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di Ugo Piscopo
Cari
Amici,
che
avete letto il mio “Charlie, però”, e avete risposto, inviandomi osservazioni
molto pertinenti e stringenti, mi sono sentito in obbligo di integrare e
chiarire i miei assunti e ho scritto questo tracciato introduttivo, che vi
mando.
In
sintesi, il mio concetto di libertà è che questa gentile e fascinosa fanciulla,
che è la libertà, che reca sulle sue gambe freschissime e piene di vitalità un
bouquet di intriganti simboli, come è codificato nel suo nome di antichissime
origini indoeuropee diramatesi nel greco, nel
latino, nel celtico, nell’ambito germanico, non può abusare del suo fascino, non può
concedersi il lusso di fare la donzelletta vezzosa fra giovinastri, goliardi,
frequentatori di angiporti taverne e
dintorni, né può sprecare tempo o crescere
in mezzo a fantasticherie, né, infine, può abbandonarsi a pulsioni di
libertarismo. Ecco, la libertà non può essere libertaria.
A
monte di questa posizione, che mi sono costruita nel tempo, frequentando
letteratura, arte, filosofia, storia e altre scienze umane (etologia compresa),
si colloca una lezione di civiltà costituita sulla cifra fondamentale della
responsabilità e della consapevolezza della complessità della vita. La
frontiera, con cui, secondo me, bisogna confrontarsi è quella della interrelazionalità,
che non inventiamo noi, ma che inventa e agisce noi, e della effettualità (nel
senso dato da Machiavelli al termine) o, meglio, del factum che è il nostro umano verum, come insegna il nostro
G.B. Vico. Solo su questo terreno, il discorso, qualunque discorso si fa umano
e insieme sostenibile.
Questa
convinzione e questa scommessa, le ho fatte mie non solo sul piano teorico e
conoscitivo, ma anche su quello della vita quotidiana e della relazionalità
concreta con gli altri.
Faccio
subito un esempio: la scuola. Che mi ha preso tanto, che una volta mia moglie,
infastidita, mi invitò a prendermi la branda e andarmene nella “mia” scuola,
tanto a casa stavo solo per dormire e mangiare in fretta un boccone.
Bene,
a scuola ho lavorato molto, ma ho anche fatto lavorare gli altri e di ciò non
mi pento. In ultimo, però, ho concluso, stringendo un pugno di mosche fra le
mani, come si dice al mio paese. Perché ho dovuto registrare che di scuola si
può/piace a tutti parlare, parlare, parlare, si può anche fare, la scuola, e si
fa a chiacchiere e per errori, ma non mai sul fondamento della necessità (nel
senso indicato da Spinoza, da Hegel, da Marx). E uno degli ostacoli maggiori è costituito da un
concetto malinteso di libertà.
A
scuola è il trionfo della libertà, intesa come fantasticheria, arbitrio
personale, slogan che suonano talora incantevolmente, che vengono perfino
sparati a raffiche micidiali. In prima linea, sono i docenti, che per
nient’altro sono pronti a scendere in guerra quanto in difesa della propria
autonomia. Non si può non essere d’accordo con la petizione di principio,
purché l’autonomia non significhi esercizio di soggettivismo e di narcisismo.
L’autonomia può e deve essere difesa e posta in essere concretamente, ma nella
valorizzazione al meglio delle proprie risorse, per dare risposta agli impegni
presi con un contratto sociale, nelle cui clausole i punti fondamentali sono
costituiti dall’istruire e formare, non a libero piacimento di chi insegna, ma
per collocare nel mondo un soggetto che è in via di appropriazione dei modi di
imparare e di relazionarsi con sé, con l’ambiente, con gli altri, col passato e
col futuro, dentro e fuori delle pareti scolastiche, che nel confronto con gli
altri deve scoprire e possibilmente
potenziare nel positivo le proprie
inclinazioni, per orientarsi nelle scelte e non perdere tempo a seguito di
errori talora gravi di opzione, che deve sapere usare gli strumenti della conoscenza, sia per arricchirsi, sia
perfino per dimenticare quanto non gli serve. Tali obiettivi non possono essere
affidati alle estrosità e ai facili riduttivismi.
Vanno pensati, programmati, verificati in itinere, su tracciati oggettivi, che
siano di riferimento anche agli altri colleghi impegnati con analoghe sfide per
raggiungere i medesimi fini. Ma questo, se è facile a pensarsi e a dirsi, è
pressoché impossibile a calarsi nel concreto, perché i docenti sono gelosissimi
custodi della propria autonomia e della gestione della propria genialità. Non
sanno, non vogliono sapere che il lavoro efficace formativamente
non può essere svolto se non in équipe, dal momento che i singoli alunni, le
classi, l’istituto sono nelle mani non di uno solo, l’illuminato, ma nelle mani di tutti gli
addetti ai lavori messi insieme. Altrimenti, gli alunni e le classi, al termine del
processo di lavorazione attraverso cui passano, si fanno l’idea che esistono
tante educazioni, ovvero diseducazioni , quanti sono i soggetti
educanti/diseducanti, con i loro umori, con le loro coazioni a ripetere, con le
loro fobie, con le loro rimozioni che ritornano sotto forma di isterie e
nevrosi varie, con i loro eroici furori,
nel migliore dei casi. A rispecchiamento di tali effetti, apprendono che i
processi formativi sono, se non una maledizione del cielo, un intrattenimento
noiosissimo, che non riguarda per nulla la loro vita intima. È il riscontro che
la scuola, che è istituita e mantenuta nell’interesse sociale per la formazione
dei soggetti in
apprendimento, funziona nei fatti come un insieme di teatrini e di palestre
messi a disposizione dei cosiddetti
docenti.
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Helmut Newton, Teacher and slave
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Da
preside ogni tanto mi compiacevo di fare lo
stordito, a mimesi dello stato di eteroclicità della
situazione complessiva. Certe volte, ai professori che mi dicevano “Preside,
nel nostro Istituto sta succedendo questo e quest’altro”, io chiedevo “Nel
nostro Istituto, ma di quale istituto parlate?”. In genere, si guardavano
disorientati e i più non fiatavano, come se si trovassero di fronte a uno che
avesse preso un colpo di sole. Chi aveva maggiore familiarità e ingenuità,
cercava di svegliarmi dal torpore e dal disorientamento: “Ma Preside, il nostro
Istituto è questo” e facevano il nome del Liceo. Allora, io incalzavo: “Il
nostro Liceo, oh quanto sono distratto! Ma certo, però di quale liceo parliamo,
di quello della sezione A? di quello della sezione B? di quello della centrale?
di quello della succursale? di quello del Professore di Filosofia, Giovanni da
Lentini? di quello del Professore di matematica, Nicola Fermi?”. Qualcuno
abbassava la testa a riflettere in silenzio, qualcuno mi gratificava col
riconoscimento che avevo ragione.
Sì,
avevo ragione, che bella soddisfazione!, ma fra le
rovine, in mezzo alle distorsioni avvenute e che stavano ulteriormente
avvenendo, in molti casi irreparabilmente, ai danni di vittime incolpevoli, che
a scuola venivano ad apprendere l’arte d’essere compiacenti, per sopravvivere
possibilmente in maniera allegra, di prendere in giro gli altri, comprese le
proprie famiglie, perfino di disistimarsi e degradarsi.
E
tutto ciò, in nome della trionfante libertà.
Ma
se i docenti erano e sono le truppe di prima linea di questa battaglia,
trovavano/trovano oggettive omologie in tutti gli altri operatori scolastici,
dal personale ausiliario e tecnico ai dirigenti. Tutte queste altre figure, per
un verso o per l’altro, con uno stile o con l’altro, vantano crediti insolubili
da parte della collettività, come martiri di situazioni ingiuste, scompensate,
assurde, intanto come soggetti preziosi ai fini del funzionamento generale, per
il quale si sono prodigati e continuano a prodigarsi, con sacrifici immensi
sostenuti ai danni della propria libertà e perfino, in alcuni casi, della
propria dignità. A risarcimento parziale, chiedono almeno gratitudine, per non
aver potuto/ non potere soddisfare il bisogno insopprimibile dell’esercizio
della libertà personale. Vorrebbero dei monumenti più o meno come caduti in
guerra o quasi.
Non
parliamo, poi, delle feroci, non sempre sottili, guerre che si fanno tra eguali
in basso e tra dirigenti ai vertici, quali i responsabili dei servizi di
segreteria e i capi d’istituto, come si diceva un tempo. Stanno tutti con le
scimitarre affilate per fare fuori il nemico, che vuole sottomettere e svilire
l’avversario. Da ispettore, tra le questioni più rognose e difficili da
risolvere pacificamente, ho sperimentato proprio questo genere di vertenze “lui
ha detto, io ho detto”, “lui ha cercato e io naturalmente ho cercato”. Il
colpevole, naturalmente, è sempre l’altro. Il motivo scatenante è sempre la
difesa della propria libertà e della propria dignità, a cui ognuno vorrebbe che
fosse eretto dalla comunità, se non un tempio, almeno un tempietto, qualcosa
che puzza già solo da lontano di postumità.
Se
si dovesse in estrema sintesi definire questo paesaggio, bisognerebbe, su
suggerimento di Francisco Goya, intitolarlo “Los Desastres”.
Ma il guaio è che non si tratta di un paesaggio da ammirare o da compiangere,
perché in sostanza vi si svolge quotidianamente un insieme di psicodrammi
individuali e di gruppo reali, si sacrificano tempo ed energie a una mandata in
scena del soggettivismo personalistico, sotto tutela del sacro principio della
libertà.
Entro
un contesto del genere, l’unica possibilità di essere liberi eticamente
legittimati (in senso spinoziano) è quella di non farsi illusioni, di non
aggiungere alienazione ad alienazione, di prendere atto dell’esistente e
cercare di calcolare e valorizzare gli interstizi fra contraddizione e
contraddizione, gettarvi dentro dei semi, attendere che possano germinare e
crescere, fare appello alle forze sane e responsabili, per introdurre una
variabile che cambi il profilo dell’equazione complessiva. Tenere presente
l’affermazione giustissima di Hegel, secondo cui la
libertà è la consapevolezza della necessità. Nella scuola, in realtà, a tutti i
livelli ci sono, anche se minoritarie, straordinarie risorse di intelligenza e
di passione, il guaio però è che esse vengono marginalizzate e, in taluni casi,
penalizzate, quasi che sia un colpa essere preparati, coerenti, innamorati
davvero del proprio lavoro e della propria funzione. Il sistema complessivo,
purtroppo, funziona come una macchina schiacciasassi, perché tutti siano eguali
nella medietà e nella mediocrità, utilissime a fare risparmiare quantità e
qualità di impegno e di studio. Gli operatori della scuola, quando si trovano
insieme, si avvalgono anch’essi del ritrovarsi insieme, come in genere tutti
gli altri lavoratori, per tenere una linea di condotta quanto più economica
possibile, ovviamente in basso.
Per
uno come me, che pensava da docente che i problemi scolastici e formativi si dovessero
affrontare frontalmente, che da preside nei licei ha dovuto constatare sulla propria pelle che
l’equazione da risolvere è molto complessa, se vista dall’interno dell’intera
unità scolastica, costituita sulle discontinuità e diversità, sulle competizioni
e sulle conflittualità, oltre che sugli scambi interpersonali e interfamiliari più o meno vischiosi, e che infine da
ispettore, prima a livello regionale, poi a livello nazionale, ha scoperto che
la scuola è adoperata strumentalmente per ragioni del tutto allotrie alla sua natura come utile
congegno a far allentare le tensioni del mercato del lavoro e ad assicurare la
stabilità dell’esistente dando l’illusione che tutto cambi, perché nulla cambi
realmente, tutti i documenti, le proposte e gli studi fatti sui processi
formativi, osservati squisitamente dal punto di vista formativo, pedagogico,
metodologico, didattico, disciplinare, fanno non so se più piangere o più
ridere. Li guardo come dei divertissement mentali, come esercizi di lettura del
libro dei sogni. Nient’altro. Perché la scuola non è la stessa cosa di un bel
panettone o di una deliziosa torta: questi si fanno con tanto di farina, di
zucchero e altri additivi, entro tanto tempo, con tale specifico
trattamento prima, durante e dopo la cottura. La scuola, di contro, è vicenda,
in cui sono coinvolti gli uomini, cioè degli esseri complicati assai e
imprevedibili, meravigliosi e insieme pericolosi, in tutto il loro impasto,
agenti entro reticoli di relazionalità complesse. Le quali relazionalità
dovrebbero e potrebbero essere ottimizzate e razionalizzate, se il discorso
generale si fondasse su altre premesse, quelle delle abilità tecniche,
dell’utilizzo intelligente dei patrimoni di saperi,
dell’umiltà di funzione, innanzitutto dell’amore per gli altri, soprattutto per
i soggetti in via di apprendimento e di
formazione, insieme con i quali bisogna imbarcarsi a rischio individuale
e di gruppo per una navigazione, che può essere calcolata in partenza, ma che
arriva ogni volta su altre sponde, che possono essere e sono un bel po’ diverse da
quelle pensate in partenza.
Personalmente,
al termine della mia esperienza, che mi ha portato ad essere insignito del
titolo di “benemerito della scuola, della cultura e dell’arte”, con un decreto
firmato dal Presidente della Repubblica pro tempore, mi sono chiesto, forse da
ingrato, come mai la scuola non sia stata presa in esame da Foucault e non sia
stata posta accanto al carcere e alla clinica, come istituto di coazioni, di
ripetitività, di integrazione nell’ordine costituito dalla società dominante.
Ma
della scuola, satis superque.
Diamo adesso uno sguardo attorno alle situazioni offerte dalla realtà nazionale
e da quella planetaria riguardo al dialogo (frastornante e ambiguo) con il
concetto di libertà.
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Tano D'Amico, Rivolta a Rebibbia, 1983
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Il
nostro Paese è, sotto gli occhi (increduli?) di tutti in Europa e nel mondo,
quello dove è scoppiata una festa durata quasi un ventennio (che nei tempi
moderni ha un senso di molto maggiore pregnanza semantica rispetto al passato)
della Libertà, anzi delle Libertà. Non per nulla il movimento-partito della
Casa delle Libertà (nome molto promettente sul piano fabulatorio) è stato a
lungo approvato e seguito dalla maggioranza degli italiani, che, come è noto,
sono molto sensibili agli spettacoli e alle promesse di regni di Bengodi, dove
poter trascorrere l’esistenza, in affluenza di ogni bene materiale, senza la
necessità di logorarsi le meningi a pensare come fare per ottenere una meritata
ricompensa. In questa festa ventennale, che eccitava e rendeva orgogliosa la
maggioranza della popolazione, si legittimavano tutti i generi di Libertà,
senza che questa massa di individui fosse attraversata da un solo, piccolo
dubbio circa lo sdoganamento di tutte le libertà. Eppure, prudenza e buon senso
avrebbero voluto/vorrebbero che si esercitasse un po’ di “discrezione” (nel
modo inteso da Guicciardini) e che si tenesse presente che, per fare un buon
raccolto di grano, bisogna a monte distinguere e difendere questo prezioso
cereale dalla commistione invadente di altri selvatici cereali, perché non
tutti i cereali si equivalgono. E ciò vale nella materialità dei fatti, come
sul piano morale e intellettuale. Dice, ad esempio, Kierkegaard
dell’interiorità, che è da lui assunta a frontiera per eccellenza di tutto il
suo speculare indirizzato a seguire un itinerario sempre più dentro
all’interiorità, che è prioritario vigilare a non concedersi a “qualunque interiorità” (Postilla conclusiva non scientifica a L’intermezzo filosofico).
Nel mondo
contemporaneo, poi, la libertà è in pericolo come non mai. Perché, come è stato
avvertito lucidamente da Horkheimer e dagli altri
Francofortesi e come è venuto precisandosi in una vasta letteratura critica,
che comprende molte discipline, le manipolazioni dell’idea di libertà possono
strumentalmente indurre in maniera soft e convinta pressoché tutti, compresi i
possibili antagonisti,
a integrarsi unidimensionalmente, confortevolmente in processi di
conformismo di massa. A esercitare, cioè, la libertà di scegliersi liberamente
la propria schiavitù, come esplicita Marcuse. Stiamo,
così, tutti su un clinamen, che induce a slittare là
dove ci portano logiche strumentali. Perfino ad accettare come un successo
quella che è magari una sconfitta. Osserva a tale proposito Slavoj
Žižek (“Corriere della Sera”, 3 febb.
2015): “L’illibertà mascherata del suo opposto si manifesta in una miriade di
forme: quando siamo privati dell’assistenza sanitaria, ci dicono che ci offrono
la libertà di scelta (del fornitore di assistenza sanitaria); quando non possiamo
più contare su un impiego a lungo termine e siamo costretti a cercare un nuovo
lavoro precario ogni due anni, ci dicono che ci offrono l’opportunità di
reinventarci e scoprire nuove e inaspettate risorse creative, latenti nella
nostra personalità; quando dobbiamo pagare l’istruzione dei nostri figli ci
dicono che «investiamo su di noi», come
un capitalista che deve scegliere liberamente come investire le risorse […].
Bombardati costantemente da «libere scelte» imposte, costretti a prendere
decisioni per cui generalmente non siamo neanche abbastanza qualificati (o
informati), viviamo la nostra libertà per quello che è realmente: un peso
che ci sottrae la vera scelta di cambiare”.
Ed
ecco che siamo di fronte a un’anfibologia, che si disocculta non per la prima
volta nella storia e negli ambiti speculativi. Ma l’anfibologia della libertà,
oggi più di ieri, si interfaccia in mille altre declinazioni. Ad esempio, non
solo nelle banalizzazioni e nelle strumentalizzazioni, ma nelle
generalizzazioni e nelle tassative normativizzazioni
stesse del concetto, in cui, occultando le contraddizioni esistenti e le
difficoltà da affrontare per una soluzione dei problemi, si danno
volontaristicamente (per proiezioni inconsce) come avvenuti e accettati
processi, che bisogna ancora attivare o che si sono appena avviati. Sono
escluse da questo ambito le normativizzazioni
istituzionali, come nella Carta Costituzionale italiana o come nella Carta dei diritti, che invece
aprono autostrade al progredire delle interpretazioni, a sostenere battaglie
per riconoscimenti e provvedimenti nel pubblico e nel privato. Ci si riferisce
soltanto a profezie, a vendite di indulgenze, a promesse e utilizzazioni
politiche, dove la politica è intesa e tradotta concretamente in una quotidiana
disinformazione delle situazioni effettive. L’anfibologia, ancora, si
interfaccia nei transfert e nelle involontarie identificazioni del soggetto
nell’oggetto, quando democrazia e libertà diventano sinonimi di società e
culture evolute nettamente distinte dalle culture e dalle società in via di
sviluppo o connotate tuttora dall’arcaicità. In questi casi, l’elogio della
democrazia e della libertà è, oggettivamente, l’elogio di quelle aree
geopolitiche, che vantano il credito di avere elaborato e fatto affermare questi
valori nel mondo. In pratica, si tratta dell’elogio di sé stessi, del proprio
etnocentrismo, che si pone in essere, destituito di ogni rispetto per gli
“altri”, privo di ogni consapevolezza come quella che è centrale nelle ricerche
antropologiche ed etologiche della modernità, arbitrario e sconfinato, che ha
smarrito ogni rapporto con gli avvertimenti di prudenza disseminati nel corso
della storia, come quelli contenuti nel trattatello plutarchiano di tanti
secoli fa, Come è permesso lodare sé
stessi. L’anfibologia si allarga a slavina, inoltre, nelle concezioni e
nelle attuazioni di dominio e di controllo, favorite oggettivamente da
dinamiche non assoggettate al confronto con quello che i greci chiamavano il
“logos”, lasciate a sé stesse, anzi legittimate come naturali, quasi che ciò
che si promette e si proclama come valore abbia il diritto sempre e comunque di
sperimentarsi e di mettersi in atto. Senza sapere che le idee e le promesse di
bene possono essere portatrici involontariamente di aggressività, intolleranza,
totalitarismo, come osservava nel secondo Ottocento Ralph Waldo Emerson
riguardo ai comportamenti ideologici. Egli affermava che “non vi è nessuna
mente, nessun pensiero che non tenda rapidamente a convertirsi in potenza e ad
organizzare una misurata strumentalità di mezzi”.
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Noël-Nicolas Coypel, Il ratto d'Europa, 1726-1727
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Queste
e altre simili distorsioni, che magmaticamente dilagano nel mondo di oggi,
richiedono a tutti di riflettere un attimo prima di usare parole e concetti, e,
riguardo alla “libertà”, di considerare i rischi di usi impropri e di
prevaricazioni. Occorre fare innalzare i livelli dell’autocoscienza e della
conoscenza dell’interrelazionalità che ci colloca
tutti nel mondo e del fatto che i valori non si calano nel mondo una volta per
sempre, ma bisogna difenderli ogni attimo da imbalsamazioni e celebrazioni, in
quanto devono camminare sulle gambe della gente, che è in continua
oscillazione, in equilibrio continuamente instabile di avvicinamento e di
allontanamento dal reale.
Siamo,
quindi, solo ai prolegomeni di un discorso da ridefinire e collaudare. Queste
sono solo le premesse liminari. Che, poi, in sostanza, già si sono affacciate,
ed anche energicamente, alla speculazione del pensiero. Come nel caso di questa
glossa monitoria e pregnante di eticità di Hegel (Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio, trad. di B.
Croce, Laterza 1907): “Di nessun’idea si sa così universalmente, che è
indeterminata, polisensa, e adatta e perciò realmente soggetta ai maggiori
equivoci, come dell’idea della libertà;
e nessuna corre per le bocche con così scarsa coscienza. Poiché lo spirito
libero è lo spirito reale, i
malintesi intorno ad esso hanno conseguenze pratiche tanto più mostruose, in
quanto, allorché gli individui e i popoli hanno accolto una volta nella loro
mente il concetto astratto della libertà per sé stante, nient’altro ha una
forza così indomabile; appunto perché la libertà è l’essenza propria dello
spirito, e cioè la sua realtà stessa. Intere parti del mondo, l’Africa e
l’Oriente, non hanno mai avuto questa idea, e non l’hanno ancora i Greci e i
Romani, Platone ed Aristotele, ed anche gli stoici
non l’hanno avuta: essi sapevano, per contrario, soltanto che l’uomo è
realmente libero mercé la nascita (come cittadino ateniese, spartano ecc.), o
mercé la forza del carattere e la coltura, mercé la filosofia (lo schiavo,
anche come schiavo e in catene, è libero). Quest’idea è venuta nel mondo per
opera del Cristianesimo; pel quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo
dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come
spirito, e far che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo è destinato alla
somma libertà. Se nella religione come tale l’uomo sa la relazione verso lo
spirito assoluto come verso la sua essenza,egli
ha presente inoltre lo spirito divino anche come quello che entra nella sfera
dell’esistenza mondana, come la
sostanza dello stato, della famiglia, ecc. Queste relazioni vengono, mediante
quello spirito, formate e costituite in modo adeguato ad esso; ed egualmente,
mediante quello spirito, formate e costituite in modo adeguato ad esso; ed
egualmente, mediante siffatta esistenza, il senso della moralità diventa insito
all’individuo; ed egli allora, in quanto sfera dell’esistenza particolare, del sentire
e del volere presente, è realmente libero”.
Napoli, febbraio 2015
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