la strada d’uscita: perché il teatro non vuole offrire scappatoie; è teatro e basta. Nel suo ultimo spettacolo prima di entrare in coma, Past Eve and Adam’s, l’attore, ripercorrendo alcuni autori a lui più cari, dal Joyce dell’Ulisse a Rimbaud a Shakespeare a Leopardi, ha proposto un inquietante eppure altamente affascinante concerto di poesia, come a voler affermare la grande capacità del teatro di aprire nuove suggestioni di senso.

 




Scarica in formato pdf  


      
Sommario Teatrica

Il sito dal 01/04/2006 al 30/11/2006 ha raggiunto n° 5200 visite