di Giorgio Moio
Tre
cose sono importanti nella poesia di Andrea Zanzotto: la modalità organizzativa
dell’enorme serbatoio culturale, l’esistenza d’una
memoria lucida tra segno e senso all’interno del corpus linguistico, una
convinzione di base che ogni processo storico si può riscrivere tenendo conto
del significato della figura retorica e della sostanza analitica. Volontà di un
sintagma (nell’accezione di Saussure, che coniò il termine: “la combinazione di
due o più elementi linguistici linearmente ordinati nella catena fonica”) che
rende il segno veicolante tra la struttura della langue e della parola,
che sembra ermetica [2] , ma ermetica non è. In pratica una posizione “in
un certo senso rovesciata rispetto a quella delle avanguardie in quanto per
Zanzotto l’elemento formale non è punto di arrivo, pura meta di un processo di
demistificazione, bensì il modo in cui si struttura un profondo significato
interpretativo del rapporto fra l’esperienza poetica individuale e il mondo d’oggi,
in mezzo a cui essa si svolge” [3] .
Comunque
sia, Zanzotto compone poesia attraverso il linguaggio psicanalitico, per cui sa
adeguarsi all’esigenza di vita, alla corsa-rincorsa
della realtà, alla carne e allo spirito, che gli hanno permesso di attraversare
movimenti e situazioni culturali da protagonista, confermandosi uno dei poeti
italiani più importanti degli ultimi anni:
V
Chiamarlo giro o
andatura rettilinea,
a che sé dicenti scienze e patti e
convenzioni far capo?
Perché tutte queste iperbellezze
ipereternità sono
tutte sanissime e strette in solido
ma vagamente traverse perverse
indicano spunti di lievi o grosse per-tras-versioni
madrinature ognuna fantastizzanti
seduzioni censure o altri innesti clivaggi,
il loro afrore in stagione o fuori
stagione
abbacina allergizza – e poi eritemi
sfavillanti.
(da La Beltà,
Mondadori, 1968, vv. 1-11…)
Ci
si accorge subito di avere davanti una densità intellettuale colta, nutrita sostanzialmente
da alcune analisi metalinguistiche; una densità che slitta con tutto il suo
eros di un’ossessiva fissazione della
realtà, nell’organizzazione mentale dello spazio creativo per una rilettura
“controllata” di quei moduli già ritenuti (da altri, erroneamente) archiviati.
È lì che il verso si libera, si sdoppia nella purezza assoluta della forma per
procurarsi lo scarto dalle norme
correnti e puntare sul gioco del significante che gli consentono, su un terreno
culturale instabile e deprimente (siamo negli anni del neorealismo) come quello
post-guerra, la rincorsa ad una post-lingua
come residuo di speranza: “… è in qualche modo l’unico antidoto alla
disperazione/distruzione. È il chaleur maigre et glabre di Éluard,
l’incontaminazione del bambino [il riferimento al Pascoli è palese] che non ha ancora imparato ad
odiare soltanto. […] Le prova tutte, le strade, Zanzotto: il rito,
l’invocazione, la ripetizione ossessiva, per una credibilità lentamente
istillata; ed il quotidiano dramma del dolore ne è il sotterraneo protagonista
attraverso l’evocazione di miti e figure e trasposizioni sonore” [4] .
Esorcizzata
la lingua da un flusso energetico totalmente versato nella trama del vissuto, i
suoi versi sanno di essere del mondo e nel mondo dell’interrogazione: ci si
illude alla fine, non tanto di bloccare il tempo (cosa assai improbabile anche
con la poesia), quanto di penetrarlo e guardarlo al di là dell’angoscia, al di
là del potere, al di là della nostra appartenenza alla morte, ancora nel solco leopardiano,
se si confronta la poesia che segue:
Contro monte
Dove ultima delle
mie pene
Soligo fosca si
cementa
al suo monte sdegnato dal cielo,
dove il fiume sussulta
e tenta col vano meandro
liberarsi dal melmoso autunno,
più vicino al tuo volto
al tuo corpo embrione aspro del sole:
là mi riscuoto, là rovescio la vita
mia, sonno infetto di terra
che arresta e stringe al muro i
paesaggi;
e la fuliggine delle alluvioni
invola contro monte il mezzodì.
(da Elegia e altri
versi, La Meridiana, 1954, vv. 1-14.)
Un
gioco desiderato che si cala in profondità, una meditazione sulla parola e sul
linguaggio, né critico né morale ma che pone domande senza risposte. “Per il
momento, questa regressione, non sperimentale, ma impegnativa, sofferente,
questo cammino verso l’Inconscio sulle orme di Michaux
che egli ammira e spesso cita, è al limite del ‘désastre
obscur’” [5] .
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Andrea Zanzotto (1921-2011)
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Infatti,
temi come la morte, il buio dell’ignoto, l’oscura e precaria esistenza, anche
sulle orme di Blanchot, esprimono, come nel critico e
romanziere francese, tutto il disagio della letteratura contemporanea, simboli
di una narrativa in dissoluzione, tipica del Novecento. Zanzotto, che è fine intellettuale,
sa che bisogna reagire anche con caparbietà alla lievitazione del “pessimismo”,
al naufragio della solitudine. E lo fa con una particolare combinazione
casuale, con un io “inciampato” e “accidentale”, caparbio fermento di
combinazioni meno codificate rispetto all’area letteraria in cui si muove,
nonostante il ricorso a petrarchismi e metriche classiche, ma anche ad una
parodia spesso grottesca, anche se bisogna convenire che in Zanzotto di
codificato c’è ben poco o addirittura niente. I suoi, tutto sommato, sono versi
liberi. “Insomma è un uso della tradizione letteraria alla rovescia [anche ironico e sberleffeggiante:
si veda ‘Il galateo in bosco’]: ma l’intento non è dissacratorio (o non
soltanto dissacratorio), quanto piuttosto funzionale ad un adeguamento degli schemi
classici alla realtà storica attuale, e all’attuale possibilità di far poesia.
Ed in questo Zanzotto si allontana da qualunque tentativo di
pseudo-sperimentalismo e di velleitaria avanguardia, raccogliendo direttamente
quelle che erano state le esigenze di sperimentalismo degli anni Cinquanta (ci
riferiamo, ad esempio, al gruppo di ‘Officina’) e proponendo soluzioni
originalissime e inimitabili. La sua è una poetica autonoma e tale da poter
figurare come termine di contrapposizione a quella codificata […] oltranza
contro le norme. Una soltanto, delle norme, resta: quella della madre-norma che, emersa corposamente ne La beltà, ha presieduto esplicitamente a
tutte le raccolte seguenti” [6] .
Ben
al di là della sperimentazione contemporanea a se stesso, dunque, s’affacciano
le sue poesie? In parte è vero (come abbiamo visto attraverso l’indagine della
Nuvoli): ma proprio queste sue rappresentazioni “retoriche” e “retrò”
(l’invocazione dell’idillio, del madrigale, della canzone…) gli consentono di
rimuovere, là dove cede l’immagine e si eleva la parola, la capacità induttiva
di creare situazioni pensanti lungo il cammino della memoria e del dramma e di unificazione
di una oggettività espressiva senza appartenenza, per trovare un’altra
unificazione che scava nel profondo delle origini psicanalitiche del linguaggio
poetico:
Sì, ancora la neve
Che sarà della neve
che sarà di noi?
Una curva sul
ghiaccio
e poi e poi… ma i pini, i pini
tutti uscenti alla neve, e fin l’ultima
età
circondata da pini. Sic et simpliciter?
E perché si è – il
mondo pinoso il mondo nevoso –
perché si è fatto bambucci-ucci,
odore di cristianucci,
perché si è fatto noi, roba per noi?
E questo valere in
persona ed ex-persona
un solo possibile ed ex-possibile?
Hölderlin: “siamo un segno senza
significato”:
ma dove le due serie entrano in
contatto?
Ma è vero? E che
sarà di noi?
E tu perché, perché
tu?
E perché e che fanno
i grandi oggetti
e tutte le cose-cause
e il radiante radioso?
(da La Beltà, cit.,
vv. 1-18…)
Operazioni
del genere gli consentono di organizzare la rincorsa ad una post-lingua, variandola, esorcizzandola
con un flusso energetico totalmente versato nella trama del vissuto: i suoi
versi sanno di essere del mondo e nel mondo si prestano all’interrogazione;
alla fine ci si illude, non già di bloccare il tempo piuttosto di penetrarlo e
“ammirarlo” al di là dell’angoscia o di formule ripetitive e/o ossessive. “L’elaborazione
intellettualistica dei motivi si incrocia per altro con una energia estrema di
sensazioni: e il lettore si avvedrà subito della […] facoltà creatrice di immagini…
La natura qui non è sciolta nei suoi colori e nelle sue sollecitazioni
immediate, e neppure è presa come la traduzione, lo specchio d’un determinato
stato d’animo o sentimento, ma è essa stessa sentimento, non sempre decifrabile,
componendosi nei suoi elementi come simboli assoluti” [7] . D’altra
parte, una delle più facoltose genialità di Andrea Zanzotto è il supremo gioco dell’intelligenza,
per cui la parola cerca di riformulare con un’ansia vertiginosa tutto ciò che
vi si nasconde, la combinazione segreta del divenire, significati autentici di
verità e purezza, del puro essere sospeso negli anfratti di
Un senso che non
muove ad un’immagine,
un colore disgiunto da un’idea,
un’ansia senza testimoni
o una pace perfetta ma precaria
(Da un’altezza nuova - II, da Vocativo, Mondadori, 1957, vv. 1-4…),
per l’atto di
resistenza, il sentimento del bene come indifferenza, l’indifferenza come
intuizione e atto puro del poetar, tutti temi cari a Montale, del quale Felice
Piemontese depone l’eredità nella poesia di Zanzotto [8] :
Eppure tra questa
che seppi menzogna,
nella vita, rabbioso m’attardo.
Ecco, è come se
verso la brughiera
che è eletta dalla lepre
e che il pioppo circonda e vuole a
ombroso letto ai riposi
della sua corona che perisce
nei giorni, è come se
in questo andare che non ha ancora
senso, ma già rifiuta la paura
rifiuta il silenzio – ah, individuata
e subito confusa legge, bruto
plasma, densissima lingua –
io sia colui che “io”
“io”
dire, almeno, può, nel vuoto,
può, nell’immenso scotoma,
“io”,
più che la pietra, la foglia, il cielo, “io”:
(da IX Ecloghe,
Mondadori, 1962, vv. 96-113…)
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Zanzotto nella sua casa di Pieve di Soligo
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Nato
a Pieve di Soligo (Treviso) il 10 ottobre del 1921, Zanzotto ha trascorso tutta
la sua vita ad insegnare nelle scuole medie inferiori del suo paese natale, dal
quale, praticamente, non si è mai allontanato: è stata la sua poesia, senza
dubbio a viaggiare. Si tratta comunque di una scelta significativa; vivere
pienamente la realtà periferica gli ha procurato infinite sollecitazioni
letterarie, una sorta di analisi del mondo, da un punto di vista familiare e
quindi elettivo all’autenticità della poesia. Una sorta di analisi del mondo
attraverso concatenazioni fonetiche, onomatopeiche, termini tecnici e
molteplici variazioni del “vox populi”,
cioè di idiomi in dialetto veneto che ne fanno uno dei massimi eredi di
quell’area veneto-lombarda dove l’espressività in vernacolo è più che un’esigenza,
un recupero della propria libertà, delle proprie origini:
Vecio parlar che tu
à inte ’l tó saór
un s’cip del lat
de la Eva,
vecio parlar che no
so pi,
che me se á descunì
di par di ’nte
la boca (e no tu me basta);
che tu sé canbià
co la me fazha
co la me pèl
ano par an;
parlar porét, da
poreti, ma s’cèt
ma fis, ma tóch cofà ’na
branca
de fien
’pena segà dal faldin (parché no bàstetu?) –
noni e pupà i
è ’ndati, quei che tecognosséa,
none e mame
le é ’ndate, quele che te inventéa,
nóvo petèl
par ogni fiól in fasse,
intra le strússie,
i zhighi dei part, la fan e i afanézh.
(da Filò, Edizioni
del Ruzante, 1976, vv.
226-240…)
Le
opere zanzottiane ci lasciano comprendere che, se
dietro il saggista rispunta l’ombra di Michaux,
dietro il poeta aleggia certamente il fantasma del significante di Lacan e
l’arbitrarietà di Saussure, in modo che ogni sistema linguistico fondi e
organizzi l’esperienza della parola arbitrariamente rispetto alla realtà:
reagisce, tra traumatizzato e ironico, cercando di assorbire nel contesto
idillico della sua poesia le forme linguistiche di una realtà autre [9] ; ma l’idillico
Zanzotto sa che il linguaggio è (tutto sommato) un continuo sperimentare gli
abissi umani, e non può accedervi se non con la psicanalisi, che emerge anche
nell’uso allitterato di unire o raddoppiare parole: puropura;
serachiusascura; movimento-mancamento; sketch-idea; bambucci-ucci; cose-cause; io-tuquesti-quaggiù;
cicala ciàcola; cieli-meli-steli; poemi-pomi;
lingua-rubino; idee-mostri-astri; molteplice-plice;
sublime-blime; pappa-pappo; già-glorie, etc. Egli
crede che un linguaggio “vivo” viva rinnovando continuamente se stesso,
superando il limite dell’assurdo, costituendo coi termini lacaniani un punto
sinestetico per il lettore. “… non si tratta infatti di una restituzione delle dimensioni
dell’inconscio o del sogno, sull’esempio di illustri precedenti ottocenteschi e
novecenteschi […], quanto invece di affrontare dimensioni di profondità
originaria da un massimo di vigilanza e tensione mentale, e all’interno d’un
contesto storico-culturale che non viene mai accantonato” [10] .
Non
si sa mai dov’è che parlano le cose e dove l’uomo con Zanzotto; ma l’abilità
del poeta, e l’idea di restituirci alla reale dimensione dell’essere, riescono a stabilire il vero equilibrio dei
rapporti esistenti fra le parti, dimostrando (ancora una volta) una eccezionale
pratica d’intento e pluralità di
discorso. La rappresentazione si appropria della retorica unicamente per
poterla rimuovere: una retorica la sua, già funzionante sotto l’aspetto
informale, un senso convertibile in velocissimo sdoppiamento. Una poesia
affascinante d’un linguaggio tout court,
suggestiva nel suo spostarsi da un punto all’altro del poetare con padronanza,
capace di lasciarti vivere per intero la sensazione palpabile d’una lingua pura
ma assottigliata, uno specchio deciso a riflettere ciò che vuole. Zanzotto è un
poeta che non lascia niente al caso, anche quando sembra lasciarsi andare dall’attrazione
misticheggiante del linguaggio, accennata poc’anzi; è un poeta che lavora e
bene sul tempo d’una lingua psichica di corpi vaganti, un lavorio pagato a caro
prezzo: un poeta che andrebbe compreso, studiato, analizzato (sì, analizzato),
viene beatificato e quindi “messo da parte”, pur essendo per molti versanti un
autore accessibile al grande pubblico. “L’io poetante di Zanzotto è
sostanzialmente un fanciullino che riscopre il mondo, ricomincia da capo, e si
stupisce, s’affanna, ha paura. Un fanciullino culturalmente aggiornato,
psicologicamente precisato e linguisticamente addottrinato, che ripropone la
vita a partire dal punto in cui il sonnambulo di Sbarbaro
l’aveva vista dissolversi” [11] .
A
volte dissacrazione dei contenuti, altre volte estrapolazione d’ironia da un linguaggio
originario come lo è quello dell’infanzia (Che si dice lassù nella vita, / là
da quelle parti là in parte; / che si cova si sbuccia si spampana / in quel
poco in quel fioco / dentro la nocciolina dentro la mandorletta? / E i mille
dentini che la minano? / E il pino. E i pini-ini-ini per profili / e profili
mai scissi mai cuciti / ini-ini a fianco davanti / dietro l’eterno l’esterno
l’interno (il paesaggio) / dietro davanti da tutti i lati, / i pini come
stanno, stanno bene?…) [12] , dove il mondo inizia
a parlare, a sciogliere la lingua, a divenire adulto e a proporsi dal profondo
d’una periferia
fortemente
influenzata da una tradizione
neoclassicheggiante di elementi assunti come simboli assoluti. Si fondono
diverse semantiche creatrici d’immagini, lo status
d’una pienezza lungo l’indicibile del discorso, dove (come nella poesia che
segue) il soggetto è il mondo buono che un orfico trascendentale ([che]… non è quel grumo di nomi / in cui
una luce si credette rappresa, / la storia di una glissante discesa ascesa, …)
spera di abitare in “santità”:
Al mondo
Mondo, sii, e buono,
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi
tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso
Io pensavo che il
mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire
il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu “santo” e
“santificato”
un po’ più in là, da lato, da lato
Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere
e oltre tutte le preposizioni note e
ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente
un po’
(da La Beltà, cit.,
vv. 1-20…)
Ma
chi è il colpevole che ha ridotto il mondo “fatturato”
“sbozzolato”, “male fantasticato mal pagato”? Un mondo santificato, una bella
utopia, ma dovremmo cominciare a parlare la stessa lingua, ad accogliere le
diversità senza essere schifati, progettare un futuro comune pieno di soddisfazioni,
un corpo solo, una coscienza sola: una bella utopia. Se non ci è riuscito chi
ci ha creati…!
Comunque,
il punto sinestetico del linguaggio zanzottiano è nel
paesaggio, nell’evento, nella natura e nella scienza, temi fortemente
rappresentati, unitamente all’io storico: è su questa strada che si verificano
le condizioni (d’instabilità: anche una poesia ermetica come la sua ha punti d’instabilità)
per un’ipotetica chiave di lettura. L’assunzione naturale d’un enorme vortico
di elementi verbali significanti, di citazioni estrapolate dalla storia d’un
linguaggio passato e fortemente sentito, ci dimostra una non/trascurabile
propensione alla materialità (del
non-dato), e di conseguenza all’impossibilità di convivere coi significati da…
macello:
Nel campo d’una
placabile
idea,
d’una sera che il vento era tutto,
si, tutto, e mi premeva
col suo gelo verso il più profondo
di quell’idea di quel sogno,
tricosa Gordio
da atterrire il filo della spada.
nel seno d’energia
di quella inibizione nera
che faceva le cose sempre più
sempre più terra nella terra.
Vedi: troppo vicine
le mie stanze
sono a te, quercia: resisti
ora, sull’orlo, sta
anche per tutto il mio
mancare
(da IX Ecloghe,
cit., vv. 1-17…)
Così
inizia una sua poesia, La quercia
sradicata dal vento nella notte del 15 ottobre MCMLVIII, contenuta nella
raccolta IX Ecloghe, dove sogno e
segno si lasciano trasportare dagli eventi naturali, non verso un codice
sperimentale, ma verso un impegno: quello di sprofondare nell’Inconscio e tentare
di svelarlo. Il sogno del poeta: un sogno da materializzare. Le IX Ecloghe rappresentano, prendendo
decisamente le distanze dalla poetica dei Novissimi
(Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Edoardo
Sanguineti, Alfredo Giuliani e Antonio Porta) [13] , accusati da
Zanzotto di aver fatto passare come antimito il mito
del dissacratorio a tutti i costi per scuotere le coscienze, quello che di più metalinguistico
ci possa essere nella poetica zanzottiana, un
significante come ricerca di significati psicanalitici (ancora una volta la
lezione di Lacan è ben evidente), citazioni di citazioni, un movimento materico
e manipolazione d’una langue poco
logica ma non illogica, abolizione del soggetto ma non dell’io, del proprio io
autobiografico per una poesia intesa come esperienza individuale (che è poi,
secondo Zanzotto, l’io della natura, l’io del mondo e della scienza, appunto), pieno
di ansie e interrogativi, restrizione del campo semantico per un non/campo
semantico, una mescolanza magmatica di silenzio e mormorio, entro i quali la
materia divarica e s’intreccia in tutti i registri. “Questo intreccio
fittissimo degli stilemi sublimi – odiati ma sopravviventi – e degli stilemi
comici che li correggono e contraddicono, sono la più solida difesa che
Zanzotto abbia potuto apprestare contro il più pauroso dei sé» [14] .
Rottosi
il rapporto già-dato/non-dato con
rappresentazione massima nel volume La
Beltà, considerato fondamentale nella poetica zanzottiana
(venne presentato a Roma da Pier Paolo Pasolini e a Milano da Franco Fortini),
una poetica che aveva già “attirato”, nel 1955, anche la curiosità di Eugenio
Montale: “Zanzotto non descrive, circoscrive, avvolge, prende, poi lascia. Non
è proprio che cerchi se stesso e nemmeno che tenti di fuggire alla sua realtà;
è piuttosto che la sua mobilità è insieme fisica e metafisica, e che
l’inserimento del poeta nel mondo resta altamente problematico [...], un vero
tuffo in quella pre-espressione che precede la parola
articolata e che poi si accontenta di sinonimi in filastrocca, di parole che si
raggruppano per sole affinità foniche, di balbettamenti, interiezioni e
soprattutto iterazioni» [15] . Dunque il significato interagisce da
significante, coinvolge nel suo gioco di moltiplicazioni linguistiche,
sequenze, assonanze, dissonanze, tiritere, dialetti, offrendoci una persistenza
pedagogia del vuoto incentrato su basi emotivo-mentali, attraverso lo urlato e
l’inesploso, un’area in cui avvenga continuamente verificata la proposta e la
risposta, il codice della realtà e la realtà.
La
posizione più avanzata, invece, della poesia di Zanzotto, è data da Il galateo in bosco [16] , un insieme
di sonetti, anzi di ipersonetti (specie nella seconda
parte, quella centrale, una sezione di quattordici sonetti dal titolo, appunto,
Ipersonetto)
ma anche una discontinuità della tradizione metrica sulle vicende della Grande
Guerra, un cambio di rotta che non si sarebbe mai realizzato, durante gli anni
universitari, incoraggiato da Diego Valeri, uno dei suoi docenti, senza l’approfondimento
della poesia di Baudelaire e la scoperta di Rimbaud: “Zanzotto […] nel Galateo, compie una sintesi al più alto
livello delle proprie precedenti esperienze, trovando nel contempo risorse
inedite, energie intatte verso soluzioni ulteriori, verso una nuova felicissima
maturità. […] Qui tutto viene per così dire ripensato, rimesso in gioco, senza
mai cadere nel fatale errore di chiudere, di raggelare e definire dando esiti
precedenti per scontati. […] tra gli aspetti più sorprendenti di questo nuovo
Zanzotto, è proprio una improvvisa nozione di immediatezza (ad ulteriore
sviluppo del discorso sulla presunta oscurità) la parziale assenza di ogni
‘artificio’, di ‘costituzione’, di virtuosistica abilità che la presenza netta
degli argomenti, la ‘prosa’ di frequenti passaggi, la loro disarmante
lontananza da ogni forma di equivoco ammiccamento presentano. In questi casi,
Zanzotto sembra (ancora) sbriciolare ogni schema, ridurre in poltiglia ogni
decadente compiaciuto alibi formale, pervenendo anche a una inedita, efficacissima
concezione metrica” [17] :
Sonetto dello
schivarsi e dell’inchiodarsi
Galatei, sparsi
enunciati, dulcedini
di gusto a voi, fronde e ombre,
egregio codice…
Codice di cui pregno
o bosco godi
e abbandoni e incombi, in nascite e
putredini…
Lasciate ovunque
scorrere le redini
intricando e sciogliendo glomi e nodi…
Svischiare ovunque forze e glorie, o modici
bollori d’ingredienti, indici, albedini…
Non più che in
brezze ragna, o filigrana
dubbiamente filmata in echi e luci
sia il tuo schivarti, penna, e
l’inchinarti…
(da Il galateo in bosco,
cit., vv. 1-11…).
Se
il sonetto qui sopra può definirsi un enunciato di poetica “e, al tempo stesso,
estenuazione del concetto di poetica […] ed al finale la consapevolezza che niente,
se non segno, è la poesia” [18] , il sonetto che segue (l’XI, dal titolo
Sonetto del che fare e che pensare),
anch’esso fatto di rime (ed è per questo che, nonostante Il galateo in bosco faccia compiere al suo autore un passo in avanti, verso l’apertura
alla decodificazione [19] , si rimane comunque di fronte alla forma
chiusa, anche se si tratta di una forma chiusa del tutto autonoma rispetto, per
es., a quella classica), si dipana lungo un gioco linguistico dove la parodia e
il grottesco scardinano (o tentano di scardinare) la forma chiusa fine a se
stessa e quindi la tradizione letteraria che qui viene rovesciata con accenni
dissacratori:
Che fai? Che pensi?
Ed a chi mai ci parla?
Chi e che cecerecé d’augel distinguo,
con che stillii
di rivi il vacuo impin guo
del paese che intorno a me s’intarla?
A chi porgo, a quale
ago per riattarla
quella logica a cui fili m’estinguo,
a che e
per chi di nota in nota illinguo
questo che non fu canto, eloquio, ciarla?
Che pensi tu, che
mai non fosti, mai
né pur in segno, in sogno di
fantasma,
sogno di segno, mah di mah, che fai?
Voci d’augei, di rii, di selve, intensi
moti di niente che sé a niente plasma,
pensier di non pensier,
pensa: che pensi?
È
palese; per Zanzotto la conoscenza profonda della pedagogia è stata come la
manna scesa dal cielo (senza esagerare!), una crescita articolata della parola
ascrivibile nel mondo del nulla e del pericolo, del rischio, senza la cui
avremmo avuto sicuramente un altro Zanzotto. Un viaggio nel trasmentale
insomma, dell’insicurezza, in uno spazio dove manca la dinamica del senso (“… tutto da spazzare da incelestire
in odori e via…), dove la rinuncia al ruolo di protagonista dà voce al linguaggio
di ciò che lo circonda, dove (naturalmente) sono depositari tutti i temi del
mondo, tutte le essenze dell’uomo ancora da scoprire:
Tutto è convinto
spinto
a dare su un’alba
come di un altro fatto d’alba
tutto è coinvolto precipite a darsi
in filiazione di napalm d’alba
tutto è roso da un fuoco sottile fragile
freddo
‒ il tepore
‒
tutto è impuntato in cristallo fratto in
fuoco
è covato e incavato a un fuoco
Temi
simbolici, a volte mitici; sicuramente una poesia metafisica della natura nella
tridimensionalità significante-significato-senso, la quale si dà volentieri a
un richiamo costituente e progredente di una ontologia antinomica tra il vivere
e l’accadere. Già da Dietro il paesaggio,
prima opera zanzottiana (Mondadori, 1951), si nota la
lezione di Petrarca e di Leopardi si fa strada, ma per condurlo verso una
storia privata, un viatico dove l’ascrizione ai modelli classici è solo uno
degli elementi. Dirà Giuseppe Ungaretti in un convegno a proposito della
poetica di Zanzotto: “Ecco il primo elogio che voglio fare a Zanzotto: egli è
un poeta libero” [20] , rivela e non codifica, rompe (non tanto) con il
precostituito, ma con l’inerzia delle acque
placate, lasciandosi sedurre e trasportare dal quotidiano con le sue
innumerevoli molteplicità da rivelare (appunto). E in questo caso è veramente “libero”,
libero di possedere l’arbitrio, libero di scalfire la parola, di originare la
parola dalla parola stessa e dal ritmo incessante, l’autonomia del quotidiano
rispetto ai suoi maestri, la padronanza dell’ispirazione sulla superficie delle
cose, autre part, anche se realisticamente lancinanti.
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Un ritratto a specchio del poeta veneto
|
Rappresentare
il vuoto della realtà delle cose, “… certi
sistemi di silenzio”, senza mai perdersi (“perché così tanto, quasi tutto / ho lasciato a piè del muro…”),
come ascoltatore non passivo è il vertice massimo raggiunto dalla poesia zanzottiana che “estranea il lettore da ogni possibile
campo semantico, perché li rifiuta tutti nella sua protesta di uomo disgustato
e deluso, ma addirittura fa sì che non ci sia nemmeno il campo semantico della
mancanza di campo semantico» [21] . È tutta una trasposizione di suoni,
di decapitazioni, di prefissi (senza mai raggiungere tra l’altro il punto off limits del
linguaggio che significherebbe la morte
del linguaggio stesso (questo Zanzotto l’ha sempre saputo, ormai è un poeta
ferrato), di ripetizioni, d’innovazioni (perché no!) attraverso l’analitico e
la metafora. La scrittura zanzottiana dunque, si
presenta al lettore come un corso d’un fiume “inquinabile” che scorrendo verso
il mare ci rivela i nostri luoghi bui, le nostre paure, ponendo l’istanza per
una materica koinè di significati
oggettivi. Lasciandosi poi sedurre dal ritmo incessante e decostruito del
testo, gli oggetti si animano di una vitalità inespressa prima, sembrano che
parlino autonomamente, vivi, palpabili e ci conducono a un comune denominatore:
a un sacrificio rituale di lettori in cui le parole rischiarano davanti ai
nostri occhi come il sole al mattino e si cancellano come il tramonto di sera,
per rischiararsi e cancellarsi nuovamente. Ripensare l’antico in termini nuovi, ripristinare una serie di
concatenazioni storiche e di nessi ineludibili, è compito anche della
letteratura.
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1
Nel rovistare tra i miei scritti inediti, mi sono imbattuto in questo scritto
giovanile del 1980 che dedicai ad Andrea Zanzotto, allora tra i miei poeti
preferiti, con Leopardi, Éluard e Sanguineti. Non
conoscevo ancora, per es., né Spatola né Villa (il Grande Emilio) e altri
dell’area di ricerca, ai quali dedicai gran parte delle mie letture e studi.
Qualche piccola modifica è stata necessaria, ovviamente, vista la giovane età
dello scrivente.
2
Forse il primo Zanzotto, assuntore del pessimismo leopardiano, del simbolico
“mal di vivere” che richiama la prosa di Poe e di Kafka, con un’effimera
vittoria sul male: «avvertivamo la mente che continuava, riflesso di nevi e di
acque perdute, avvertivamo, anche se non per noi, il gusto di un debole,
desolato trionfo sulla morte» (A. Zanzotto, Sull’altopiano. Prose 1942-54, Neri
Pozza,
1964,
p. 89).
3
M. Corti, rec. ad A.
Zanzotto, La Beltà, in “Strumenti
critici”, n. 7, Einaudi, ottobre 1968, pp. 427-30.
4
G. Nuvoli, Andrea Zanzotto, La Nuova
Italia, 1979, pp. 84 e 87.
5
M. David, Solmi et Zanzotto, in Le Monde des livres, suppl. al numero 7416
di “Le Monde”, 16 novembre 1968, p. VII.
6
G. Nuvoli, Andrea Zanzotto, cit., p.
110.
7
G. Gramigna, Dietro il paesaggio, in
“Settimo Giorno”, IV, 155, 43, 25 ottobre 1951, p. 28.
8
F. Piemontese, Lassù qualcuno ha deciso: Zanzotto erede di Montale, in “Paese
Sera”, 4 marzo 1979, p. 15. Dunque, ammira Ungaretti ma è in Montale che la sua
poesia si rispecchia: «Si è tentati di affermare a questo punto che appare
nella poesia di Montale una vera e propria “allergia” per l’insieme dei fatti
che sono “triti”, per il “reliquiario”, la fanghiglia, la breccia, la maceria:
come per l’inconscio stabilirsi di un rapporto pieno di contrasti e di reazioni
tra l’animo del poeta e questi particolari aspetti della realtà naturale [lo
stesso rapporto che si riscontra nella poetica di Zanzotto]. Ma l’ossessione di
questi oggetti piuttosto che per altri (anche se può avervi il suo peso la
presenza di un determinato paesaggio) denuncia il fatto che essi testimoniano,
in una forma che è sottintesa e più idonea a toccare il subcosciente, quanto lo
spirito non vuole né può accettare, e che pure gli s’impone come verità: l’attualità
stessa del pensiero e del sentimento degradata da una congenita e finale
impotenza al livello della pietra, la vita, destinata in ogni caso a perire,
valida solo come passato, il presente come regno delle scorze e dei gusci
vuoti» (L’inno del fango, in “La Fiera Letteraria”, 12 luglio 1953).
9
Cfr. F. Curi, Ordine e disordine,
Feltrinelli, 1965, p. 94.
10
Ivi.
11
S. Antonielli, “La beltà” di Andrea
Zanzotto, in “Belfagor”, Anno XXIV, 5 settembre
1969, p. 627.
12
Sì, ancora la neve, da La Beltà, op.
cit., vv. 94-104).
13
Il rifiuto alla poetica dei Novissimi e del neosperimentalismo
di quegli anni, è trascritta da Zanzotto nel n. 99 della rivista “Comunità”
(maggio 1962), col titolo I “Novissimi”: «Anche a proposito dei “Novissimi” ci
si sente portati a evocare quella scuola letteraria fantasma che è il
convenzioniamo (nome vero di quello che, più bonariamente, è stato chiamato neosperimentalismo), conseguenza di una situazione coattiva
che porta oggi le lettere, più ancora che le arti, a procedere come in un
giuoco di specchi, in cui il regredire e l’avanzare diventano spesso
intercambiabili. La “bonarietà” deriva dalla coscienza dubbia dell’operare in
una convenzione: e ciò vale anche per queste ultime presenze». Il discorso sul neosperimentalismo di Sanguineti e compagni, cioè sulla questione
di mito e antimito, viene ripreso da Zanzotto nel n.
204 di “Paragone” (febbraio 1967), a proposito di un intervento sulla poesia di
Vittorio Sereni, che sembra cucito per se stesso: «Egli ha la piena coscienza
che nessuna situazione della vita concreta è di fatto tanto demitologizzata (o
demitizzata) da non basarsi su tronconi di miti e di amori che, tutto sommato,
non possono non conservarsi tali, e che per essere sentiti come tali devono
venire espressi proprio con questi termini, per quanto frusti ed erosi, anche se
il mito dell’antimito e del disincanto totale impone
delle finte, delle reticenze nei loro confronti. Spalla a spalla c’è, appunto,
il linguaggio dell’antimito. Si delinea allora una
verità in cui terminologia “alta” e accenni di sintassi “alta” bucano il
tessuto del parlato depressivo-disilluso che pure viene accettato, se non come
preferibile, come il solo che oggi conceda agganci».
14
P. P. Pasolini, La beltà (appunti),
in “Nuovi Argomenti”, n. s., n. 21, marzo 1971, p. 23-6.
15
in “Il Corriere della Sera”, 25 marzo 1955.
16
Mondadori, 1978.
17
M. Cucchi, Il Galateo in Bosco, in “Belfagor”, n. 2, marzo 1980, pp. 242-3.
18
G. Nuvoli, Andrea Zanzotto, cit., p.
108.
19
«… quanto meno “codificata” – cioè definita, canonizzata, compiuta – sarà la
poesia, tanto più si renderà possibile (quindi credibile) la sua funzione. È
per questo che di “codificato”, in Zanzotto, non c’è niente: neppure il metro
della poesia. Dai versi liberi affastellati insieme, con spazi vuoti
all’interno del verso e fra l’uno e l’altro, si passa a serie di quartine, o a
rifacimenti (e sberleffi)
della canzone, con
stanze e riprese a modo suo» (id., p. 109).
20
G. Ungaretti, Piccolo discorso al
Convegno di San Pellegrino sopra “Dietro il paesaggio” di Andrea Zanzotto,
in “L’Approdo”, Anno III, n. 3, settembre 1954, p. 61. Non è un segreto che
Zanzotto di Ungaretti ha amato la dignità di fronte alla morte, il vitalismo
dell’essere uomo, nonostante le ferite che la vita gli ha inferto. Secondo
Zanzotto, Ungaretti è riuscito a rivoltarsi contro la negazione «rovesciando le
sempre risorgenti barriere dei “temi del nostro tempo” ed appropriandosene come
di “atti”, si annunciava invece per il più alto testimone della libertà: in una
scommessa-contraddizione, in un’allegria continua oltre lo squallore dei
continui naufragi, che non potevano domare il “superstite – lupo di mare”» (A.
Zanzotto, I settant’anni di Ungaretti,
in “Comunità”, Anno XII, n. 63, ottobre 1958, p. 98).
21
P. P. Pasolini, La beltà (appunti),
cit.