Contratti sicuri, stipendio fisso, ferie garantite: fino a pochi anni fa era l’obiettivo di tutti. Oggi invece molti under 35 dicono no. Ecco cosa sta cambiando davvero.
L’offerta era chiara: contratto a tempo indeterminato, full time, tredicesima, ferie, formazione. Il tipo di proposta che, fino a qualche anno fa, si accettava a occhi chiusi. Invece no. Il candidato — 28 anni, laureato, esperienza all’estero — ha detto di no. Ha ringraziato, spiegato con garbo, e ha preferito restare freelance. Una storia che non è più eccezione. Sempre più giovani rifiutano contratti a tempo indeterminato, non per incoscienza, ma per una visione diversa della vita, del lavoro, del tempo.
Il dato non è solo aneddotico. Alcune agenzie per il lavoro, soprattutto nei settori digitali, stanno segnalando difficoltà nel chiudere assunzioni stabili. Il tempo indeterminato non ha più l’appeal che aveva. E le ragioni sono molteplici.
Un contratto sicuro, ma non libero
Il tempo indeterminato è stato per decenni il simbolo della riuscita sociale. Una certezza che garantiva mutui, stabilità familiare, pensione. Oggi, però, non garantisce più le stesse cose. Il potere d’acquisto degli stipendi si è ridotto. I salari di ingresso restano bassi, soprattutto per ruoli junior. La crescita interna è spesso lenta, e la rigidità contrattuale è percepita come un limite più che come una protezione.

Molti under 35, specie chi lavora nei settori digitali, creativi o tecnologici, preferiscono lavorare a progetto, su obiettivi, con più libertà. Anche se ciò significa rinunciare alla sicurezza del contratto fisso. Il tempo indeterminato, in questo scenario, appare spesso come una gabbia di vincoli: orari fissi, presenza obbligatoria, ferie su calendario, percorsi standardizzati.
C’è poi un altro fattore: il tempo. La generazione nata tra fine anni ’90 e inizio 2000 ha vissuto crisi economiche, pandemia, precarietà diffusa. Ma ha anche imparato a rivalutare il tempo personale. Molti non vogliono più lavorare per vivere — o vivere solo per lavorare. Preferiscono guadagnare meno, ma avere più tempo per sé, per cambiare città, per studiare ancora, per viaggiare o per avviare un progetto personale.
E questo vale anche per chi ha già sperimentato il lavoro “sicuro”. Alcuni raccontano di aver lasciato il posto fisso per dedicarsi a un’attività autonoma, anche rischiosa, ma sentita come più autentica. Non è una fuga dalla fatica: è un tentativo di riscrivere il rapporto tra lavoro e identità.
Il tempo indeterminato non basta più: cosa cercano davvero i giovani
Non si tratta di pigrizia, né di superficialità. I giovani che rifiutano il tempo indeterminato non vogliono meno lavoro, ma un altro tipo di rapporto con il lavoro. Cercano contesti in cui siano valutati sui risultati, non sulla presenza. In cui la carriera sia legata alla crescita reale, non all’anzianità. In cui ci sia spazio per imparare, sbagliare, cambiare ruolo.
Molti chiedono flessibilità vera, non solo lo smart working del venerdì. Vogliono decidere da dove lavorare, con chi, in che orari. E sono disposti a rinunciare alla stabilità, se in cambio ottengono autonomia, stimoli, equilibrio. In fondo, lavorano in modo diverso perché vivono in modo diverso.
Il concetto di “posto fisso” non è più desiderato come garanzia, ma temuto come blocco. Alcuni raccontano che firmare un contratto a tempo indeterminato è come “fermarsi”, perdere libertà. La carriera lineare, per molti, non è più una priorità. C’è chi cambia settore ogni tre anni, chi alterna lavoro e formazione, chi accetta contratti brevi per non sentirsi vincolato.
Questo cambio di paradigma pone sfide nuove alle aziende. Offrire un contratto sicuro non basta. Bisogna ripensare i ruoli, le modalità, la cultura aziendale. I giovani cercano senso, spazio di manovra, margini di personalizzazione. Vogliono lavorare bene, ma alle loro condizioni.
E chi non li ascolta, rischia di perdere i migliori.