di Jacqueline Spaccini *
Non
era il favorito. I bookmaker lo davano, sì, tra i primi dieci, ma non nelle
primissime posizioni. Altri erano i cavalli su cui puntare: il giapponese
Haruki Murakami e il keniano Ngugi wa Thiong’o. E invece, a dispetto dei
pronostici, ancora una volta l’Accademia svedese ha sorpreso tutti e
nell’ottobre del 2014, a distanza di pochi anni (sei, per la precisione – dopo
J.-M. Le Clézio) – ha nuovamente attribuito a un romanziere francese, appunto
Patrick Modiano, il premio Nobel per la letteratura. Quali fossero per davvero
i candidati, lo sapremo tra circa cinquant’anni, ma allora sarà solo una
curiosità in mezzo ad altre.

«Dacché
sono giovane, anzi fin dall’infanzia, non ho fatto altro che camminare, e
sempre per le stesse strade, tant’è che il tempo è diventato trasparente […];
il tempo si è fermato». Non è una dichiarazione strappata al romanziere in una
qualche intervista; è un passo tratto da uno dei suoi romanzi più illuminanti, L’erba delle notti (L’Herbe des nuits, 2012).
Non è dunque una confessione autentica, ma è un’autentica rivelazione. L’autore,
infatti, è uno di quelli che non parla di sé impudicamente, preferendo mettere
i suoi panni addosso ai personaggi, eterni solitari in continuo movimento.
Perché più si leggono i libri di Modiano, più si cammina – in senso topografico
e diegetico, benché non sempre in un tempo cronologico reale –. Si avanza e si
retrocede, avanti e indietro con la mente e con i piedi, con un distacco
sospetto e un’affettuosa titubanza verso il presente, attraverso tutti i tempi
del passato, nella realtà e nella finzione, grazie a improvvisi varchi
occasionali, le «brecce» della memoria, puntualmente rendicontate da un
taccuino nero. Ma procediamo per ordine e cominciamo dall’inizio.
Chi
è Patrick Modiano? Dovessimo compilare una scheda segnaletica, diremmo: nato nel
1945 a Boulogne-Billancourt, a un tiro di schioppo dal centro di Parigi, è figlio
di un ebreo francese proveniente da Salonicco, ma di origine italiana (e
lontano parente di Amedeo Modigliani), Albert Modiano, uomo dai traffici non
troppo chiari e con una vita clandestina, spesso sotto falsa identità, e di una
belga di Anversa, Louisa Colpijn (in arte Colpeyn), attrice, trasferitasi
giovanissima nella capitale francese. Sono genitori, i suoi, anagrafici, molto
poco presenti e per nulla affettuosi coi figli, almeno secondo i canoni
mediterranei. La loro è probabilmente un’unione passeggera, di quelle che
nascono durante la guerra, quando due esseri umani si fanno compagnia per
affrontare la durezza precaria della quotidianità bellica. Questo legame si
sarebbe probabilmente sciolto ancor prima degli anni Sessanta – e senza rumori
eccessivi –, se non fossero nati due bimbi, Patrick nel 1945 e Rudy nel 1947.
Due figli destinati a crescere nei collegi, almeno Patrick, poiché il
fratellino minore scompare all’improvviso nel 1957, all’età di dieci anni, per
una leucemia. La separazione tra Albert e Louisa conduce ben presto, e
inevitabilmente, Patrick in collegio (come interno), per molti anni, durante i
quali vedrà i suoi genitori abbastanza raramente e quasi mai con una gioia
reciproca. Anzi, mai. I genitori si rifaranno una vita altrove, con altre
persone. Albert, il padre, un gran bell’uomo, alto, dal fisico di tanguero argentino, si risposerà con una
giovanissima italiana, molto carina (l’autore la paragona all’attrice Mylène
Demongeot). Louisa, la madre, non si risposerà, preferendo accompagnarsi con
uno scrittore francese, Jean Cau, all’epoca abbastanza noto come romanziere e sceneggiatore
cinematografico, ma ancor prima per essere stato il segretario di Jean-Paul
Sartre.
Paradossalmente,
è proprio quella non cercata, bensì subìta, distanza dagli affetti – condita da
una malcelata indifferenza e un’insofferente svogliatezza da parte dei genitori
– a sollecitare nell’espressione scritta (invero, in modo crudo e asettico) e sulle
paginette di un quaderno un adolescente Patrick: poemetti, riflessioni,
cronache dal collegio. Sa già scrivere, Patrick, ma ha una certa ritrosia se
non proprio una difficoltà nel parlare. Timidezza? Lo ha detto – anzi, lo ha
letto – proprio lui, durante il discorso tenutosi per il ricevimento del Nobel:
«uno scrittore ha spesso un rapporto difficile con la parola (…); un romanziere
è più bravo allo scritto che all’orale. (…) A forza di cancellare e riscrivere,
il suo stile può sembrare limpido. Ma quando prende la parola, non ha più
alcuna possibilità di correggere le sue esitazioni». Modiano è noto, in
Francia, per le sue – poco televisive – esitazioni verbali sul piccolo schermo:
è impacciato, non trova le parole, non riesce a costruire la sintassi dei suoi
pensieri. Talvolta gli altri ospiti della trasmissione di turno provano a
soccorrerlo, fornendogli la parola o l’espressione, quel concetto che l’autore
sembra invano cercare dentro di sé o nell’aere mediatico. Perché in tv le pause
(soprattutto quelle non volute), si sa, uccidono l’audience, e nei programmi televisivi francesi degli anni ’70 -’90 (Bouillon de culture e prima ancora Apostrophes, tutti e due condotti da
Bernard Pivot), il balbettio concettuale di Patrick Modiano risulterà a tratti
esasperante. E a dirla tutta, è assai raro vederlo in diretta. Di lui, si
preferisce mandare in onda interviste a tu per tu, magari con l’aiuto di
qualche suo amico, momenti televisivamente più facili da interrompere, frammenti
da tagliare e ricucire in fase di montaggio. Eppure per comprendere che la sua
è una balbuzie secondaria e non una disfunzione organica, basterebbe riascoltare
le dichiarazioni rilasciate dal giovane scrittore e metterle a confronto con il
discorso dell’accettazione del Nobel: il giovane Modiano degli anni ’70 è certamente
più laconico, ha un fare meno partecipato, come di chi è altrove, ma in
entrambi i casi lo scrittore ripete sempre le stesse (poche) parole: la Parigi
dell’Occupazione è «un paesaggio naturale», è «la notte originaria», la memoria
che precede la sua nascita.
Tutt’altra
cosa è per lo scritto: lo stile non è facondo, né logorroico, ma i suoi libri escono
uno dopo l’altro; nel giro di 46 anni ha pubblicato 39 romanzi (l’ultimo, Pour que tu ne te perdes pas dans le
quartier, è uscito nel 2014, nei giorni della consegna del Nobel); e poi sue
sono tante novelle. È stato lo sceneggiatore di quattro film (tra cui, nel
1974, Lacombe Lucien di Louis Malle),
ma anche il paroliere di dozzine di canzoni (tra cui alcune per Françoise
Hardy). Nel 1968, a 23 anni, è già noto: pubblica il suo primo romanzo, La place de l’Étoile per le edizioni
Gallimard. In realtà il libro è pronto dall’anno precedente, con tanto di
prefazione di Jean Cau (e l’amorevole parrainage
di Raymond Queneau, il padre dell’Oulipo), ma l’editore che dopo la guerra dei
6 giorni non vuole avere imbarazzi di sorta a causa dei contenuti del libro,
decide di rinviarne la pubblicazione.
Fin
da quel primo romanzo, è questione di Parigi e del periodo dell’Occupazione
tedesca. Ed è questione di doppio senso, a proposito di quell’étoile (il nome della piazza e lo scudo
di David). È questione di «ebreitudine» (perlomeno per la critica dell’epoca).
Eppure Modiano è nato alla fine della guerra, dopo l’Occupazione; non ha visto
né sentito, soprattutto non può aver vissuto nulla del periodo storico per la
cui capacità di testimonianza ha ricevuto il Nobel.
Il premio è stato infatti
assegnato con questa motivazione: per
l’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inafferrabili
e svelato la vita reale durante l’Occupazione. Se Modiano può dirsi «figlio
della guerra», non ne è tuttavia un testimone oculare; nemmeno può dirsi un
memorialista, anche se è vero che si documenta tantissimo, leggendo e
acquistando libri che lo aiutano a ritrovare il tono (direbbe Verga), a restituire l’atmosfera, il colore della
Parigi occupata. Ancora nel 2013, in una lunga intervista a Libération, a proposito di Via delle Botteghe oscure (per il quale
ricevette il premio Goncourt nel 1978), Modiano spiega a Sylvain Bourmeau: «È
un libro legato all’Occupazione, ma non è per nulla realista. Ho usato nomi di
gente reale che avevo osservato da bambino, ma poi ho scritto una specie di
sogno». Quel che lo interessa in quella storia è il tema dell’amnesia, piuttosto,
che – aggiunge – lo perseguita da sempre. È lui stesso a dire che non è
interessato alla realtà.
Il
fatto è che per la maggior parte (che poi resta una minoranza) dei lettori alla lontana di Modiano, lui è l’autore
di Dora Bruder. E basta. Scrittore di
culto in Francia, ben tradotto in Germania e in Spagna, è praticamente sconosciuto
in Gran Bretagna. Da noi, Einaudi ha preso in mano la pubblicazione anche nella
collana economica Super ET di alcuni romanzi di Modiano, e di certo dopo il
premio c’è stato come sempre un incremento di vendite. Diciamo però che non è
come per la canadese Alice Munro (sempre Einaudi), già autrice di culto prima
dell’assegnazione del premio, avvenuta nel 2013. Quando fu data notizia del Nobel
a Modiano, l’articolista italiano di Blasting
news scrisse che il premio era andato a un «autore semisconosciuto». Tradotto,
non vuol dire forzatamente letto, se le opere non sono disponibili nelle
librerie. Però, il Nobel serve anche a questo. Quanti avevano letto
Wisława Szymborska prima del 1996? Anzi, quanti la conoscevano? E ora, ora
non potremmo più fare a meno della sua poesia.
Tornando
alle motivazioni del premio, soffermiamoci sull’ambientazione storica,
l’occupazione tedesca a Parigi. Benché pressoché onnipresente, tale soggetto
non sempre è il tessuto che compone l’abito del romanzo; per restare nella
metafora, molto spesso è una decorazione, un inserto, un’applicazione ricamata.
Ma è vero che nei primi romanzi, e forse fino a Dora Bruder (1997), una sembra essere la tematica della sua
narrativa: la vita di coloro i quali hanno il «crimine» d’essere ebrei durante
il periodo nero dell’Occupazione a Parigi. Ma perché Modiano dovrebbe avere a
cuore siffatta materia? A rigore, lui non è ebreo. Secondo la legge ebraica,
infatti, si è ebrei solo per discendenza matrilineare (mater certa est). E sebbene secondo l’aliyah – la «legge del ritorno» praticata nello stato di Israele – chiunque
abbia legami di sangue con un ebreo, figlio o nipote che sia, per parte di
madre o di padre, ha comunque diritto alla cittadinanza israeliana, la
questione, in sé, non sembra interessare né l’uomo né lo scrittore Patrick
Modiano.
Quanto
poi all’evocazione della vita reale, Modiano ha bisogno, come già accennato, di
un décor plausibile per mettere in
scena, per convocare (e far tacere) i suoi fantasmi, per crearsi – attraverso
personaggi reali che rivivono nel romanzo – il proprio diritto di esistere. I
personaggi solitari dei suoi libri che vivono l’ebreitudine (giacché non sono tutti ebrei) rappresentano da una
parte un aggancio «sentimentale» pressoché impossibile al padre Albert e
dall’altra una condizione esistenziale che lo vede esibire un’invisibile stella
gialla (o meglio, une tache de jaune)
sul petto, laddove basterà un accento circonflesso a dare duplice significato alla
parola: tache come macchia e tâche come compito da assolvere. I
romanzi di Modiano sono praticamente in bianco e nero, come le pellicole
cinematografiche prima dei kolossal hollywoodiani. Per questo, quando leggiamo Bijou (2001), che ha come protagonista
una ragazza senza famiglia, attratta all’improvviso da un cappotto giallo che
si muove in mezzo ai passeggeri del metrò parigino, non possiamo non essere
colpiti – esattamente come lei – dalla macchia di colore che si staglia nel
grigiore quotidiano della capitale. In quella tache jaune le parrà di riconoscere la madre di cui ha perduto le
tracce, e per questo la seguirà, fermandosi però un attimo prima di suonare il
campanello di casa, prima di poter verificare nella realtà se per davvero
quella è colei che ricerca. Perché i fantasmi di Patrick Modiano sono due: la
madre e il padre. Non ci stupisce: chi di noi non ha un qualche fantasma nella
propria famiglia? Prima o poi, i conti vanno regolati, le ferite sanate e le
assenze riempite. L’alternativa sarebbe di seppellire tutto in un buco e poi
tapparlo, come nel finale di In the Mood
for Love. Ma in tal caso, non si fa di mestiere lo scrittore.
Essere
ebreo nell’anima senza esserlo: essere solo, come solo era suo padre che a sua
volta solo lo lasciò. Essere senza un
pedigree (romanzo autobiografico, pubblicato nel 2005). Che cosa vuol dire per un uomo crescere senza
una figura paterna, quel modello dapprima idolatrato e che andrà poi rifiutato,
secondo il rito edipico e simbolico del parricidio freudiano? Si dirà: ci son
tanti bimbi che non hanno mai conosciuto il padre. Ma forse c’è differenza se un
uomo – un bambino – è orfano, senza esserlo anagraficamente. E di tutti e due i
genitori, giacché la madre di Modiano è come le madri delle sue eroine: di
quelle che accompagnano i figli al collegio anzitempo, per sbarazzarsene il
prima possibile. Madri distratte, quelle di Modiano, madri frettolose, madri
che hanno una vita altrove con un universo in cui il bimbo rappresenterebbe una
scocciatura, un intralcio, un impedimento alla propria realizzazione. Madri e
padri che non sono affettuosi, che non amano, che non assolvono il compito che
la natura ha dato loro. E dunque un giovane che cresce senza figure maschili di
riferimento deve pur formarsi da sé.
I
giovani protagonisti delle sue opere non sono mai sfacciati. Al contrario. Sono
ragazzi sensibili e dotati che però tendono a nascondersi, come lo Jean dell’Erba delle notti. Sono persone
silenziose, né eroi né antieroi, un po’ sospesi; se presi da piccoli eventi,
sono indifferenti a tutto il resto, come l’Henri della Ronda di notte. Niente sembra
toccare il protagonista di un romanzo di Modiano, niente sembra coinvolgerlo – esattamente
come lo scrittore. Lo dice infatti, riferendosi a sé stesso, anche nel Cahier de l’Herne (2012), un insieme di
testi di (e su) Modiano, per larga parte inediti: «nulla di quel che riferirò
qui mi riguarda nel profondo» (a parte la scomparsa del fratellino Rudy).
Ma
torniamo al movimento incessante, quasi una dromomania, quell’ossessione che
hanno certuni a camminare senza meta. Alla maniera dei personaggi di Paul
Auster. In Città di vetro (cfr. Trilogia di New York), il suo protagonista cammina instancabilmente, che
piova o tiri vento, per le vie della città, con la (piacevole) sensazione di
essersi perduto. Dice di lui il narratore extradiegetico: « Ogni volta che usciva a camminare aveva l’impressione di lasciare sé
stesso e, abbandonandosi al movimento delle strade, di ridursi a essere
nient’altro che uno sguardo. Così, poteva sfuggire all’obbligo di pensare, la
qual cosa, più d’ogni altra, gli portava un po’ di pace, un salutare vuoto
interiore. Intorno a sé, davanti e fuori di sé, c’era tutto un mondo che
cambiava a una tale velocità che a Quinn era impossibile attardarsi a lungo su
alcunché. Il movimento era l’essenza delle cose: porre un piede davanti
all’altro e permettersi di seguire la deriva del proprio corpo. Vagando senza
meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non era più importante trovarsi qui o
lì. Le passeggiate migliori erano quelle in cui poteva sentire che non stava in
nessun luogo. E in fondo era tutto quel che aveva chiesto alle cose: non essere
in
nessun luogo». Il movimento di deambulazione ininterrotto
è lo stesso dei personaggi di Auster, ma in Modiano scopo e risultati sono
all’opposto. Intanto i suoi personaggi non errano al buio, inconsapevoli delle
strade che percorrono; i suoi personaggi forniscono a ogni passo il nome della
via, il numero civico, il caffè in cui ci si sofferma (quello del tempo che fu
e quello del tempo presente), la linea di metrò presa, la posizione della
panchina di legno sulla quale si siede o si sedette. Se non ne ha memoria, c’è
sempre un carnet nero a
ricordarglielo. Una precisione che serve a dare coerenza alle immagini, luoghi
percorsi e ripercorsi da un corpo che si muove attorno a un’anima ferma.
Ogni
volta che, durante un’intervista o all’interno di un testo, Modiano prova a
spiegare l’origine dei suoi libri, anzi degli incipit, ricorre a metafore veicolari del tipo: «nelle prime pagine,
si crede spesso di aver sbagliato strada», in realtà «è una lunga fuga in
avanti». «La prima frase è un’indicazione vaga». «La scorgiamo in una foschia scoraggiante
che spingerebbe a rinunciare, a cambiare strada, a lasciar perdere». E invece
bisogna andare avanti, perché «in questa vita monotona e quotidiana», chi
scrive (Modiano in L’erba delle notti),
tenta di «trovare delle linee di fuga e filarsela attraverso le brecce del
tempo». E allora per questo figlio della
guerra che si definisce «enfant du hasard»,
figlio del caso, nato da un incontro occasionale tra due persone che non
condividevano nulla se non la precarietà dei giorni della guerra, che ricorda
tutto e tutti perché tutto ha annotato, per quest’autore che scrive un’opera
topografica ripercorribile dal suo lettore, per Modiano, insomma, scrivere è
dare un attestato, fornire una giustificazione alla propria esistenza, perché
se si ricordano vie e nomi, numeri civici e caffè, eventi minuti accanto a
stravolgimenti epocali, vuol dire che si era presenti, che si esiste. E
pazienza se il ministro della Cultura francese, Fleur Pellerin, non ha tempo
per leggere e mai ha letto Modiano, perché dice – con sincerità mista ad
arroganza – non ha tempo per leggere. Colei che è incaricata di promuovere la
cultura francese non ha tempo neppure per digitare su wikipedia il nome di
Patrick Modiano all’indomani del Nobel. Non ha il tempo di farsi portare
rapidamente una rassegna stampa dell’ultimo minuto. Non ha tempo di leggere per
i suoi troppi impegni, ha dichiarato il ministro, come se questo Premio Nobel avesse
cominciato a scrivere nell’agosto del 2014.
Modiano intanto continua a essere ossessionato da una Parigi di un altro
tempo che – come dice lui – «con una luce velata inonda talvolta i suoi libri».
Infischiandosene.
* Dipartimento
di Studi Italiani, Università di Rabat « Mohammed V » (Marocco)
N.B.
Le traduzioni in italiano dal francese e dall’inglese sono a mia cura.