SPAZIO LIBERO
GLOSSE CRITICHE
La poesia ‘altra’ ed empatica
di Franca Alaimo


      
Rigogliose riflessioni sul libro “Sempre di te amorosa”, in cui l’autrice siciliana ha cercato di rivivere in ora meditativi, ora onirici e ora metafisici versi la storia breve di sua madre Johanna Becker. Un volume dove i due mondi, così separati, della genitrice e della figlia provano a dialogare, a congiungersi pur senza convertirsi l’uno all’altro, in un arco di attesa di emotivo coinvolgimento fin troppo ombelicale. Nella lucida, instancabile trama delle parole, il territorio della scrittura appare in lenta, attiva, solida composizione.
      



      

di Carmen De Stasio

 

Imparando come si riesce a dare respiro ad una vita[1]

 

Un’esigenza. È sempre scaturigine di un’esigenza – bisogno. Bi-sogno. Meta-sogno. Prendere una penna e un foglio o sistemarsi davanti allo schermo piatto di un computer – possibilmente un personal, privato – e comporre nell’ordine segreto (parola scrivente in un territorio che vive nel momento in cui la parola appare) i pensieri, frutto di meditazioni alternate ai tempi in cui la mente è impegnata nell’oggettualità dell’esistere.

Probabilmente questo assumerebbe l’aspetto di un’attività pericolosamente prossima al compiuto slancio diaristico. È vero che pure quello dia note di poesia, ma si tratta di evoluzioni brevi, che si impoveriscono al sorgere di un’aura pronta a limare l’inganno. Deragliano nel momento in cui il lessico appare straformato nel ristagno in superficie perché improbabile richiamo a condivisione.

La poesia altra, invece, suggerisce condivisione. Nessun intervallo plesobiosico. Nessun malinteso, né errore ortografico. O refuso mentale. È poesia altra distinta come linguaggio architettonico di pensieri; come struttura che si priva della rigidità di un solipsistico scrivere. Scrivere-vivere.

Le poesie-diario vivono solitarie per scelta di un pensiero parlato di libertà. Ma non sono libere. Sono attori e svolgono un ruolo. Succedono a se stesse come insinuazione che sgorga in un rio, un torrente. Tra il pietrisco aguzzo o smorzato e dalla superficie glabra.

La poesia altra non sgorga. A sgorgare è la riflessione che tinge l’intuizione, sovente confusa con l’appartarsi discreto. La poesia altra è fermento di studio; rinnega le vicende come provocazione alla scrittura. Non è semplice e facile segno o sosta nel tracciato del vivere brulicante e non sempre risuona come tormento.

Le poesie di Franca Alaimo sono scene di una poesia altra, composta da lettere, parole isolate, castigate, accompagnate. Caratteri minimali che incidono il corsivo di eloquenze dell’intelletto che ingloba in sé la scaturigine di indagini ferventi.  Lettere fenicie – lo afferma lei stessa – che si sostituiscono allo schema con una costruzione sensibile, appercettiva oltre il giardino con segni d’interpunzione. Un motivo c’era se i Sumeri avessero inteso necessario stabilire una ripresa di fiato tra le parole: una sosta perché il pensiero varcasse la soglia del cerchio e acquisisse ulteriori luoghi. Perché le parole scrivessero nuovi territori. Fossero advisors e non sfuggisse la monotonalità del ritmo. Il che avrebbe annichilito il proprio ritmo.

 

La lingua viene forse da un sogno?

È partita dalla scrittura cuneiforme,

Ha spinto le lettere fenicie nel mare dei suoni

Questa mia mano per giungere all’approdo?[2]

 

Sul terreno in costruzione l’azione di Franca avviene in evoluzione. Lei-sé parla di una donna. Che è lei al di là di lei. Che è lei aldilà (di lei). La madre. Una e una in particolare. Nell’al di là non è difficile provocare un incontro con i tranci – tralci di una vigna fertile che arriccia il luogo in piccole esperienze. Preannuncio di nulla. Vita a volte sghemba, tal altre monotipica. Di quella monotonia s’investe, simile a nodo d’albero che si dirama in tanti piccoli istanti che concedono l’intreccio, attivamente collegati tra loro e con il sogno, con l’ipotesi di cosa sarebbe stato se tutto fosse stato diverso, sebbene razionalmente, lucidamente (ma è impossibile) non indugia oltre.

Sognare può far molto male. E ciò è vero soprattutto perché Franca non ha la consolazione della nostalgia. La nostalgia in forma di un mastodontico albero che tutto ritiene, fagocita, rapprende e ripresenta in nuova forma. E nuovo contenuto.

Chiunque provi ad assimilare la poesia di Franca Alaimo, la troverà in-distrazione, mutevole. Basata sulla costruttività. Franca non ambisce a (di)mostrare. Non è suo stile. Stile di scrittura, dunque, di essere. Giacché il prolungamento del meta-pensiero si anima nelle mani, vive nei polpastrelli. Non è astratta tattilità probabile, né fonetica allocuzione con un ruolo a sé rispetto all’evolversi del dire-pensare.

 

Fu l’ardore della pelle e degli occhi a decifrarvi

E il profumo delle bocche e dell’inguine a farvi

Fiori vivi e fonetici sbocciati dal più arcaico dei linguaggi[3]

 

Defaticando dell’impalcatura distintiva un’affermazione di Primo Levi in La tregua, potrei asserire che la poesia di Franca sia un’incessante ricerca di scarpe – e non necessariamente comode ‒ per ricompattare nella realtà totalizzante gli aspetti concreti, le congetture futuribili, il sogno. Scarpe per camminare a ritroso, scomporre in realità i trascorsi tratti. Scarpe per recuperare nutrimento per e al vivere

 

E dire parole senza ricordare quali.[4]





Franca Alaimo


Tutt’intorno è silenzio. Nel silenzio distante è la cura a creare dialogo. E l’autrice stabilisce la sua empatia con un silenzio – il suo in sé e altro da sé – che vuole parlare, ma non in verbalità a due voci, mediante la quale estraniarsi dal mondo delle cose. Al contrario, la conversazione avviene in un ambiente che entrambe le donne conoscono. È il tempo a rimarcarsi diverso. Franca ne ha contezza nel dopo – già da tempo donna. Ne assume i caratteri accrescitivi nella fisicità e nella culturalità.

Lei, la madre – l’altra da sé e l’altra in sé – io-lei riconosciuta – è recuperata tra le ostilità della conclusione affrettata della vita che cede il passo alla morte.

I due mondi, così separati, si congiungono pur senza convertirsi l’uno all’altro con un’attesa di emotivo coinvolgimento fin troppo ombelicale. Nella lucida sostanzializzazione delle parole, il territorio appare in lenta, lucida, solida formazione. Nel suo profilo vanno a intendersi le dimensioni del tempo, divenendo tempo. Aleggia come spirito d’intelletto e recalcitra qualsiasi occasione perché diventi estraneo a sé. Ecco che, in questo modo, il rifiuto di occuparsi di due voci rasenta il baratro: Franca si appropria della complessità esistibile e inarca il suo parlare con le cose e gli eventi. Diviene cose ed eventi. Avverte le parole temporalizzate e le riprende, sì che il loro aspetto contestualizza un particolare spazio, perdendo l’iconocità statica di un altare desolato, teso solo a conquistare le singolarità nell’articolazione ordinata, contrattiva, dei pensieri.

Dunque, anche il territorio partecipa della meditazione. Non spiega e non vuole spiegare, se non in una forma ellittica. Si allarga, si comprime; è azione di pensieri. I pensieri di Franca, la quale zooma lentamente come stesse coltivando quel trascorso per drenare la nostalgia affinché si distacchi dal rischio di restarne invischiata.

Non rimpianto. Solo una promessa.

Non dolore. Null’altro che la parola dei pensieri volitivi. Una dettagliata cinetica infusione inossidabile in un mondo realizzato, senza equivoci.

Desiderio di ritenere prima che sia tardi. È sempre tardi e non lo è mai.

 

Tra le foglie e la luce e la morte, e si toccano gota a gota

Il presente e il passato. La luna è andata e tornata

E sei tu che mi guardi: è un sogno sognato

Il tuo viso, il materno sorriso[5]

 

Tutto avviene in logica.

Tante le situazioni che si svolgono in-presenza con i modi, le sembianze, i gesti, i richiami culturali e spazio-temporali; agganciano l’individuo ai propri trascorsi, quelli ‒ ben inteso ‒ più vivi di un sogno vissuto di recente e la cui forza-potenza sia concentrata nelle significazioni che, rivestendo il non-luogo della propria sostanza, restano. È per questo che restano, pur con l’amaro consistente, ruvido, che impregna al punto che ci si accorga della valenzialità solo nel dopo. O forse solo nel sonno e nel sogno, quali nostri magnifici doni[6]

Eppure, nel caso di Franca Alaimo né il prima né il dopo hanno un’investitura sul sé persona. Lei è sì il frutto dell’Amore. Ha sì vissuto quella pienezza, ma il ricordo non corrisponde all’effettività del trascorso com’è inteso nella pragmaticità delle sequenze routinarie, nel corso delle quali gli oggetti sono dispersi come ignobili d’attenzione e gli eventi – realizzazioni di sguardi, gesti, parole, suoni, odori – sono immortalati nella dimenticanza. Quello narrato é passato che si racconta diluendosi nell’immaginazione; si rapprende nelle pieghe di un vissuto alternato, in autonoma riconquista, suscitato da un cenno esistenziale che va ad alterarsi in virtù di un pensiero che svolta altrove, pur collocandosi in una spazialità conoscibile e intra-riconoscibile. Il che mi riporta a Proust, al jardin:

 

Percorrevo delle macchie dove la luce del mattino che imponeva loro delle divisioni nuove, potava gli alberi, sposava insieme i diversi fusti e componeva dei mazzi. Abilmente essa attraeva a sé due alberi; aiutandosi con le potenti forbici del raggio e dell’ombra, asportava ad ognuno metà del tronco e dei rami, e intrecciando le due metà che restavano, ne faceva un unico pilastro d’ombra, che delimitava la zona soleggiata all’intorno, oppure un unico fantasma di luce il cui contorno fattizio e palpitante era chiuso in un reticolato di vera ombra[7].

 

Penso allo Shakespeare intenso e lucido dei sonetti. Alla donna dai capelli irruviditi dall’esperienza delle cose ordinarie. Ai gesti che assolvono all’a-more, in una condizione a-micale che diviene comportamento di tutto un ambiente.

 

Ma la tua estate eterna non svanirà

Né perderà la bellezza che possiedi,

Né potrà mai vantarsi la Morte del tuo vagare nella sua ombra,

Quando negli eterni versi nel tempo crescerai:

 Finché gli uomini potranno respirare e gli occhi vedere

 Finché tutto ciò vivrà, questi versi ti daranno la vita[8]





Alessandra Di Francesco, In-vestiti, 2010


Un fenomeno straordinario scardina le rinnovate tensioni dell’ambiente: nella sua variabilità il tempo stempera nelle oscurità il dolore e il segno appare greve:

 

(…), chiudo gli occhi

E d’improvviso il filo del tempo s’inceppa,

Scoppia come in un lampo di magnesio

Una luce bionda fluviale, una forma chiara

Subito smarrita in una grigia nebulosa:

You can find the key (…)[9]

 

E la chiave è là, disponibile nelle lingue che trasudano attraverso direzionali svolte, nell’accoglimento di attimi osservati in un tempo che vive accanto al tempo delle sequenze. È la chiave da recuperare nell’enigmatico esistere a permettermi di assumere Franca Alaimo è tra i massimi poeti. Non oso aggiungere contemporanei, giacché intendo l’arte in maniera leonardesca: un presente con uno sguardo sensibile fermo sul compito dell’elaborazione, altrimenti sarebbe strabica parete sulla quale solo ombre oserebbero proiettarsi, occupando zone facilmente cancellabili.

Poesia di lotta instancabile e non contro. Contro le cose ordinarie – che pur fanno parte del quotidiano; sono vita ‒ non si può non dar loro giusta rilevanza. Ed è a questa rilevanza che Franca si affida per trarre materia strutturata dall’uomo e a lui volta. Se visualizzate nel percorso naturale, nel tempo sbiadito, le cose sbiadiscono pure; sfuggono e con loro rifugge anche la natura serbata all’interno e la loro significazione. Se ne giustifica la dipartita. E allora anche la fantasia muore, trascinandosi quella parte fondamentale della realtà che il creatore incastra per costruire Poesia, attraverso meditazioni incalzate dalla mente che fagocita l’intorno e l’intorno che è stato, rapprendendosi con esso e dirompendo

 

Tra i solchi della terra: ogni cosa balzata fuori nella notte

Viveva e dappertutto l’aria scintillava di frasche di verde di luce.

Si andava e veniva dalla casa rotolando frutti sul tavolo di legno,

Profumi come sciami di amore nella stanza,

Colori come arcobaleni palpitanti; (…)[10]

 

Il linguaggio anaforico compie uno sviluppo che allaccia e lascia al contempo libere le affermazioni del ricordo in un sistema composto da parole messe in fila una per una, fino a formare una catena rigorosamente libera da ogni degenerazione superficiale. E si tratta di catena realizzata per scelte: fluida, guarda a un orizzonte, oppure si restringe con uno sguardo che curva. In ogni caso mai si spezza, formando un continuum sinestetico di elementi semantici; pulsante d’accensione di effetti successivi, che si compiono nella mente del lettore.

Non vive nell’acqua la poesia di Franca. Il suo ricordo non è tormento. Più vicino alla concretezza del seminatore, l’autrice si ritrova ad afferrare le tonalità, le pendenze, le discrepanze e gli svuotamenti della sua storia e s’incontra. Nulla che tracci percorrenze oscure o misteriche invasioni di uno spazio reso flebile dalla diffusione. Forse uno squarcio di rimprovero alle cose perché il corso delle storie che legano madri e figlie dovrebbe essere di convivenza, magari alternata da guizzi di follia ed invece nulla è accaduto. Troppo giovane Franca per accedere alle sornione sorti di un’abitudine che lei avrebbe vissuto (volentieri).

Perché adesso, perché non prima – potrebbe essere un quesito. La realtà costruita per faglie da coprire è un tutto pieno di colori che man mano, sviscerandosi e tingendosi delle cromie del tempo che passa e mai invano, si svuota; i colori avvizziscono come tutto ciò che è animato dalla storicità di un tempo minimale soggetto a consunzione. La catena si accorcia e accorciandosi limita le distanze. Incrocia una traiettoria che si riprende e riprende il proprio spazio come un terrapieno. Questo il senso della poesia nel rigore che penetra la superficie viscida e spesso nodosa di un’esistenza dedicata allo spasmo da prestazione o, all’occorrenza, dal timore di non giungere all’osannata meta con il giusto ritmo.

Sprezzante e alla ricerca dell’intonazione corrispondente alla propria immagine mentale, il poeta scava nel fondo della sua azione umana e recupera grigiori, immagini lontane; fustiga le medesime immagini nel momento della proiezione sulla pagina e condivide con l’altro che legge (egli stesso proiettato in una seconda entità), una percezione che si affastella sempre più di nuove identità. Il poeta dice così di sé; sente le parole dette, apprende e stringe dentro di sé anche i voli e le congiunzioni trasparenti nascoste tra un rigo e l’altro. Tra una parola e l’altra. Vita che pulsa nel contesto sensibile e nell’ultroneo. È linguaggio sintetico di sensi, di tremiti e roboanti meditazioni che procedono da visualizzazioni fantastiche e materiche.

Nel rappresentare visibilmente le linee di congiunzione tra il tempo, le meditazioni e i colori in-presenza dei fatti, un pittore potrebbe far coesistere il dinamismo obliquo e drammatico cubista o una scultura, le cui convessità si coniugano in una corsa incessante con le concavità in un movimento irrisolto ‒ una porta aperta che preannuncia il sempre questo e il sempre altro.

Non lotta la poesia di Franca con uno stile che confermi se stesso. Non si riconosce nelle parole bloccate da uno spirito che razionalisticamente dovrebbe condurre a sostenere le stesse arie, le medesime torsioni del pensiero. Non sarebbe creazione e non sarebbe poesia. Certo, fuori da ogni contraffazione metafisica, le parole denunciano l’eloquenza dell’errore ‒ il misfit vulcanico, nel quale  l’individuo in un giorno qualsiasi della sua esistenza si è trovato bloccato. Arso. Arditamente capovolto. O raggirato. Che contrasta e al tempo contraddistingue un moto di riflessione che va a rendersi mutevole in relazione alle relazioni e alle relazioni con il sé rispetto ai turbamenti provocati dall’ambiente, a volte inghiottito, altre volte rassicurante nella misura di quanto si vada a prospettare fuori da sé.

In tramezzo tra uno scientifismo a tutto tondo e l’apertura alle condensazioni derivate dai precetti di oscurità che pervadono percezioni e ricezioni affinché non siano fulminanti giochi di luce, ma apportino quelle vivacità secondo le quali la meditazione rende davvero efficaci i suoni delle parole, i loro tumulti e le loro dissonanze, orbene, in questo modo Franca si stacca da generi, soprattutto quelli inscatolati tra femminile e maschile e pervade fonologicamente le sue parole con tempeste (furenti, piane e mai appassite o mute, senza esser pervase dall’annichilito silenzio della mente) che acquisiscono la tenacia dall’esteriorizzazione delle cadenze che, come scia, sono rilasciate dagli eventi.





Christiane Loehr, Forma d'archi e piccola elevazione, 2010


Affrancatasi dalle tormente di un’angustia provocata dal mistero del mistero e dal mistero del nulla, nel quale l’animus penoso si proietta alla ricerca di non-risposte che possano solo rimarcare la sofferenza, la poesia di Franca tralascia l’accademico stravolgimento metafisico e si ricompone nel tratto marcato delle cose ‒ si potrebbe arguire, a occhi asciutti e non meritevoli di lacrime. In una maniera vicina al pensiero di Vico, l’autrice rapprende in un unicum articolato la forza di un divenire che, scombussolando il pensiero del filosofo, influenza certamente il corso dell’esistibile e ne concentra le causalità in ogni elemento, sì che ciascun elemento diviene, infine, sostanza. E allora si ritorna nella lettura. Si centellina il pensiero riflesso di ciascuna parola. Ciascuna parola accoglie il mondo rappreso e cementificato in valenzialità che in sé sostengono l’ansimare analogico in una prospettiva meta-analogica, dove si compie il passaggio. Infine, la meditazione del poeta devia il corso, consegnandosi

 

Al leggero e gravido nulla

Sempre prossimo alla germinazione[11]

 

L’irriducibile confluenza di plasticità e rappresentazione semantica rafforza una sintassi che si nutre di gravida tensione, come se non ci fosse che un unico obiettivo, significativamente trattenuto tra le trasparenze della voce. Voce di pensiero vagante in una sorta di orizzontale traduzione dell’ascensione. È forse questo l’effetto di un pensare al proprio esistere e sovente più in là con gli anni? Non esistono risposte a domande equivoche come questa. Chiedersi il perché quando appena ancora si ha appercezione del tutto è alchemico quesito e talora al servizio di domande alle quali non si vuol dare risposta. Franca non cerca domande e non pone risposte azzardate. Parlo di svolte e non già di soluzioni, che l’autore non cerca. E perché poi? Per giungere a cosa di diverso da ciò che è l’autobiografia poeticizzata? Oppure uno schema sintetico per stabilire un punto e a capo e chiedersi che ci si possa inoltrare in un territorio nuovo? Un territorio con l’abilità di concepire oltre l’altro questo sì – un arricchimento. Razionalizzazione per uscire dal dolore, no, l’autore non ci pensa, sarebbe compassionevole rilanciarsi del lutto ennesimo. Sono parole che avvolgono un nucleo straordinario, in quanto fuori da archetipi del consueto. Sostanziale visione perché la vista della mente ne sia appagata.

Franca cerca la voce della madre perché in lei traduca la propria voce. Non già per avvertirla come controcanto, ma come parentesi esistenziale tra il fattualizzato precedente e l’oscurità susseguente, il futuribile opinabile. Nell’esperienzialità svolta in continuo arricchimento e incessante sottrazione, ella sembra correre lungo una linea fertilizzata nella costruzione; nei tratti percorsi scopre non una madre, né la madre. Ne scopre la lingua. Di tutto resta la lingua ‒ ebbe a dire Hanna Arendt.

Nella ricerca di mettere insieme tessere disarticolate in un tracciato che acquisisce tutto lo spazio che tempi velocissimi avevano dissolto in un piatto acume di emozionalità, Franca risolve un quadro, lo rende alla sintesi oftalmica e lo svolge su un piano; ne coglie elementi corpuscolari e identità inimmaginate perché appena intraviste e spesso trascurate. Per questo ha bisogno di guardare con entrambe le fasi razionalizzante e immaginativa, affinché tutto possa comparire e continuare a comparire anche nelle pagine non scritte del libro – senza imbellettamenti di facciata.

Resta la lingua ‒ medium all’interno del cerchio che riunisce tutte le identità. Le relazioni e le relazioni tra le relazioni. Tutti insieme diventano voci concertuali in reciproco arricchimento; riempiono spazi vuoti invisibilizzati. Voce per riconoscersi e riconoscere quella lingua che sa di appartenenza senza essere preclusione. Che non ostacola svolte retroattive perché in piena libertà di concedersi libertà.

La poesia da sola non basta a definire la scelta libertaria del poeta. Anzi, a volte, è impedimento, perché trasvola lo scibile occorrente e s’incastra con uno scibile fortuito, quello che comporta il vedere ciò che talora non si vorrebbe. È il mestiere del vivere: non dimenticare, altrimenti la stessa creatività ne avrebbe a soffrire. E così Franca, anziché ripescare falsati ricordi, li crea in virtuale generazione. Le immagini appaiono fantasie realizzate come un marchingegno tecnologico, sì che il contatto diventa diretto, immediato. Al contatto ella si avvicina e lo nutre con le sue esperienze di vita, soprattutto di vita culturale.

Non parla di sé. Parla del sé che in lei esiste. Potrei dire che sia in perenne uscita, seppur dall’equivoco esclusivo incentrato sulla fantasia nebulosa si tenga a distanza. È certo: il lettore si accorge sia scrittura che allinea semantiche individuali ‒ un’illuminazione che parte dal desiderio di intraprendere una riflessione per parole parlanti. Giacché Franca non mette in risalto le uguaglianze e le differenze. Non vuol parlarsi e attraverso la madre scopre la donna e se stessa donna. Scopre un non-luogo sottoponibile a qualsiasi correzione e decisione che non sia mai definitiva.

 

Tra i passi del giardino dove si allungavano

Le nostre ombre toccando la corteccia del noce

Dove io potevo vedere la tua voce,[12]

 

E adesso ti spiego di chi parlo.

 

Se vorrai, potrai capirlo – Mi risuona questa frase ossessiva nella mente, mentre chiudo l’ultima pagina che non corrisponde alla conclusione del libro. Da là comincia un nuovo tratto, ma da quell’ultimo tratto invece ho ricomposto quello che considero l’inizio e ho trovato una donna. Una scelta. Femminile. Un sogno fattosi materia, ma mai materializzato nella maniera più arida. Nemmeno un sasso, uno dei tanti di Tortorici. Che invece risuona come sogno di sole per uscire dalla mezzanotte. Dalla condizione di mezzanotte. Un sole che ha sfiancato la donna, infine, che l’aveva scelto per uscire dall’ossessiva oscurità temprata dalle luminescenze torbide di bombe, di sudiciume umano e di nefandezze in nome di un ordine, di un cliché.





Emilio Sobrero, Le bagnanti, 1937


Una voce piana è il suono ricorrente. Nulla viene rimproverato e giustappunto nulla di amarezza pervade le intonazioni che sembrano scorrere come in un foglio di programmazione. Destino? Sfortuna? No. Scelta. E nel nome di una lingua imparata per condividere, composta di parole essenziali, asciutte come le pietre che costellano il regno senza incantamento dell’uomo amato e con il quale il sogno continua di notte come fosse quella la sola vera realtà, si rivela e si disvela la scelta di libertà.

La scelta ponderata di una donna. Senza definizioni temporali. La donna altera, consapevole, vive in ogni tempo. Abita il non-luogo della refrattarietà al pensiero. Non distingue le umili mansioni dalle professioni comode, giacché è la valenza dell’abilità di procrearsi come svolta ogni volta nuova in sé a renderla cavaliere. È a questa donna che Franca si rivolge. Madre bellissima che combatte per affermare la sua pianificazione di vita. Cosciente e addolorata alla luce del giorno; spoglia dell’oscurità del giorno e nell’oscurità convoca le sue attese perché siano la luce.

Si intrecciano in questo modo inesorabili le note delle poesie di Franca, la quale non è menestrello narratore delle vicende auscultate dall’autrice del romanzo in apertura, Stefanie Golisch.

Una vela nel vento. La donna si spiega attraverso l’azione. Nei versi di azioni narrate Franca percorre un tracciato immaginato, imbastito a maglie larghe. Nulla di edulcorato. E, infatti, la narrazione parte dalle intenzioni della protagonista e là si ferma. Dopo, diventa odore nell’aria. dolore nell’aria. Storia a lettere minimali di una vita che si è ricongiunta all’inizio come una circonferenza segnata dai due punti del compasso: Johanna e il suo uomo – il soldato venuto dall’Italia. Si può rivivere la storia breve di Johanna Becker – la madre bellissima, alla quale l’intero volume è dedicato ‒ nel rifiuto dell’agio di Simone Weil – anche lei risucchiata nell’essere dell’umanità piuttosto che convincersi che sì, va bene un pensiero dedicato ai commiserati e poi il rientro nella bambagia. Come Simone, Johanna si affida all’essere tra tanti. Cerca il non-luogo aperto dell’amore. A lei – sempre di lei amorosa ‒ si rivolge Franca con una preghiera o madre bellissima del parto. E poi a coloro i quali hanno voluto dare parola e alla parola abbiamo inteso affidare il nostro sbirciare o sprofondare in quell’atmosfera di pietre.

Assimilabile a un costrutto logico-semantico sostenuto dalla compattezza delle motivazioni, la poesia d’intenzione della Alaimo s’identifica con il significato non tanto intrinseco e, soprattutto, esteso di poiein ‒ creazione e creazione umana, ivi comprese le discordanze e le dissonanze che gli eventi fortuitamente incidono. In questo modo l’autrice si localizza nella fumosa sfera della seconda immaginazione nei termini del Romantico S. T. Coleridge. Similmente, ella ricerca un vivere che non sia nell’approssimazione delle cose terrestri, visionate e nutrite in maniera sfalsata attraverso la pellicola sottile eppur magmatica della superficie. Nel rivolgersi alla madre – donna, parla con il sé che esce dal se stesso consuetudinario. Si disloca di fronte a lei e pone al suo sé, complessificato da tantissime esperienze di vita, la riconduzione a un evento che si riveste di malia in virtù di un ritrovarsi compatta con la donna-madre attraverso il ricordo. E così, nell’evoluzione narrata delle riflessioni, passa ad un tu anti-evocativo; si allontana dall’ossequiosa iridescenza di spazi di sublimazione dell’esser madre e la materializza nelle parole

 

A me così tanto sbiadita che devo inventarti e

Inventandoti dire che il mio sogno è quello vissuto

Quando la vita era troppo piena di futuro

Per apparire vera[13]

 

Un’assenza. Un’immagine mobile sbiadita. Nei segnali grafici addensati di emozioni razionalizzate nella strutturazione manifesta del pensiero, Franca adotta il palcoscenico del suo piano d’indagine, sul quale conferisce consistenza alla parola perché non vanifichi la rotta della corrispondenza con il pensiero del lettore. Sì, certo, ella-poeta scrive per se stessa. Ma ciò è vero fino a un certo punto, ben viciniore. È un punto dotato di rispettosa elasticità. Parla con le parole, con loro come veicolo s’inoltra ad annusare un territorio come avrebbe voluto che fosse, e al contempo se ne ritrae. Anzi, stempera nel ricordo attivo quelle mancanze affinché fuoriescano dall’eremo dell’assenza. Questo comporta una sorta di costruzione numerica: le parole sono fatti e ad ogni fatto corrisponde una sequenza di scena, così che nell’accumularsi, esse non si dissolvono, ottenendo un effetto maieutico, esortativo.

Una sintassi filosofica.





Carlo Iacomucci, F.K. - Un Volo per Vitafiorita, 2003


Non di reazione si può parlare in questa lunga conversazione che l’autrice imbastisce con un’immagine fantastica e a un tempo razionalizzata della madre. Ella è donna, ma non dimentica la condizione di infante e di fante mandato in avanscoperta sul terreno di battaglia. Scindendo la propria essenza, guarda a quel passato una volta impregnandosi dell’esistere della bimba anche nella fase pre-natale. Altre volte allunga il passo con la complicità di donna e da donna riflette in una maniera addirittura anticonformista per quanto riguarda la poesia del ricordo, perché non si ostina a scegliere percorsi diradati da una metafisica che sarebbe affettata, o referenziale, o paludata da congetture nostalgiche. Nulla di tutto questo. Certo risuonano le note sincretiche di una devastazione, che c’è, esiste perché fuor di dubbio che sia quell’esperienza una lancia in favore di un vuoto provocato da una macchinazione (destino?). Eppure materico è l’aspetto della scrittura, denotata da un senso di durata implicito nelle cose e all’interno di esse si ritrova; in essa anche il lettore accorto trova anche la coerenza del reale, nelle sue impalcature, tanto concrete quanto corredate di elementi immaginativi.

Nella lettura tanti sono i criteri adottati perché si possa parlare di riflessione filosofica, linguistica. A partire dalla poesia che apre il percorso. A tal punto mi urge sollecitare una particolarità d’osservazione. Non definisco silloge quella creata da Franca, quanto piuttosto una narrazione che si adatta alle meditazioni successive, di anni, di contrasti, di oniriche situazioni, vuoi anche, e perché no?, per sfuggire talora e rifugiarsi in una dimensione che abbia il tepore tenebroso del cantuccio, della tana senza la quale si sarebbe sempre allo scoperto. E allo scoperto agisce il gesto e si sviluppa la trama storica di questa particolarissima poesia. Una voce unica in evoluzione. Per questo non posso definirla silloge – concerto a più voci di vari autori. Eppure, incredibilmente, essa potrebbe sì essere riferibile come articolazione di varie condizioni vissute, appartenenti al sé scisso in innumerevoli esperienze, nel corso delle quali avviene la razionalizzazione prospettica di ciò che si è, del fermento attutito attraverso la variabilità dei ritmi in un campo che è tanto vasto, quanto ancora in potenza. Quanto, altresì, temperato dalle vicende vissute. Su tutto aleggia un sempre. Dal pre-inizio – il consueto pre-inizio di tutto. La pre-nascita. Punto d’inizio e svolta a suo tempo – così come s’identifica nel racconto che anticipa le poesie. Un racconto di vita composta e composto di

 

Tanta lunga assenza, tanta pioggia d’anni[14]

 

Nel vuoto, gli anni. E inizio dalla conclusione, il tempo della scrittura, nel quale si traduce il tempo delle azioni e delle riflessioni, così che nel navigare nell’insoluto possa man mano accostarmi alle motivazioni. Non sarebbe logico il contrario. Sarebbe percorrenza simile a una spiegazione conferita in anticipo su una storia. E invece, le pulsioni ritmate e letterate attraverso parole che stringono il campo fotografico su una scena prima che si possa congiungere alla successiva, si animano di tale impressione da restare nella mente del lettore accorto. È realtà amica, che sembra disegnare l’espressione di a-more come corpo impregnato di innumerevoli esistibilità per sfuggire all’alitante senso di morte.

 

 

 



[1] Segnali di vita e di morte, F. Alaimo. Da «Sempre di te amorosa», LietoColle, Faloppio (Co), 2013, p. 56

[2] La chiave, F. Alaimo, op. cit., p. 53

[3] Linguaggi, F. Alaimo, op. cit., p. 45

[4] Serale, F. Alaimo, op. cit., p. 55

[5] Visioni nel bosco, F. Alaimo, op. cit., p. 47

[6] Serale, F. Alaimo, op. cit., p. 55

[7] La strada di Swann, M. Proust, Bibliotex, 2002, Barcellona, p. 411

[8] Sonnet XVIII – 1609, W. Shakespeare:

But thy eternal summer shall not fade

Nor lose possession of that fair thou owest,

Nor shall Death brag thou wander’st in his shade,

When in eternal lines tot ime thou growest.

 

So long as men can breathe or eyes can see,

So long lives this, and this gives life to thee

[9] La chiave, F. Alaimo, op. cit., p. 53

[10] Risvegli estivi, F. Alaimo, op. cit.,p. 64

 

[11] Ovunque sparsa, F. Alaimo, op. cit.,p. 65

[12] La limpidissima sostanza, F. Alaimo, op. cit., p. 57

[13] Vivi perché ti invento, F. Alaimo, op. cit., p. 58

[14] Anche nei miei sogni, F. Alaimo, op. cit., p. 59




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