Nel giro di pochi mesi il Paese passa da periodi senza pioggia a eventi meteo estremi e alluvionali. Una spirale che colpisce agricoltura, infrastrutture e sicurezza del territorio.
Nello stesso anno, in alcune zone d’Italia, il terreno si è spaccato per la siccità e poche settimane dopo si è trasformato in un fiume di fango. Dalla Val Padana alla Sicilia, dal Lazio al Friuli, le immagini si ripetono con inquietante regolarità. Mesi interi senza pioggia, poi temporali violenti, esondazioni, smottamenti, vite sconvolte. La normalità sembra svanita. Al suo posto, un’alternanza continua di estremi che non lascia spazio alla stabilità climatica.

Negli ultimi tre anni, i dati parlano chiaro: la piovosità media in molte aree italiane è rimasta simile alle medie storiche, ma il modo in cui la pioggia cade è cambiato. Meno giorni di pioggia, più intensi. E questo significa che l’acqua non riesce a penetrare nel terreno, finisce in superficie, trascina detriti, allaga campi e città. È un modello che si ripete, in modo sempre più evidente, e che ha già un costo elevatissimo per il Paese.
Un clima che non si regola più: i dati dietro al caos
Secondo i rilevamenti dell’ISPRA e del CNR, le ondate di calore in Italia sono aumentate del 35% negli ultimi 20 anni, mentre gli eventi estremi legati all’acqua — bombe d’acqua, allagamenti improvvisi, alluvioni — sono cresciuti in modo quasi parallelo. In alcune regioni del Sud, si è passati da 70 giorni all’anno con pioggia a meno di 50, con precipitazioni concentrate in brevi eventi violenti.
Il problema è duplice. Da un lato, la siccità mette sotto stress le falde acquifere, le coltivazioni, le riserve idriche, e costringe interi comuni a razionamenti e piani di emergenza. Dall’altro, le piogge intense colpiscono un terreno arido e indurito, che non assorbe più. Così ogni acquazzone rischia di diventare una frana o un’alluvione.
I sistemi agricoli sono i primi a soffrire. Coltivazioni bruciate dal sole in primavera, poi distrutte dall’acqua in autunno. Le viti, gli ulivi, i campi di grano: tutto subisce un doppio colpo. In molte aree della Pianura Padana e della Puglia, le perdite in agricoltura superano il 20% annuo. E non si tratta più solo di emergenze occasionali. È un nuovo assetto climatico con cui fare i conti ogni anno.
Le infrastrutture non reggono. Tombini che saltano, strade che si allagano, argini che cedono. Intere zone costruite senza una vera progettazione idraulica, ora si trovano impreparate davanti alla nuova realtà. I centri storici, le aree industriali, i paesi di collina: tutti vulnerabili. E il costo della messa in sicurezza è elevato, spesso rimandato, talvolta ignorato.
Tra adattamento e ritardi: cosa (non) sta facendo il Paese
L’Italia si trova nel cuore del Mediterraneo, una zona che gli scienziati ormai definiscono “hotspot climatico”: un’area dove l’aumento delle temperature è più rapido della media globale. Questo significa che i fenomeni estremi non sono solo più probabili, ma più intensi e ravvicinati.
Nonostante questo, il sistema di prevenzione è ancora incompleto. Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, approvato con ritardo dopo anni di stallo, contiene misure utili ma generiche. Molti comuni non hanno ancora un piano aggiornato di gestione del rischio idrogeologico. Gli enti locali spesso mancano di fondi e competenze. Interventi strutturali, come la creazione di bacini di laminazione o la rinaturalizzazione dei fiumi, vengono attuati lentamente, tra vincoli burocratici e tagli di bilancio.
Le tecnologie esistono. Ci sono sensori, modelli predittivi, mappe del rischio aggiornate in tempo reale. Ma servono piani integrati, che coinvolgano urbanistica, agricoltura, ambiente. E soprattutto serve una regia nazionale forte, capace di imporre visione e priorità. Perché non basta più reagire all’emergenza: bisogna prepararsi a conviverci.
E mentre si discute, il clima non aspetta. Ogni estate è più calda, ogni autunno più estremo. E chi vive nelle aree più fragili — campagne, periferie, piccoli comuni — sa già che il prossimo allarme arriverà. Solo non si sa quando.