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ADDII
Luca Ronconi o il sovrano
della regia critica


      
Se ne è andato il massimo regista italiano, uno dei più importanti artisti della scena contemporanea europea e internazionale. Una carriera lunga sessant’anni (i primi otto come attore) eccezionale per qualità di spettacoli realizzati sia nella prosa che nella lirica. L’esplosione del suo talento avvenne nel 1969 con l’“Orlando furioso”, ma sono innumeri gli allestimenti dove rifulgeva il suo genio ermeneutico e la sua capacità di creare immaginifiche macchinerie sceniche. Sempre sul confine tra il sapere della grande tradizione e la spinta a vitali innovazioni linguistiche e semantiche. Un teatro barocco il suo, ma pieno di tensioni conoscitive alla poesia, alla politica, alla scienza, all’economia.
      



      

 

 

di Marco Palladini

 

 

È morto lo scorso 21 febbraio a Milano Luca Ronconi. Ho letto la notizia con sgomento. È stato con Giorgio Strehler e Massimo Castri il massimo rappresentante del teatro di regia in Italia, ma anche uno dei massimi registi contemporanei della scena europea e internazionale. Questo 8 marzo avrebbe compiuto 82 anni e da otto stava in dialisi. Se l’è portato via una improvvida polmonite che probabilmente ha aggredito un fisico già provato. O forse no. Perché Ronconi come Molière è praticamente morto in scena, ancora iperattivo come sempre. Lo scorso 29 gennaio aveva debuttato a Milano un altro suo spettacolone di oltre cinque ore di durata, Lehman Trilogy, basato su un testo di Stefano Massini che racconta la parabola finanziaria dei Lehman Brothers, fino alla bancarotta del 2008, con il fallimento della più grande banca d’affari americana. Data d’inizio della crisi mondiale che tuttora ci attanaglia e che mostra le contraddizioni inestricabili del finanz-capitalismo del terzo millennio. Insomma, fino all’ultimo Ronconi è stato ‘sul pezzo’, sulla cresta d’onda del tempo presente,  sempre capace di individuare gli spunti, i temi, gli autori su cui esercitare la sua maestria di super-immaginifico metteur-en-scéne.

Improvvisamente i miei ricordi regrediscono alla fine degli anni ’60, quando da studente ginnasiale fui portato dalla scuola al Palazzo dello Sport all’Eur a Roma, per vedere il suo Orlando furioso, architettato con la riduzione drammaturgica di Edoardo Sanguineti. Nulla sapevo di lui e, praticamente, del teatro. La mia idea del teatro era allora limitata alla visione di qualche commedia nel bianco e nero della televisione di allora, o di qualche triste e frusta rappresentazione scolastica che immiseriva persino i testi di Shakespeare. L’allestimento maestoso e stralunato di Ronconi, la moltiplicazione in contemporanea dei palcoscenici mobili, il gioco puntiforme e coinvolgente della folla di attori fu per me né più né meno che una folgorazione. Mi aprì le porte di un nuovo mondo, mi fece discoprire la meraviglia del teatro come un rito e una festa che travolgevano gli occhi, il corpo e la mente. Fu quell’input entusiasmante ad accendermi la passione per il teatro che mi portò oltre una decina di anni più tardi a occuparmene professionalmente a vario titolo.





Mariangela Melato in una scena dell'Orlando furioso di Ronconi (1969)


Ronconi nel 1969 aveva trentasei anni e aveva già fatto spettacoli importanti, tra gli altri: I lunatici di Middleton (1966), Riccardo III di Shakespeare (1968) con Vittorio Gassman e le scene di Mario Ceroli, Candelaio di Giordano Bruno (1968). Ma fu indubbiamente l’Orlando furioso da Ludovico Ariosto che debuttò al Festival dei Due Mondi di Spoleto, che gli diede immediatamente lo status di maestro della regia contemporanea, riuscendo lui a sintetizzare il sapere del grande teatro di tradizione e gli impulsi innovativi dell’avanguardia. Ecco tutta la sua lunghissima, eccezionale carriera si è svolta lungo il confine ogni volta rielaborato e ripensato tra la tradizione scenica e l’innovazione di segno linguistico sempre intelligente e calibrata. In questo senso veniva visto dalla sponda avanguardista come un ‘mediatore’, uno che mediava tra la ricerca radicale e le esigenze del teatro più convenzionale. Ma lui non se ne curava, faceva spallucce e lavorava tantissimo. Produceva centinaia e centinaia di spettacoli (tra prosa e lirica fino a sette, otto, nove allestimenti all’anno) sempre dando fondo alle risorse della macchineria scenica. Mitica è la sua capacità di lavorare sulla scomposizione multipla dello spazio scenico, usando i più mirabolanti e visionari marchingegni, affiancato da eccellenti scenografi da Enrico Job a Gae Aulenti, da Luciano Damiani a Margherita Palli.

Ecco Ronconi si è sempre guardato bene dal teorizzare alcunché sul teatro in generale e sul suo teatro in particolare. Artista sommo, credo che si reputasse in primis un grande artigiano, uno che conosceva le regole di base dell’arte scenica e che privilegiava la prassi, il fare, il concreto poiein alle chiacchiere, alle poetiche, alle etichette, alle dispute dottrinarie o ideologiche sul teatro. Avendo sempre bene in testa che il materiale fondamentale con cui lavorare era un testo stimolante da cui partire – e spesso erano testi, di frequente letterari, bizzarri, desueti, esogeni, ‘impossibili’: mi vengono in mente Ignorabimus di Arno Holz (1986), Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini (1987), Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus (1990), L’affare Makropulos di Karel Čapek (1993), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda (1996), Lolita di Nabokov (2001), Quel che sapeva Maisie di Henry James (2002), Infinities di John D. Barrow (2002); e poi i lavori del “Progetto Domani” per le Olimpiadi Invernali di Torino del 2006, tra cui Il silenzio dei comunisti di Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin e Lo specchio dei diavolo di Giorgio Ruffolo; e ancora negli ultimi anni le drammaturgie spiazzanti dell’argentino Rafael Spregelburd.                         

Altro caposaldo del suo teatro è stato il lavoro con gli attori. Centinaia o migliaia di interpreti sono passati sotto la sua direzione, i suoi sovrabbondanti cast sono sempre stati il meglio che offriva la scena italiana. Impossibile menzionare tutti questi attori, ma non si può non ricordare alcuni dei suoi fedelissimi: da Marisa Fabbri a Mariangela Melato, da Massimo De Francovich a Massimo Popolizio, e poi Valentina Fortunato, Sergio Fantoni, Franca Nuti, Massimo Foschi, Anna Bonaiuto, Edmonda Aldini, Annamaria Guarnieri, Galatea Ranzi, Franco Branciaroli, Maria Paiato e innumeri altri.





Luca Ronconi (1933-2015)


Consapevole dell’importanza cruciale del materiale umano e tecnico rappresentato dagli interpreti, Ronconi, diplomatosi all’Accademia di Arte Drammatica, ha sempre tenuto corsi di insegnamento e laboratori di formazione e specializzazione (alla Silvio D’Amico, alla scuola del Piccolo, al centro di Santa Cristina in Umbria), curando assai il rapporto con i giovani allievi e impegnandoli costantemente in nuovi spettacoli. L’ultimo suo lavoro che rammento di avere visto è stato un paio di anni fa In cerca d’autore, studio sui “Sei personaggi” di Luigi Pirandello, fluido attraversamento decostruzionista del più celebre testo pirandelliano, realizzato proprio con gli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica. Questo rapporto con le giovani generazioni non lo ha mai abbandonato, venne anche al Valle Occupato a tenere una sorta di ‘lectio magistralis’, dando esempi pratici del suo metodo di lavoro con gli attori.

Del resto, lui era nato attore e lavorò da buon professionista per otto anni, facendo l’apprezzabile attor giovine, ritrovandosi ad esempio accanto a Gassman nella commedia Tre quarti di luna di Luigi Squarzina. Erano anni di ‘dolce vita’ a Roma e il Ronconi ventenne in cerca di se stesso seguiva le correnti della vita mondana capitolina, talché si ritrovò il 5 novembre del 1958 al Rugantino a Trastevere quella famosa sera in cui Aiché Nanà improvvisò uno strip-tease quasi integrale fotografato da Tazio Secchiaroli che finì sui giornali di mezzo mondo. Episodio scandaloso che, leggermente cambiato, entrò anche nella festa finale del famoso film di Fellini. Episodio veramente curioso e paradossale se pensiamo al Ronconi successivo e maturo, alla sua leggendaria riservatezza e discrezione antimondana.

Il suo passaggio alla regia fu apparentemente casuale: avvenne che con un gruppo di giovani attori amici (Gianmaria Volonté, Ilaria Occhini, Carla Gravina, Corrado Pani) aveva costituito una nuova compagnia. Non avendo i mezzi per pagare un regista decisero di affidare a Luca l’incombenza. Lo spettacolo che debuttò nel dicembre del 1963 al Valle di Roma era La buona moglie tratto da due copioni di Carlo Goldoni, “La putta onorata” e appunto “La buona moglie”.  E subito Ronconi fece vedere di che pasta era fatto. Fu come un’agnizione con se medesimo. Ronconì capì subito che era quella la sua vera missione teatrale. La sua prepotente capacità di analizzare testo e sottotesto di un copione lo portò rapidamente a primeggiare nell’ambito di quella che si chiamava la ‘regia critica’, dove appunto il regista è il critico come artista, è il perspicace notomista che elabora il suo sguardo ermeneutico e lo traduce in una visione scenica che apparenta il regista allo status di reale autore della messinscena. La regia critica ha significato nella seconda metà del Novecento la predominanza del teatro ‘teatrale’ di contro al teatro di drammaturgia o di letteratura teatrale. Il teatro teatrale non cancellava il testo (come faceva tanta avanguardia), ma lo riduceva ad un elemento di partenza da cui far scaturire una ragnatela di segni scenico-sinestetici che produceva un plusvalore, un surplus di significati ulteriori rispetto al senso depositato nel testo scritto. E in questo gioco sempre massimamente ambiguo e sempre, ogni volta da rigiocare, da ricominciare daccapo, Ronconi è stato un maestro assoluto, il più spregiudicato, oltranzista e determinato a sperimentare pur non toccando la lettera e la ‘letteralità’ dei testi che affrontava. Toccando dei vertici di qualità negli anni ’70, prima con L’anitra selvatica di Ibsen (1977) e poi con il famoso laboratorio di Prato del 1978, che generò memorabili spettacoli quali Le Baccanti di Euripide, il Calderon (parte I e II) di Pasolini e La torre di Hugo von Hofmannsthal.

La forza di Ronconi stava nella sua curiosità inesauribile per la letteratura, la politica, la scienza, l’economia, così come sapeva passare dal classico al contemporaneo, da Tasso a Lagarce, da Euripide a Broch, da Eschilo e Shakespeare a Brecht e Botho Strauss senza perdere mai di lucidità critica e insieme di dismisura scenica. Regista barocco, sì, ma mai esornativo o vuotamente artificioso, il senso dello spettacolo e del visionario si raccordava sempre in lui a una precisa tensione conoscitiva e intellettuale.         





Ronconi in una immagine degli anni '70


Il suo crescente successo negli anni successivi alimentò anche non poche avversioni. Dalla parte dei teatranti lo si accusava di spendere cifre esagerate. Un regista non tanto minore mi disse una volta: “Con il costo di una scenografia di Ronconi, io potrei realizzare dieci spettacoli”. Molti critici, poi, non sopportavano le maratone di cinque o sei ore dei suoi allestimenti-monstre (Ignorabimus mi pare che raggiungesse le dodici ore). E poi, come direttore di teatri pubblici (lo Stabile di Torino, quello di Roma, infine il Piccolo di Milano), lo si accusava con la sua bulimia produttiva di non lasciare spazio ad altri. Una volta mi accadde di chiedergli perché lavorasse così tanto, perché non staccasse mai. Mi rispose quasi con candore: “Ma io sto bene soltanto quando sono a teatro a provare. Non ho hobby, non mi piace viaggiare e solo quando lavoro mi sento realizzato”. Sì, non c’era verso di allontanarlo dalle tavole del palcoscenico, in pratica questo genio del teatro mi stava dicendo che era uno inadatto a vivere, che la sua vera vita era la vita ‘seconda’ del teatro. Lo spazio teatrale con la sua magia illusionistica che svanisce quando si chiude il sipario era la sua più autentica, forse unica biosfera.

Comunque Ronconi era sempre in cerca di qualcosa di nuovo e di diverso, quindi era capacissimo di alternare mega-allestimenti con spettacoli più piccoli, quasi minimali o monologhi dove si industriava su testualità eterodosse o poetiche: penso a Féerie: pantomima per un’altra volta da Céline (1989) per la traduzione e l’adattamento di Patrizia Valduga, di cui poi inscenò nel 1992 Donna di dolori con la Nuti; e ancora L’aquila bambina di Antonio Sixty (1992), Dio ne scampi di Enzo Siciliano da Imbriani (1995), Phoenix di Marina Cvetaeva (2001), Nel bosco degli spiriti di Cesare Mazzonis da Amos Tutuola (2008), I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy (2010) con Elena Ghiaurov, Mistero doloroso di Anna Maria Ortese (2012) con la Ranzi.

La dipartita di Ronconi lascia un vuoto incolmabile nella scena italiana e ancor più nel teatro della regia critica che è andando negli ultimi decenni appassendo quasi del tutto. Registi della sua tempra, e potenza ermeneutica ed accanimento di ricerca non ne vedo proprio in giro. Resistono registi provenienti dalle fila dell’avanguardia come Sepe, Martone, Tiezzi, ma ormai il meglio è alle loro spalle. Tra i più giovani citerei il 48enne Antonio Latella, di grande vigore ed energia creativa, ancorché talora fuori calibro e il quarantenne Massimiliano Civica, capace di sottili interpretazioni sceniche. Gente come Pippo Delbono, Emma Dante, RicciForte fanno un teatro sperimentale d’autore che con la regia critica non c’azzecca nulla.

La morte di Ronconi chiude effettualmente l’epoca del grande Novecento teatrale italiano. Figure demiurgiche del suo livello il nuovo secolo non le annuncia e, forse, mancano proprio le condizioni psico-culturali perché possano nascere. Adieu Luca, R.I.P.           

 

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La locandina dell'ultimo spettacolo diretto da Ronconi, Lehman Trilogy,
in scena al Piccolo di Milano (ph. Luigi Laselva)


In explicit mi piace qui ripubblicare l’intervista che gli feci ventisette anni fa e che apparve sulle pagine di Paese Sera il 3 febbraio 1988:

 

Il viso incorniciato da capelli e barba candidi, con qualche filo nero, gli si apre spesso in cordiali sorrisi. Parla a voce bassa, lentamente, mai a caso. È un riflesso della sua timidezza e, anche, del modo riservato di esercitare il suo magistero artistico. Perché Luca Ronconi è un maestro, uno dei pochi e autentici, tra tanti presunti e sedicenti, della nostra scena. Ronconi è a Roma in occasione del passaggio al Teatro Quirino del suo spettacolo La serva amorosa che debuttò a Gubbio la scorsa stagione. Una messinscena goldoniana che ha avuto molto successo pure all’estero (Parigi, New York, Berlino). È certo un caso, ma anche il suo esordio registico, quasi venticinque anni fa, nel dicembre 1963, avvenne con Goldoni (La putta onorata e La buona moglie).

 

Quanto è cambiato col tempo e con le successive esperienze l’approccio alle commedie dell’avvocato veneziano?

 

“Non molto, credo. Lo sguardo sul mondo goldoniano non è sostanzialmente mutato da allora. Tra La putta onorata e La serva amorosa vi è, tra l’altro, in comune il carattere romanzesco della protagonista, qualcosa che avvicina Goldoni alla letteratura del Nocevento e contraddice la tradizionale visione di un Settecento leggero e lezioso”.

 

Ronconi è fresco reduce dalla ‘prima’ alla Scala del Fetonte di Jommelli. Qualche settimana fa ha riallestito a Vienna il rossiniano Viaggio a Reims; in autunno ha messo in scena alla Comédie Française Il mercante di Venezia di Shakespeare; intanto ha già iniziato le prove dei Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos.

 

Come fa a lavorare così velocemente senza deflettere da una linea di assoluto rigore culturale?

 

“Ma io non lavoro velocemente, semplicemente lavoro molto. Provo mediamente il doppio di quanto oggi usa nel teatro italiano. È vero che mi stanco poco e mi trovo in una situazione di privilegio perché posso lavorare alle mie condizioni. Aggiungi che io programmo il lavoro con molto anticipo: al Mercante pensavo già tre anni fa e, ad esempio, già so quello che farò tra due anni”.

 

Lei è uno dei pochi registi nostrani che lavora spesso all’estero. Quali differenze riscontra col teatro italiano, su cui oggi si levano lamenti e deplorazioni generalizzate?

 

“Il potenziale italiano rimane notevolissimo, ma i risultati sono arcideludenti. La ragione principale è che si è scervellatamente perseguita una politica quantitativa che ha distrutto il pubblico del teatro. Lavorando per un pubblico poco esigente è emersa la sicumera del farla franca comunque. Se faccio un raffronto con la Germania o la Francia, quello che manca ai nostri attori non è il talento, ma la dignità, un senso di alta considerazione per il proprio mestiere. È anche per questo che il teatro negli ultimi quindici anni si è emarginato dal dibattito culturale che conta”.

 

Il non sapere per quale pubblico si fa oggi teatro, è un problema che le sta assai a cuore.

 

“Il motivo per il quale opero di frequente nel teatro musicale è che lì esistono dei pubblici riconoscibili: i melomani, gli appassionati, i distratto-mondani etc. . Nella prosa questa specificità non c’è più, il generico spettatore abbonato assolve a una mera funzione amministrativa. Ma a me il pubblico anonimo non piace, non stimola, non serve. D’accordo io ho dei privilegi, ma è come abitare in una bella casa da cui si vede un bruttissimo panorama. Preferirei sinceramente il contrario, cioè vedere attorno a me un panorama teatrale più attraente”.

 

Da molte sponde teatrali si criticano attualmente i sovvenzionamenti statali a pioggia e si chiede un drastico ridimensionamento. Qual è la sua opinione?

 

“Non condivido la proposta di ridurre i finanziamenti a pochi, perché i criteri sarebbero sempre discutibili. Quello che trovo da sempre sbagliato è il fatto di finanziare le persone: Scaparro, Strehler, Ronconi o Ardenzi. Quello che occorrerebbe sovvenzionare sono i programmi, lasciando libero chi fa teatro di starci dentro o fuori. A quel punto è secondario che siano 5 o 10mila i ‘beneficiari’. Penso, insomma, che debba esserci una selezione non personale, bensì di indirizzo artistico”.

 

Il suo unico incarico pubblico è stato, dieci anni fa, la direzione della Biennale-Teatro. La stessa che è stata adesso assegnata a Carmelo Bene. Che ne pensa di questa nomina?

 

“Mah… può essere una scelta giustificata, strumentale o insensata a seconda delle aspettative della presidenza della Biennale. So per esperienza che a Venezia il programma lo fa il direttore di sezione, ma le indicazioni vengono dal vertice. Se questo è l’indirizzo, la scelta di Bene, che ha una fisionomia molto precisa, è opportuna, altrimenti è uno sbaglio”.

 

La sua decisione di inscenare i Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos rientra nella ripresa di interesse che c’è in Francia e in Italia sia verso questo autore sia verso l’altro cattolico Paul Claudel?

 

“Sì, credo che sia l’ipotesi giusta. C’è il fatto aneddotico-personale che ho esordito da attore nel 1952, quando ero ancora all’Accademia, proprio nelle Carmelitane, nel ruolo di un ‘sanculottino’. Ma più che questo ricordo, conta per me il fatto che se fai Pirandello o Brecht in qualche modo sei costretto a riferirti alle loro ultime messe in scena. Mentre con Bernanos e Claudel hai una maggiore libertà. Con Partage de Midi o Ignorabimus di Holz ti riferisci solo al testo, lo puoi reinventare teatralmente senza condizionamenti”.

 

Gassman e Lavia hanno dichiarato recentemente che vorrebbero essere diretti da lei. Sono soltanto dei ‘desiderata’ o esistono progetti concreti?

 

“Di Lavia non so nulla. Con Gassman ci siamo, invece, incontrati e abbiamo parlato della possibilità di fare a scadenza non immediata uno spettacolo assieme. Ho già lavorato nel ’68 con Vittorio in Riccardo III e, contrariamente a certe male voci, collaborammo con reciproca soddisfazione”.

 

Ha detto che è già programmato per i prossimi due anni. Mi anticipa qualcosa?

 

“Di sicuro curerò la regia del Guglielmo Tell che aprirà la prossima stagione scaligera. E poi lavorerò per il Festival d’Avignone e per il Kammerspiel di Monaco. I titoli, tuttavia, sono ancora top secret”.

 

Caro Luca Ronconi, il nemico ci ascolta?

 

 




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