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I turbamenti del giovane Vasilicò (Giuliano)


      
L’affettuoso, ma anche criticamente acuto, ricordo del settantacinquenne regista di Reggio Emilia, morto a Roma lo scorso 15 febbraio. Uno degli artisti che ha segnato la scena dell’avanguardia italiana degli anni ’70, grazie a tre folgoranti spettacoli: “Amleto”, “Le centoventi giornate di Sodoma” e “Proust”. Poi si imbarcò nell’ambizioso tentativo di inscenare “L’uomo senza qualità” di Musil che, dopo sette anni di prove, apparve uno spettacolo incompiuto, un generoso fallimento. Da allora il suo percorso fu connotato da una conversione al cattolicesimo, anch’esso vissuto come una ossessione. È stato una figura tormentata, da romanzo, che ha espresso fino alla fine la sua ‘diversità’, irrecuperabile alle logiche del teatro ufficiale.
      



      

 

 

di Pippo Di Marca

 

 

Giuliano Vasilicò se n’è andato domenica 15 febbraio 2015. A 75 anni. Era nato a Reggio Emilia nel 1940. Passerà sicuramente alla storia del teatro italiano come l’artefice  di  alcuni tra i più folgoranti spettacoli d’avanguardia degli anni ’70. Mi riferisco ad Amleto (1971), Le centoventi giornate di Sodoma (1972) e Proust (1976). Furono spettacoli che lasciarono il segno: in chi li ha visti, noi, e in chi li ha fatti, lui. Un segno che, nel bene e nel male, non lo avrebbe più abbandonato; un segno che probabilmente, lui diceva di no, portava in sé da molto prima, da prima che diventasse regista e attore di teatro. E di che teatro! Per quegli esaltanti, euforici anni che durò!

Un segno che è qualcosa di non definibile, di misterioso, di profondo, quel segno che fa di noi a un certo punto degli ‘artisti’: degli esseri diversi, superiori o infimi non fa differenza,  che si elevano, o cercano di elevarsi, che si consegnano a un destino di sfida, spesso senza ritorno,  verso il mondo, le sue pretese, la sua mediocrità.

Il destino di sfida, una volta assunto come viatico, diventa cruciale, appunto senza ritorno; e per questa strada ci può arridere, se e quando ci arride, la ‘gloria’ o ci può essere fatale il ‘destino’, se ci ossessiona e ci imprigiona. Ad altri, anche più grandi di lui, è capitato, direi quasi scientemente, coerentemente, qualcosa di simile: penso a Grotowski. A Giuliano, non so quanto consapevolmente, forse neppure lui avrebbe saputo dirlo (la tenacia, l’ossessione, l’ambizione d’assoluto, anche, perché no?, di successo, che in fondo poi è desiderio d’amore – una volta mi confessò che aveva deciso di fare teatro per le donne, per essere amato dalle donne – non sentono ragione, non si possono razionalizzare, rompono qualsiasi argine), questo destino di sfida lo ha lentamente preso in un groviglio, in una prigione che hanno finito per distruggerlo, in un certo modo annientarlo.

Perché a un certo punto della sua parabola, Giuliano, o il dèmone, o l’angelo, che erano in lui, o entrambi, o tutti e tre, decisero, di superare se stessi. È il passaggio in cui l’etica, o l’estetica, o la poetica, o qualunque cosa ci spinga, diventano religione, presumono una vocazione, un sacerdozio, un legame, una confidenza con il divino: e ci spingono a sfide assolute, a imprese più grandi noi. Neppure i Titani riuscirono nell’impresa ‘titanica’! Figurarsi i comuni mortali.

Così Giuliano – che indubbiamente era già di suo una persona abbastanza tormentata, ancorché lontana dall’idea di fare teatro, di trasferire nel teatro, nella dimensione teatrale i suoi tormenti di giovane inquieto che voleva capire, esplorare il mondo e se stesso, o il mondo attraverso se stesso – diventò l’artista tormentatissimo, e poi svigorito, che tutti abbiamo conosciuto e a cui siamo stati affettuosamente, amabilmente vicini, come si fa con un bambino smarrito o con un vecchio indomito che ai giardinetti ti racconta, anche non ce ne sarebbe bisogno, si vedono tutte in ogni ruga del suo viso, dei suoi occhi,  in ogni postura del suo corpo  piegato, le sue  glorie passate, la sua incredibile storia, che lo abbracceresti per la tenerezza che sprigiona. Fino a pochi giorni fa .





Giuliano Vasilicò: Amleto (1971, da W. Shakespeare, ph. Agnese De Donato)


Ho conosciuto tutti quelli che hanno fatto la storia del teatro italiano di ricerca tra gli anni ’60 e gli anni ’90 e oltre e posso dire con assoluta certezza che nessuno tra i tantissimi eccentrici, esibizionisti, provocatori, attaccabrighe, debosciati, strafatti, ubriaconi, isterici, strambi, geniali, poetici poteva  essere definito diverso più di lui.  A cominciare dal cognome, quel Vasilicò a cui ormai c’eravamo abituati come suono normale, ma che in realtà non è chiaro come nasca e da dove provenga e che certamente non ha niente a che fare col ‘basilico’, per dire la cosa più banale – e di cui, per esempio, a Roma sull’elenco telefonico, non c’è traccia alcuna, tranne, solitaria, quella, appunto, di Giuliano Vasilicò. Ma Giuliano era diverso in tutto: nella parlata, nel tartagliare, nell’incedere, nell’aspetto e negli atteggiamenti (a me agli inizi mi era sembrato uno ‘straniero’, uno del nord; non solo per il fatto che aveva una storia e una compagna svedese, l’attrice Ingrid Enbron: anzi il contrario, questo non era un indizio, semmai era una conseguenza, dovuta a quello che era lui), nella meticolosità eccessiva e per contro nell’approccio alle cose, alle persone completamente sfasato, non funzionale, non utilitaristico, a tratti, e al massimo,  ascrivibile alla disarmante  astuzia improduttiva dei candidi, nell’esasperazione dei dubbi, delle incertezze, delle decisioni, delle scelte, nei blocchi improvvisi, nei tic, negli innamoramenti ecc...

... I suoi inizi teatrali  furono quanto di più casuale si possa immaginare per uno che poi ha avuto i suoi exploit e la sua tormentatissima carriera. Giuliano cercava qualcosa, cercava se stesso, non più giovanissimo, reduce da una permanenza all’estero, nel nord Europa, cercava una collocazione in piena temperie ’68 e soprattutto non pensava al teatro, si credeva ‘negato’ per il teatro, visto tra l’altro che balbettava... Lo vide Giancarlo Nanni, credo all’Università, e gli disse, tu sei attore. No, disse Giuliano, quale attore? Vieni con me, disse Giancarlo, e ti faccio fare l’attore. Le vie del Signore sono infinite, sarebbe il caso di dire: visto tra l’altro come sarebbe andata a finire alcuni decenni dopo la parabola creativa di Giuliano – in una sorta di ripiego spirituale nell’alveo del cattolicesimo dopo una forse dolorosa ma sicuramente acquietante crisi religiosa che lui stessa chiamava ‘conversione’.

Ma occorre tornare al ‘punto di rottura’, come suonava il titolo di uno degli spettacoli dei Magazzini Criminali di quegli anni. Siamo nella seconda metà degli anni ’70. Giuliano, dopo il clamoroso successo, anche internazionale, de Le centoventi giornate, lavora con ancor più attenzione e intensità di prima. I tempi si allungano. Non può fare uno spettacolo all’anno, ne fa uno ogni due anni. Nasce così, nel 1974 L’uomo di Babilonia, che in parte ricalca con meno ossessività e più plasticità, per tableaux vivants, gli stilemi delle centoventi giornate. E soprattutto nasce, nel 1976, un altro grande spettacolo: Proust. Giuliano cambia registro, non rinnega la composizione per immagini e corpi, ma diventa raffinato, efficace, potente ed elegante insieme. Mette in scena la Recherche di Proust. Lavora sul limite di un baratro, al cospetto di un’opera gigantesca, da far tremare i polsi. Ma ha l’intuizione, che tra l’altro è nelle sue corde, se si vuole nel suo metodo teatrale, di prendere l’essenza di un’opera sterminata e irrappresentabile e ridurla a una serie di sequenze fulminanti, belle (come la scrittura letteraria da cui scaturiscono), riuscendo nel ‘miracolo’ di sintetizzare e condensare in immagini e movimenti scenici di un’ora o poco più il corpus dell’opera, o le sue parti più significative.

Anche questa operazione, ancorché, e probabilmente anche perché, frutto di un  percorso creativo più lungo e ‘travagliato’ del solito, riesce in pieno. Anzi, sul piano della ‘bellezza’ e della ‘raffinatezza’, rappresenta il punto più alto raggiunto. Giuliano è un artista maturo, consapevole dei propri mezzi, delle proprie potenzialità. Troppo, col senno del poi. Qui Giuliano si trasforma nell’acrobata che tenta un triplo salto mortale. Se è riuscito a domare lo sterminato e abbagliante Proust, perché non dovrebbe riuscire a fare altrettanto con lo sterminato e più contorto, complesso, opprimente Musil?





Una immagine giovanile di Giuliano Vasilicò


Spinto probabilmente da quello che frattanto è diventato il suo principale collaboratore, Goffredo Bonanni, entrato in compagnia per Proust contribuendo in buona misura al suo esito, Giuliano concepisce l’impresa di mettere in scena L’Uomo senza qualità di Musil. Per chi non lo sapesse un libro di 1500 pagine senza a capo, diviso in due parti, del peso, l’edizione Einaudi rilegata, di circa due chilogrammi!

Una sfida immane che, naturalmente, finirà per perdere e nella quale finirà per perdersi. La genesi di quello spettacolo durò ben sette anni, dal 1977 al 1984, tra ricerca degli attori giusti, cast modificati, laboratori, varie trasposizioni drammaturgiche del testo letterario, prove su prove, ripensamenti, fino alla sera della prima, al teatro Valle: un ‘fallimento’ figlio della difficoltà dell’impresa, pari all’enormità del tempo in essa impiegato. Io penso che questo ‘fallimento’, ancorché non consapevolmente, fu voluto, fu cercato, come un gesto di autodistruzione per aver osato troppo, per avere portato l’asticella della sfida a livelli impossibili, dove nessun salto sarebbe potuto arrivare, dove l’esito finale non poteva essere che la caduta, dopo l’attraversamento di una sorta di ‘inferno’ durato sette anni. Questo è quello che io, e non solo io, penso. Nella realtà, dal punto di visto diciamo tecnico, o stilistico, o critico, forse le cose forse stanno più semplicemente. Giuliano sino a quel momento aveva lavorato in levare, soprattutto rispetto al grande nemico di un certo teatro, la parola, la letteratura. Per anni aveva fatto un teatro di immagine, o gestuale. Ora con Musil, con L’Uomo senza qualità, decise di affrontare direttamente un testo, di nuotare  praticamente in un oceano di parole, decise di realizzare un’opera teatrale che naturalmente inglobasse lo spirito dei suoi lavori precedenti, ma dentro la forma, la struttura portante di una drammaturgia letteraria e della conseguente interpretazione attoriale, per forza di cose narrativamente naturalistica. L’esperimento non riuscì, almeno in parte, e in generale come meccanismo d’insieme. Ricordo la prima al Valle con la sensazione tremenda che stesse andando in scena una rappresentazione tragica del caos, o una commedia degli errori paradossalmente metafisica, oltre il reale. Dopo la prima il meccanismo fu oliato meglio, ma di fatto lo spettacolo non fu ritenuto all’altezza delle grandissime attese. Si trattò in definitiva di uno spettacolo incompiuto, ‘esemplare’, paradossalmente, nella sua incompiutezza, con il quale gestualmente e simbolicamente Vasilicò ripercorreva, si immedesimava, nell’autore Musil e nell’opera e nel percorso di gestazione di essa: che, come è noto, fu elaborata nel corso di alcuni decenni, non fu mai finita ed ha per tema proprio l’incompiutezza, l’incapacità, anzi l’impossibilità di concludere del protagonista, l’uomo senza qualità, e della società del suo tempo, o forse di ogni tempo. Rispetto a ciò, nel romanzo, si sviluppano temi e personaggi che, guarda caso, incarnano la fuga dal mondo in una dimensione mistica oppure la rivolta individuale in una dimensione venata di follia ed erotismo. Giuliano, accettando la sfida, in fondo, certo non al principio, ma strada facendo, si calò in questa parte  e probabilmente la visse, ovviamente a suo modo, per il resto della sua vita. È da notare, ad esempio, che lo spettacolo riguardava solo la ‘prima parte’ dell'opera letteraria, anch’essa divisa in due parti, e che successivamente, almeno, se non sbaglio fino agli anni ’90, Giuliano si prefisse di concludere l’opera, di mettere in scena la ‘seconda parte’. Il che, ovviamente, non avvenne, non era possibile. Così come è da considerare il fatto che, nel frattempo, non riuscendo, non potendosi allontanare dal suo autore feticcio, Giuliano mise comunque in scena un secondo spettacolo ricavato da Musil, Il compimento dell’amore.

Ma torniamo al passaggio cruciale. Al 1984 e agli anni successivi. La storia di Giuliano Vasilicò che non voleva fare il teatro, secondo me subì un arresto traumatico in quegli anni, se non proprio nella fatidica sera della prima al Valle. E lui penso ne fosse consapevole. E lui in certa misura non si è più ripreso. Quello che sicuramente resta è che nella estrema coerenza al suo sogno, o disegno, da una parte  ha compiuto un atto di superbia e se si vuole  di tradimento verso se stesso, dall’altra ha finito col fare di essa, della sua fallimentare ossessione una sorta di ‘mito’.





Giuliano Vasilicò: Le 120 Giornate di Sodoma (1972, da de Sade, ph. Agnese De Donato)


Dopo, sovente ha continuato a guardarsi e specchiarsi negli altri memorabili segni e sogni di passate grandezze (Le centoventi giornate di Sodoma, Proust), come una coazione a ripetere che è andata avanti negli anni e che probabilmente è stata anche un modo per emendarsi da certe tematiche forti e ob-scene e acquietarsi nel loro contrario. Il Vasilicò blasfemo e laico si rifugiò nel Vasilicò religioso e devoto: poteva solo evocare e guardare come a brutte copie sbiadite e prive di vita sia  il peccatore che era stato, sia gli ‘straordinari’ peccati che aveva commesso.

Franco Cordelli ha scritto in un puntuale e sentito ricordo di Giuliano apparso sul Corriere della Sera  che lui “come tutta la sua generazione di registi dell’avanguardia, chi per un motivo chi per un altro, era esploso con una fiammata e si era ritirato nel suo guscio”. Realmente, o cronachisticamente parlando, è così. Ma c’è modo e modo. Qui il modo è all'interno di una ‘diversità’ che non ha confronti con le crisi più o meno esistenziali o di flessione o totale inaridimento creativo di altri: l’artista che si inaridisce, normalmente  significa che non aveva più nulla da dire, e potrebbe, ad esempio, sfiorare il patetico; diversamente ogni artista che si distrugge è un caso unico, e come tale, nella sua originale, individuale negazione creativa, diventa un caso a parte, ha qualcosa di ‘tragico’, in certo senso potrebbe essere uno che ha ‘visto’ il nulla, se si vuole la catastrofe, sia fuori di sé che dentro di sé.

Ma non voglio finirlo così, su questi toni drammatici, ancorché la sua vita/opera da romanzo di formazione li giustifichi e in parte li esiga, questo ricordo di Giuliano. Che merita anche la leggerezza di un po’ di ‘cartoline’, come pare si usi: recentemente, in una serata a Torino per  commemorare, nell’anniversario della scomparsa, Edoardo Fadini, il solerte conduttore sabaudo invitava ciascuno di noi partecipanti ad attenerci a ‘cartoline’...

... Una cartolina risale al 1977, durante uno dei ‘meta-martedi’ (teatro d’appartamento) che si svolgevano settimanalmente a casa mia. Lo spettacolo era Grand Diner ed era incentrato su un pranzo di gala: in una stanza dei commensali borghesi, incuranti del fatto che ‘la rivoluzione non è un pranzo di gala’, consumavano un cena luculliana, mentre in una stanza attigua, il corpo intubato e mummificato in strettissime fasciature, Lucia Vasilicò impersonava Ulrike Meinhof, e in una stanza più lontana  Benedetto Simonelli-Baader  inneggiava alla rivoluzione... E Giuliano in cucina odorava e assaggiava le succulente portate preparate per la cena ‘prima’ che venissero servite. Perché Giuliano, tra le altre cose, era un’ottima forchetta.

Un’altra cartolina non può non riguardare il suo ‘numero’ preferito fuori scena, nei convegni o nelle occasioni pubbliche. Per superare, o rendere meno difficoltosa la sua balbuzie, si faceva aiutare da uno dei suoi attori che mettendosi a specchio di fronte a lui gli agevolava il parlare con  movimenti della bocca o con altre tecniche da lui stesso messe a punto proprio a questo fine. Una volta, in assenza del suo attore, provò a farsi aiutare da me: e fu un disastro, per la mia imperizia alla bisogna! Questi duetti, con partner oltretutto sempre diversi che si sono avvicendati negli anni, finivano spesso col diventare degli straordinari spettacoli comici, quando non esilaranti, ma al tempo stesso inquietanti, segno evidente di una difficoltà, di una disfunzione, di quel grumo bloccato che, al di là degli intrecci della sua vicenda, era già  nel suo dna particolarissimo. Difatti questo ‘blocco’, all’improvviso, spariva quando lui recitava – forse  dimentico della vita, o dello stesso teatro.

Uno di questi duetti, uno dei più riusciti, risale a poco meno di un anno fa. A Pistoia Enzo Bargiacchi ha organizzato un incontro convegno sugli anni ’70 con tutti noi, non mancava quasi nessuno. E Giuliano, dimagrito, un po’ malandato, camminava appoggiandosi ad un bastone, si è raccontato in maniera così autentica, chiara e precisa, disinibita direi, come poche altre volte glielo avevo visto fare.         

Un’altra cartolina risale credo ai primi anni ’90. Eravamo a Parma, invitati dal Teatro Due, per una rassegna di spettacoli, incontri ecc.. Era noto a tutti il fatto che stentasse ‘cronicamente’ a riprendersi dalla batosta di Musil, ma nessuno pensava a... Era una bella domenica mattina primaverile. Uscendo dall’albergo gli faccio, Giuliano guarda che bel sole, facciamo una bella passeggiata in centro... E lui, quasi reticente, ma affatto intimidito, scusa Pippo, ma io proprio non posso,  devo andare a messa... E mi raccontò della sua ‘conversione’. Niente di strano, secondo lui. Semplicemente, ora credeva in Dio e soprattutto nella Chiesa. Dopo di allora, ogni volta che ci si incontrava  nel  discorso non mancava un accenno o anche un approfondimento sulla sua religiosità: indubbiamente, con tutto il rispetto per una scelta sicuramente non facile, un’ossessione; l’ossessione, se si vuole soft, liberatoria, equilibratrice, degli ultimi venti, o più, anni della sua vita. In cui comunque aveva raggiunto una sua ‘serenità’.





Un’altra ossessione, in verità comune a quanti di noi hanno continuato a tenere in vita la compagnia e chiedere i contributi pubblici, erano le sue telefonate per chiarimenti o suggerimenti su modalità sindacali o pratiche amministrative sulle quali regolarmente non sapevo rispondere in maniera soddisfacente, anzi lo facevo in modo del tutto insoddisfacente: tant’è che spesso mi chiedevo se telefonasse solo per sentirmi, per farci una chiaccherata.

L’ultima cartolina risale a poco più di un mese fa. A dicembre del 2014. I ragazzi del Teatro in Scatola hanno programmato l’inizio della stagione con un mio spettacolo e a seguire con il suo Regista in Scena. Così ci siamo visti e incontrati diverse volte. Non ho fatto in tempo a vedere questo suo racconto di se stesso, tra l’altro affidato a un attore, nelle ultime repliche (lo avevo visto in  altre occasioni; e anzi la prima volta che si può dire lo fece: qualche anno fa, per parlarmene e farmelo vedere, me lo recitò-raccontò scenicamente, noi due soli, un pomeriggio, all’Atelier Meta-Teatro). Lui invece  in quei giorni ha visto il mio Passeggero Bolaño, un testo sconcertante, che avrebbe dovuto o potuto sconcertarlo, pensavo. Invece, dimostrando grande lucidità e onestà intellettuale, oltre all’antico, aperto e attento interesse per il mio lavoro, venne a congratularsi e colse perfettamente tutti i punti e i sensi anche più ermetici che il testo e lo spettacolo contenevano.

Qualche volta, negli anni qualcuno ci ha accostati, forse perché, a quei tempi, al sadismo-maledettismo del suo Centoventi giornate venne apparentato quello del  mio Lautreamont-Maldoror di qualche anno dopo. Ad esempio, alcune stagioni fa, nella programmazione dell’India i nostri spettacoli furono collocati in stretta connessione e sequenza. Ovviamente non è così. I nostri percorsi sono stati molto diversi, forse diametralmente opposti. Sicuramente siamo stati ‘segnati’ da angeli o dèmoni differenti. Volendo dar conto di uno dei suoi ultimi spettacoli, del 2007, centrato sulla figura di una santa, Caterina da Siena, il riflesso condizionato, ogni volta che ci penso, è il risuonare ossessivo nelle orecchie della voce di mio padre, che l’aveva scelta come la santa puttana preferita delle sue bestemmie.

Ma questa differenza, o diversità, non ha mai influito o interferito sui nostri rapporti, anzi forse ne è stata il cemento. Qualche anno fa è morto un mio carissimo amico di gioventù. È stata la prima volta, a parte i familiari stretti, che ho sentito veramente e profondamente la ‘mancanza’ di una persona. Con Giuliano è la stessa cosa. È come sentirsi più soli.

 

 

 

Febbraio  2015                                 




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