di Marco Palladini
È morto lo
scorso 21 febbraio a Milano Luca Ronconi. Ho letto la notizia con sgomento. È
stato con Giorgio Strehler e Massimo Castri il massimo rappresentante del
teatro di regia in Italia, ma anche uno dei massimi registi contemporanei della
scena europea e internazionale. Questo 8 marzo avrebbe compiuto 82 anni e da
otto stava in dialisi. Se l’è portato via una improvvida polmonite che probabilmente ha aggredito un fisico già provato. O forse
no. Perché Ronconi come Molière è praticamente morto in scena, ancora
iperattivo come sempre. Lo scorso 29 gennaio aveva debuttato a Milano un altro
suo spettacolone di oltre cinque ore di durata, Lehman Trilogy, basato su un testo di
Stefano Massini che racconta la parabola finanziaria dei Lehman Brothers, fino alla bancarotta del 2008, con il fallimento della
più grande banca d’affari americana. Data d’inizio della crisi mondiale che
tuttora ci attanaglia e che mostra le contraddizioni inestricabili del finanz-capitalismo del terzo millennio. Insomma, fino
all’ultimo Ronconi è stato ‘sul pezzo’, sulla cresta d’onda del tempo presente, sempre
capace di individuare gli spunti, i temi, gli autori su cui esercitare la sua
maestria di super-immaginifico metteur-en-scéne.
Improvvisamente
i miei ricordi regrediscono alla fine degli anni ’60, quando da studente ginnasiale
fui portato dalla scuola al Palazzo dello Sport all’Eur
a Roma, per vedere il suo Orlando furioso,
architettato con la riduzione drammaturgica di Edoardo Sanguineti. Nulla sapevo
di lui e, praticamente, del teatro. La mia idea del teatro era allora limitata
alla visione di qualche commedia nel bianco e nero della televisione di allora,
o di qualche triste e frusta rappresentazione scolastica che immiseriva persino
i testi di Shakespeare. L’allestimento maestoso e stralunato di Ronconi, la
moltiplicazione in contemporanea dei palcoscenici mobili, il gioco puntiforme e
coinvolgente della folla di attori fu per me né più né meno che una
folgorazione. Mi aprì le porte di un nuovo mondo, mi fece discoprire la
meraviglia del teatro come un rito e una festa che travolgevano gli occhi, il
corpo e la mente. Fu quell’input entusiasmante ad accendermi la passione per il
teatro che mi portò oltre una decina di anni più tardi a occuparmene
professionalmente a vario titolo.
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Mariangela Melato in una scena dell'Orlando furioso di Ronconi (1969)
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Ronconi nel 1969
aveva trentasei anni e aveva già fatto spettacoli importanti, tra gli altri: I lunatici di Middleton
(1966), Riccardo III di Shakespeare
(1968) con Vittorio Gassman e le scene di Mario Ceroli,
Candelaio di Giordano Bruno (1968).
Ma fu indubbiamente l’Orlando furioso
da Ludovico Ariosto che debuttò al Festival dei Due Mondi di Spoleto, che gli
diede immediatamente lo status di maestro della regia contemporanea, riuscendo
lui a sintetizzare il sapere del grande teatro di tradizione e gli impulsi
innovativi dell’avanguardia. Ecco tutta la sua lunghissima, eccezionale
carriera si è svolta lungo il confine ogni volta rielaborato e ripensato tra la
tradizione scenica e l’innovazione di segno linguistico sempre intelligente e
calibrata. In questo senso veniva visto dalla sponda avanguardista come un
‘mediatore’, uno che mediava tra la ricerca radicale e le esigenze del teatro
più convenzionale. Ma lui non se ne curava, faceva spallucce e lavorava
tantissimo. Produceva centinaia e centinaia di spettacoli (tra prosa e lirica fino
a sette, otto, nove allestimenti all’anno) sempre dando fondo alle risorse
della macchineria scenica. Mitica è la sua capacità di lavorare sulla
scomposizione multipla dello spazio scenico, usando i più mirabolanti e
visionari marchingegni, affiancato da eccellenti scenografi da Enrico Job a Gae Aulenti, da Luciano Damiani a Margherita Palli.
Ecco Ronconi si
è sempre guardato bene dal teorizzare alcunché sul teatro in generale e sul suo
teatro in particolare. Artista sommo, credo che si reputasse in primis un grande
artigiano, uno che conosceva le regole di base dell’arte scenica e che
privilegiava la prassi, il fare, il concreto poiein alle chiacchiere, alle
poetiche, alle etichette, alle dispute dottrinarie o ideologiche sul teatro.
Avendo sempre bene in testa che il materiale fondamentale con cui lavorare era
un testo stimolante da cui partire – e spesso erano testi, di frequente letterari,
bizzarri, desueti, esogeni, ‘impossibili’: mi vengono in mente Ignorabimus di
Arno Holz (1986), Amor
nello specchio di Giovan Battista Andreini (1987), Gli
ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus (1990), L’affare Makropulos di Karel Čapek
(1993), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda (1996), Lolita di Nabokov (2001), Quel
che sapeva Maisie di Henry James (2002), Infinities di
John D. Barrow (2002); e poi i lavori del “Progetto Domani” per le Olimpiadi
Invernali di Torino del 2006, tra cui Il
silenzio dei comunisti di Vittorio Foa, Miriam
Mafai e Alfredo Reichlin e Lo specchio dei diavolo di Giorgio Ruffolo; e ancora negli ultimi
anni le drammaturgie spiazzanti dell’argentino Rafael Spregelburd.
Altro caposaldo
del suo teatro è stato il lavoro con gli attori. Centinaia o migliaia di
interpreti sono passati sotto la sua direzione, i suoi sovrabbondanti cast sono
sempre stati il meglio che offriva la scena italiana. Impossibile menzionare
tutti questi attori, ma non si può non ricordare alcuni dei suoi fedelissimi:
da Marisa Fabbri a Mariangela Melato, da Massimo De Francovich
a Massimo Popolizio, e poi Valentina Fortunato,
Sergio Fantoni, Franca Nuti, Massimo Foschi, Anna Bonaiuto, Edmonda Aldini, Annamaria Guarnieri,
Galatea Ranzi, Franco Branciaroli, Maria Paiato e innumeri altri.
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Luca Ronconi (1933-2015)
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Consapevole
dell’importanza cruciale del materiale umano e tecnico rappresentato dagli
interpreti, Ronconi, diplomatosi all’Accademia di Arte Drammatica, ha sempre
tenuto corsi di insegnamento e laboratori di formazione e specializzazione
(alla Silvio D’Amico, alla scuola del Piccolo, al centro di Santa Cristina in
Umbria), curando assai il rapporto con i giovani allievi e impegnandoli costantemente
in nuovi spettacoli. L’ultimo suo lavoro che rammento di avere visto è stato un
paio di anni fa In cerca d’autore, studio
sui “Sei personaggi” di Luigi Pirandello, fluido attraversamento
decostruzionista del più celebre testo pirandelliano, realizzato proprio con
gli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica. Questo rapporto con le giovani
generazioni non lo ha mai abbandonato, venne anche al Valle Occupato a tenere
una sorta di ‘lectio magistralis’, dando esempi
pratici del suo metodo di lavoro con gli attori.
Del resto, lui
era nato attore e lavorò da buon professionista per otto anni, facendo l’apprezzabile
attor giovine, ritrovandosi ad esempio accanto a Gassman nella commedia Tre quarti di luna di Luigi Squarzina. Erano anni di ‘dolce vita’ a Roma e il Ronconi
ventenne in cerca di se stesso seguiva le correnti della vita mondana
capitolina, talché si ritrovò il 5 novembre del 1958 al Rugantino a Trastevere
quella famosa sera in cui Aiché Nanà
improvvisò uno strip-tease quasi integrale fotografato da Tazio Secchiaroli che finì sui giornali di mezzo mondo. Episodio
scandaloso che, leggermente cambiato, entrò anche nella festa finale del famoso
film di Fellini. Episodio veramente curioso e paradossale se pensiamo al
Ronconi successivo e maturo, alla sua leggendaria riservatezza e discrezione antimondana.
Il suo passaggio
alla regia fu apparentemente casuale: avvenne che con un gruppo di giovani
attori amici (Gianmaria Volonté, Ilaria Occhini, Carla Gravina, Corrado Pani)
aveva costituito una nuova compagnia. Non avendo i mezzi per pagare un regista
decisero di affidare a Luca l’incombenza. Lo spettacolo che debuttò nel
dicembre del 1963 al Valle di Roma era La
buona moglie tratto da due copioni di Carlo Goldoni, “La putta onorata” e
appunto “La buona moglie”. E subito
Ronconi fece vedere di che pasta era fatto. Fu come un’agnizione con se
medesimo. Ronconì capì subito che era quella la sua
vera missione teatrale. La sua prepotente capacità di analizzare testo e sottotesto di un copione lo portò rapidamente a primeggiare
nell’ambito di quella che si chiamava la ‘regia critica’, dove appunto il
regista è il critico come artista, è il perspicace notomista che elabora il suo
sguardo ermeneutico e lo traduce in una visione scenica che apparenta il
regista allo status di reale autore della messinscena. La regia critica ha
significato nella seconda metà del Novecento la predominanza del teatro
‘teatrale’ di contro al teatro di drammaturgia o di letteratura teatrale. Il
teatro teatrale non cancellava il testo (come faceva tanta avanguardia), ma lo
riduceva ad un elemento di partenza da cui far scaturire una ragnatela di segni
scenico-sinestetici che produceva un plusvalore, un surplus di significati
ulteriori rispetto al senso depositato nel testo scritto. E in questo gioco
sempre massimamente ambiguo e sempre, ogni volta da rigiocare, da ricominciare
daccapo, Ronconi è stato un maestro assoluto, il più spregiudicato, oltranzista
e determinato a sperimentare pur non toccando la lettera e la ‘letteralità’ dei
testi che affrontava. Toccando dei vertici di qualità negli anni ’70, prima con
L’anitra selvatica di Ibsen (1977) e
poi con il famoso laboratorio di Prato del 1978, che generò memorabili
spettacoli quali Le Baccanti di
Euripide, il Calderon
(parte I e II) di Pasolini e La torre
di Hugo von Hofmannsthal.
La forza di
Ronconi stava nella sua curiosità inesauribile per la letteratura, la politica,
la scienza, l’economia, così come sapeva passare dal classico al contemporaneo,
da Tasso a Lagarce, da Euripide a Broch,
da Eschilo e Shakespeare a Brecht e Botho Strauss
senza perdere mai di lucidità critica e insieme di dismisura scenica. Regista
barocco, sì, ma mai esornativo o vuotamente artificioso, il senso dello
spettacolo e del visionario si raccordava sempre in lui a una precisa tensione
conoscitiva e intellettuale.
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Ronconi in una immagine degli anni '70
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Il suo crescente
successo negli anni successivi alimentò anche non poche avversioni. Dalla parte
dei teatranti lo si accusava di spendere cifre esagerate. Un regista non tanto
minore mi disse una volta: “Con il costo di una scenografia di Ronconi, io potrei
realizzare dieci spettacoli”. Molti critici, poi, non sopportavano le maratone di
cinque o sei ore dei suoi allestimenti-monstre
(Ignorabimus
mi pare che raggiungesse le dodici ore). E poi, come direttore di teatri
pubblici (lo Stabile di Torino, quello di Roma, infine il Piccolo di Milano), lo
si accusava con la sua bulimia produttiva di non lasciare spazio ad altri. Una
volta mi accadde di chiedergli perché lavorasse così tanto, perché non
staccasse mai. Mi rispose quasi con candore: “Ma io sto bene soltanto quando
sono a teatro a provare. Non ho hobby, non mi piace viaggiare e solo quando
lavoro mi sento realizzato”. Sì, non c’era verso di allontanarlo dalle tavole
del palcoscenico, in pratica questo genio del teatro mi stava dicendo che era
uno inadatto a vivere, che la sua vera vita era la vita ‘seconda’ del teatro. Lo
spazio teatrale con la sua magia illusionistica che svanisce quando si chiude
il sipario era la sua più autentica, forse unica biosfera.
Comunque Ronconi
era sempre in cerca di qualcosa di nuovo e di diverso, quindi era capacissimo
di alternare mega-allestimenti con spettacoli più piccoli, quasi minimali o
monologhi dove si industriava su testualità eterodosse o poetiche: penso a Féerie: pantomima per un’altra volta da Céline (1989) per la traduzione e l’adattamento di Patrizia
Valduga, di cui poi inscenò nel 1992 Donna
di dolori con la Nuti; e ancora L’aquila
bambina di Antonio Sixty (1992), Dio ne scampi di Enzo Siciliano da
Imbriani (1995), Phoenix di Marina Cvetaeva (2001), Nel
bosco degli spiriti di Cesare Mazzonis da Amos Tutuola (2008), I
beati anni del castigo di Fleur Jaeggy (2010) con Elena Ghiaurov,
Mistero doloroso di Anna Maria Ortese
(2012) con la Ranzi.
La dipartita di
Ronconi lascia un vuoto incolmabile nella scena italiana e ancor più nel teatro
della regia critica che è andando negli ultimi decenni appassendo quasi del
tutto. Registi della sua tempra, e potenza ermeneutica ed accanimento di
ricerca non ne vedo proprio in giro. Resistono registi provenienti dalle fila
dell’avanguardia come Sepe, Martone, Tiezzi, ma ormai il meglio è alle loro spalle. Tra i più
giovani citerei il 48enne Antonio Latella, di grande vigore ed energia
creativa, ancorché talora fuori calibro e il quarantenne Massimiliano Civica,
capace di sottili interpretazioni sceniche. Gente come Pippo Delbono, Emma
Dante, RicciForte fanno un teatro sperimentale d’autore
che con la regia critica non c’azzecca nulla.
La morte di
Ronconi chiude effettualmente l’epoca del grande
Novecento teatrale italiano. Figure demiurgiche del suo livello il nuovo secolo
non le annuncia e, forse, mancano proprio le condizioni psico-culturali
perché possano nascere. Adieu Luca, R.I.P.
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La locandina dell'ultimo spettacolo diretto da Ronconi, Lehman Trilogy, in scena al Piccolo di Milano (ph. Luigi Laselva)
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In explicit mi piace qui ripubblicare l’intervista che gli
feci ventisette anni fa e che apparve sulle pagine di Paese Sera il 3 febbraio 1988:
Il viso incorniciato da
capelli e barba candidi, con qualche filo nero, gli si apre spesso in cordiali
sorrisi. Parla a voce bassa, lentamente, mai a caso. È un riflesso della sua
timidezza e, anche, del modo riservato di esercitare il suo magistero
artistico. Perché Luca Ronconi è un maestro, uno dei pochi e autentici, tra
tanti presunti e sedicenti, della nostra scena. Ronconi è a Roma in occasione
del passaggio al Teatro Quirino del suo spettacolo La serva amorosa che debuttò a Gubbio la scorsa stagione. Una
messinscena goldoniana che ha avuto molto successo pure all’estero (Parigi, New
York, Berlino). È certo un caso, ma anche il suo esordio registico, quasi
venticinque anni fa, nel dicembre 1963, avvenne con Goldoni (La putta onorata e La buona moglie).
Quanto è cambiato
col tempo e con le successive esperienze l’approccio alle commedie
dell’avvocato veneziano?
“Non molto, credo. Lo sguardo
sul mondo goldoniano non è sostanzialmente mutato da allora. Tra La putta onorata e La serva amorosa vi è, tra l’altro, in comune il carattere
romanzesco della protagonista, qualcosa che avvicina Goldoni alla letteratura
del Nocevento e contraddice la tradizionale visione
di un Settecento leggero e lezioso”.
Ronconi è fresco reduce dalla
‘prima’ alla Scala del Fetonte di
Jommelli. Qualche settimana fa ha riallestito a Vienna il rossiniano Viaggio a Reims; in autunno ha messo in
scena alla Comédie Française
Il mercante di Venezia di
Shakespeare; intanto ha già iniziato le prove dei Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos.
Come fa a lavorare
così velocemente senza deflettere da una linea di assoluto rigore culturale?
“Ma io non lavoro velocemente,
semplicemente lavoro molto. Provo mediamente il doppio di quanto oggi usa nel
teatro italiano. È vero che mi stanco poco e mi trovo in una situazione di
privilegio perché posso lavorare alle mie condizioni. Aggiungi che io programmo
il lavoro con molto anticipo: al Mercante
pensavo già tre anni fa e, ad esempio, già so quello che farò tra due anni”.
Lei è uno dei
pochi registi nostrani che lavora spesso all’estero. Quali differenze riscontra
col teatro italiano, su cui oggi si levano lamenti e deplorazioni
generalizzate?
“Il potenziale italiano rimane
notevolissimo, ma i risultati sono arcideludenti. La
ragione principale è che si è scervellatamente perseguita una politica
quantitativa che ha distrutto il pubblico del teatro. Lavorando per un pubblico
poco esigente è emersa la sicumera del farla franca comunque. Se faccio un
raffronto con la Germania o la Francia, quello che manca ai nostri attori non è
il talento, ma la dignità, un senso di alta considerazione per il proprio
mestiere. È anche per questo che il teatro negli ultimi quindici anni si è
emarginato dal dibattito culturale che conta”.
Il non sapere per
quale pubblico si fa oggi teatro, è un problema che le sta assai a cuore.
“Il motivo per il quale opero
di frequente nel teatro musicale è che lì esistono dei pubblici riconoscibili:
i melomani, gli appassionati, i distratto-mondani etc. .
Nella prosa questa specificità non c’è più, il generico spettatore abbonato
assolve a una mera funzione amministrativa. Ma a me il pubblico anonimo non
piace, non stimola, non serve. D’accordo io ho dei privilegi, ma è come abitare
in una bella casa da cui si vede un bruttissimo panorama. Preferirei
sinceramente il contrario, cioè vedere attorno a me un panorama teatrale più
attraente”.
Da molte sponde
teatrali si criticano attualmente i sovvenzionamenti statali a pioggia e si
chiede un drastico ridimensionamento. Qual è la sua opinione?
“Non condivido la proposta di
ridurre i finanziamenti a pochi, perché i criteri sarebbero sempre discutibili.
Quello che trovo da sempre sbagliato è il fatto di finanziare le persone: Scaparro, Strehler, Ronconi o Ardenzi.
Quello che occorrerebbe sovvenzionare sono i programmi, lasciando libero chi fa
teatro di starci dentro o fuori. A quel punto è secondario che siano 5 o 10mila
i ‘beneficiari’. Penso, insomma, che debba esserci una selezione non personale,
bensì di indirizzo artistico”.
Il suo unico
incarico pubblico è stato, dieci anni fa, la direzione della Biennale-Teatro.
La stessa che è stata adesso assegnata a Carmelo Bene. Che ne pensa di questa
nomina?
“Mah… può essere una scelta
giustificata, strumentale o insensata a seconda delle aspettative della
presidenza della Biennale. So per esperienza che a Venezia il programma lo fa
il direttore di sezione, ma le indicazioni vengono dal vertice. Se questo è
l’indirizzo, la scelta di Bene, che ha una fisionomia molto precisa, è
opportuna, altrimenti è uno sbaglio”.
La sua decisione
di inscenare i Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos
rientra nella ripresa di interesse che c’è in Francia e in Italia sia verso
questo autore sia verso l’altro cattolico Paul Claudel?
“Sì, credo che sia l’ipotesi
giusta. C’è il fatto aneddotico-personale che ho esordito da attore nel 1952,
quando ero ancora all’Accademia, proprio nelle Carmelitane, nel ruolo di un ‘sanculottino’.
Ma più che questo ricordo, conta per me il fatto che se fai Pirandello o Brecht
in qualche modo sei costretto a riferirti alle loro ultime messe in scena.
Mentre con Bernanos e Claudel
hai una maggiore libertà. Con Partage de Midi o Ignorabimus di Holz ti riferisci solo al testo, lo puoi reinventare
teatralmente senza condizionamenti”.
Gassman e Lavia
hanno dichiarato recentemente che vorrebbero essere diretti da lei. Sono soltanto
dei ‘desiderata’ o esistono progetti concreti?
“Di Lavia non so nulla. Con
Gassman ci siamo, invece, incontrati e abbiamo parlato della possibilità di
fare a scadenza non immediata uno spettacolo assieme. Ho già lavorato nel ’68
con Vittorio in Riccardo III e, contrariamente a certe male voci, collaborammo
con reciproca soddisfazione”.
Ha detto che è già
programmato per i prossimi due anni. Mi anticipa qualcosa?
“Di sicuro curerò la regia del
Guglielmo Tell
che aprirà la prossima stagione scaligera. E poi lavorerò per il Festival
d’Avignone e per il Kammerspiel di Monaco. I titoli,
tuttavia, sono ancora top secret”.
Caro Luca Ronconi, il nemico
ci ascolta?