PRIMO PIANO
RITRATTI
Vittorio Foa tra impegno politico-sindacale e riflessione storica


      
Un serrato profilo della figura di uno dei padri costituenti della Repubblica nata dalla Resistenza. Una personalità complessa e sempre eterodossa che parte negli anni Trenta come aderente al movimento Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli e si tempra nella lotta antifascista nelle fila del Partito d’Azione. Poi nel dopoguerra diventa dirigente della Cgil e, quindi, in vecchiaia fine studioso e saggista, sempre interrogandosi appassionatamente sulla mancata realizzazione dopo il 1945 della nuova democrazia progettata e, pertanto, sulle continuità e sulle rotture fra prefascismo, fascismo e postfascismo.
      



      

 

 

di Federica Montevecchi

 

 

Vittorio Foa ha studiato, scritto e insegnato la storia italiana, ma soprattutto ne è stato protagonista, prima come antifascista, poi come padre costituente, quindi come deputato e sindacalista. Lo studio, l’azione, la scrittura e l’insegnamento scandiscono, peraltro intrecciandosi fra loro, le età principali della sua vita ‒ giovinezza, maturità e vecchiaia: se lo studio e la scrittura della storia possono costituire un diverso modo di agire e mai culto antiquario, l’azione vera e propria, che comprende l’insegnamento, è inscindibile dalla riflessione sul tempo in cui essa si sviluppa. A fondare questo stile esistenziale e intellettuale è la convinzione che non ci si può improvvisare politici, che è necessario studiare per comprendere il mondo, per dare consapevolezza alla propria azione, cercando di restituire così alla politica un carattere qualitativo. Non a caso Vittorio Foa invitava chi è impegnato pubblicamente a leggere, informarsi, pensare, non per confermare visioni preconfezionate rispetto allesperienza, ma al fine di penetrare oltre limmediato accadere. In lui non cera alcuna traccia di erudizione, cioè di un sapere collezionistico fine a se stesso, tantomeno il culto del libro.

Tutto ciò è coerente con la tradizione di Giustizia e Libertà, il movimento antifascista fondato da Carlo e Nello Rosselli, e del quale Foa fece parte dal 1933, che sottolineava la necessità di unazione politica quale espressione di un costume morale e intellettuale. Un costume che in Vittorio consisteva nel non perdere di vista la realtà, nel rinnovare quotidianamente linteresse verso gli altri, da conoscere nella loro concretezza e individualità: gli altri non erano una categoria stereotipata, ma costituivano quello stesso mondo che esigeva di essere indagato e compreso. Si può pensare che questo modo di essere e di ragionare non fosse banalmente spontaneo, ma rappresentasse il tentativo continuo di rafforzare un movimento verso lesterno da sé che consente di limitare i rischi dellautocompiacimento e dellautoreferenzialità. Nellattenzione al mondo, nella ricerca continua della coerenza fra azione e parola e viceversa, emergeva così una concreta natura politica. Per questo motivo nel Cavallo e la torre Foa affermava di ritenere per certi versi limitante la sua formazione intellettuale, avvenuta negli anni del carcere fascista, a causa dellastrattezza dovuta tanto allisolamento, quanto alla costruzione di un professionismo politico, per quanto di altissimo livello[1]. Del resto sulla differenza fra la politica come tecnica e la politica come raccordo dellazione con lideale egli si è interrogato tutta la vita, poiché temeva la pratica esclusiva del tatticismo fine a stesso, che isterilisce la capacità di pensare e di agire. Che abbia cercato di salvaguardare lidea e la pratica di una politica alte lo dimostrano diversi episodi della sua esistenza, in particolare la scelta, nei difficili anni 70 del Novecento, di abbandonare per qualche tempo lattività sindacale e pubblica per tornare a praticare la politica come educazione, cioè a studiare e insegnare.  

             

        

La giovinezza: lo studio come azione politica 

 

Lo studio della storia rimanda alla formazione, dunque in modo particolare agli anni del carcere fascista. Dopo larresto, avvenuto nel 1935 a Torino, Foa fu condannato a 15 anni di reclusione dal Tribunale Speciale e restò in carcere fino allagosto 1943. Furono per la maggior parte anni di studio intenso e di discussioni appassionate con compagni di prigionia come Ernesto Rossi e Massimo Mila, persone che stimolavano il pensiero. Le letture comuni si concentrarono soprattutto sul diritto, sulleconomia, oltreché sulla storia, e trasformarono limpossibilità di occuparsi in modo diretto del presente e la limitazione causata dalla censura e dallautocensura, tipiche del carcere, nellopportunità di indagare la profondità temporale.





Della storia venne privilegiato lo studio del Risorgimento per più di una ragione. In primo luogo Vittorio, che era di origini ebraiche, aveva formato la sua identità di italiano sulle memorie dell’Italia ottocentesca, tanto più importanti da indagare quanto più il fascismo le umiliava. Il lento processo che portò gli ebrei della diaspora, dopo secolari discriminazioni, ad essere equiparati ai cittadini dei Paesi che li ospitavano ebbe, in Italia, il suo momento favorevole proprio nel Risorgimento, tanto che uno dei maggiori esponenti del pensiero politico del tempo, Carlo Cattaneo, fu autore anche del volume Le interdizioni israelitiche. Lo studio della storia risorgimentale assume così quasi la forma di un atto di fedeltà alla vera patria ‒ molto lontana da quella vantata dal fascismo e umiliata soprattutto dalle leggi razziali ‒ e alla migliore tradizione italiana, che si era posta come obiettivo la libertà e la giustizia. In tal senso lo studio della storia della prima Italia sembra evocare quel secondo Risorgimento di moralità contro il fascismo sottolineato nel 1927 da Ferruccio Parri, fondatore del Partito d’azione e guida del primo governo di unità antifascista nel 1945, durante il processo sulla fuga di Filippo Turati. In quell’occasione Parri dichiarò il suo rifiuto morale, prima ancora che politico, per il clima fascista intriso di ingiustizia, violenza, vuota retorica, ipocrisia: soltanto il recupero degli ideali ottocenteschi avrebbe reso possibile un secondo Risorgimento, non più di pochi, ma dell’intero popolo italiano. La via da seguire per i giellisti era non certo la propaganda, ma la politica come educazione, poiché non si trattava di imporre un pensiero ma di spingere gli individui a pensare.          

Un’altra ragione che muove Vittorio a esplorare le memorie risorgimentali è l’inevitabile confronto con i detenuti politici del secolo precedente considerati piagnucolosi, con l’unica eccezione di Felice Orsini, l’attentatore di Napoleone III, i cui ricordi «sulla prigionia di Mantova è scritto nella lettera dal carcere del 10 settembre 1937 sono splendidi appunto per quel dispregio che ostentava per tutte le indulgenze lacrimogene»[2]. La maggior parte dei detenuti politici ottocenteschi sono, infatti, privi di quellintransigenza che diventa invece per i detenuti antifascisti esempio morale e linea da adottare nei confronti del fascismo, nella quale riecheggia unintera tradizione politica che va dal giovane Gobetti al Salvemini di «non mollare». Interessante è che Vittorio ripensando alla sua vita si interroghi sulle possibili valenze dellintransigenza, a partire dal rischio di una visione ridotta e semplificata della realtà che il radicalismo può comportare[3]. Daltra parte non era possibile concepire compromessi con il potere fascista, pur nella consapevolezza che il fascismo era pienamente inserito nella continuità storica, tanto che nessuno poteva dirsi completamento estraneo a esso. Da una simile severità verso se stessi discende linsofferenza verso il piagnucolio in genere e dei detenuti politici ottocenteschi in particolare, anche se è difficile evitare di riconoscere che il comportamento intransigente, certamente necessario durante il fascismo, può diventare in altri contesti moralismo ed elitarismo. Lassenza di enfasi che caratterizza la valutazione del proprio comportamento è stata una caratteristica di Vittorio fin dalla giovinezza, un modo di essere che cerca di misurarsi sui fatti. Non è un caso che lo stesso Risorgimento venga studiato evitando qualsiasi tono agiografico, come risulta dalla lettera dal carcere del 16 agosto 1938[4], in cui si denuncia linconsistenza delle facili analogie fra periodi storici diversi e la necessità di riconoscere come le parole trasformino il loro significato con il trascorrere dei tempi.

 

 

La maturità: i nodi del fare la storia

 

Nella lunga e articolata attività politico-sindacale di Vittorio Foa si possono rintracciare alcuni nodi di riflessione e di azione che permangono costanti: si tratta del rapporto fra radicalismo e liberalismo e di quello fra realismo e moralità. Per comprendere le implicazioni del primo basta pensare al significato che ebbe per Vittorio ladesione a Giustizia e libertà prima, e al Partito dAzione poi. Nella tradizione azionista limpegno politico si indirizzava verso forme di democrazia basate sulla non delega, vale a dire sullautogoverno e sulla limitazione del potere centrale a vantaggio della periferia e della base. Era unimpostazione pragmatica che si esprimeva nella forma del movimento più che del partito, in una struttura organizzativa fondata non su unadesione ideologica ma sullimpegno pratico. Il Partito dazione trovò loccasione storica per la realizzazione del suo progetto nella Resistenza, dove il governo dal basso si confrontava e si intrecciava con quello centrale, secondo un progetto di democrazia il più possibile integrata. Nel 1944 Foa, usando lo pseudonimo di Carlo Inverni, aveva pubblicato, infatti, uno scritto sul ruolo che i partiti dovevano assumere nella nuova Italia, nel quale esortava il Comitato di Liberazione Nazionale, dunque i cinque partiti antifascisti che ne facevano parte, a non far dipendere le decisioni dal governo centrale e ufficiale: il futuro assetto dellItalia doveva essere definito, una volta concluso il processo di liberazione e in attesa delle elezioni, da un accordo fra la Resistenza e il governo in carica. Sempre in tal senso va considerata la Lettera aperta del Partito dazione al Comitato di Liberazione dellAlta Italia che Foa scrisse, sempre nel 1944, con Riccardo Lombardi e Altiero Spinelli nella quale si chiedeva una formale auto legittimazione del Comitato come soggetto di governo, sempre secondo la prospettiva di unintegrazione fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa.





Vittorio Foa durante un comizio sindacale


È ancora nella Resistenza che Vittorio Foa fece esperienza del rapporto fra la politica e il lavoro, nel senso che in quel momento il lavoratore si poneva come soggetto di trasformazione storica e, più in generale, di un progetto volto a correggere leconomia di mercato con il controllo e con lautonomia operaia, espressioni di una conquistata libertà, ma anche fattori di efficienza. Il fallimento del progetto resistenziale non portò Vittorio a rinunciare al suo progetto: limpegno sindirizzò soprattutto verso il sindacato che, in luogo dei consigli di fabbrica, divenne uno strumento della lotta operaia e, in generale, terreno dove esperienze autobiografiche diverse si fondevano nella difesa e promozione dellautonomia, intesa come potere di decisione su stessi. Il sindacato è infatti considerato come un mezzo volto tanto alla tutela del lavoro e dei suoi diritti, quanto alla proposta di ideali di trasformazione: nel Cavallo e la torre è affermato che il rapporto «fra tutela e  trasformazione, fra azione per la difesa immediata e azione per cambiare il contesto sociale e politico, è un rapporto stretto e irrinunciabile»[5]. Durante le fasi di debolezza vale però anche il processo inverso, e cioè che il sindacato cerchi, attraverso la contrattazione, la legittimazione dello Stato e delle imprese, piuttosto che la legittimazione dei lavoratori. Va da sé che questa idea del sindacato come punto di raccordo fra ideale e reale è vincolata alla capacità del sindacato stesso di farsi carico delle trasformazioni del lavoro, di comprenderle nelle loro specificità, senza rinserrarsi ad esempio nella difesa esclusiva e corporativa del lavoro tradizionale, dunque in una miopia politica e storica.

Proprio attraverso lazione sindacale così intesa è possibile comprendere anche la complessità del rapporto fra realismo e moralità, specchio peraltro di quello fra reale e ideale. Si tratta di una tensione senza fine, se si tiene conto delle contraddizioni e delle resistenze della realtà: ciò che sembra essere il cambiamento necessario e positivo difficilmente corrisponde a quello che è possibile realizzare, il moralismo va rifiutato in nome del realismo. A questo proposito è eloquente il caso Operti, dal nome dellintendente della IV Armata dissolta l8 settembre sullex fronte francese. Sempre nel Cavallo e la torre si racconta che il generale Operti aveva offerto la ricca cassa dellArmata, che rischiava di cadere in mani tedesche, al Comitato di Liberazione in cambio del comando della resistenza armata piemontese. Lautonomia del governo resistenziale impediva di accettare la proposta di Operti, ma il denaro dellArmata era paradossalmente strumento necessario per consolidare quella stessa autonomia. Gli azionisti piemontesi decisero di accettare la proposta di Operti, che versò il denaro ma non esercitò il comando neppure un giorno. Nonostante ciò, Foa scrive che quando «Mario Andreis e Aurelio Peccei andarono a Roma per discutere la situazione politico-militare e portarono, per la Resistenza romana, un podi soldi se li videro rifiutare con prediche moralistiche»[6].





Vittorio Foa (1910-2008)


Nel modo di agire di Vittorio erano chiari lintelligenza di intendere la realtà come un processo in atto e limmaginazione come strumento pratico, come capacità di vedere le possibilità di cambiamento. Al contrario la contemplazione di modelli politici prestabiliti appare segno di pigrizia mentale, di uninclinazione allautoinganno che porta a ingannare il prossimo e di unesperienza politica come fatale contrapposizione ripetitiva, che fraintende il rapporto fra azione e reazione e impedisce così la ricerca di un terreno diverso di confronto. Essere realista significava tanto sfruttare le fasi di cambiamento, per cercare di mutare i rapporti di forza nella società, quanto accettare la situazione impegnandosi per migliorarla: era un modo per evitare di porre lideale «fuori dellimpegno quotidiano, il futuro fuori del presente»[7]. Di qui la particolare attenzione allautonomia e alle esperienze, purtroppo minoritarie, del primo comunismo consigliare e ordinovista, del socialismo libertario e, in generale, delle espressioni democratiche dal basso.                                          

 

 

La vecchiaia: ripensare la propria vita, ripensare la storia                                     

 

La lunga vecchiaia di Foa si è espressa soprattutto nella scrittura. I numerosi libri e interventi di questo periodo intrecciano autobiografia e riflessione politica, del resto a Vittorio è stato chiaro, fin dalla giovinezza, che il suo destino personale si saldava con quello collettivo. Laltra peculiarità di tali scritti è la considerazione del passato in funzione del futuro, della ricerca di nuove opportunità, senza alcun cedimento alla vuota retorica e alla nostalgia.

Si può capire allora perché uno dei temi più presenti nella riflessione di questo periodo sia stato il progetto, che dà conto appunto di un preciso modo di intendere il rapporto fra passato, presente e futuro. Il progetto non è inteso come utopia, considerata un esito della cosiddetta cultura della crisi, un disegno globale astratto dalle tendenze reali e «una fuga nel futuro come esorcismo rispetto allimpotenza nel presente»[8]. Lo scarto fra il disegno, dunque le intenzioni, e il processo reale porta Foa a definire piuttosto il progetto come «un processo di verifica fattuale della complessità, un controllo democratico costruito sui fatti»[9]. Si tratta di una definizione comprensibile alla luce delleterogenesi dei fini, già presa in considerazione da Vico nella Scienza nuova seconda e ripensata da Vittorio, senza alcuna implicazione provvidenzialistica, come chiave di lettura storico-politica fondamentale, che permette di capire tanto le ragioni stesse del progetto, quanto la complessità del reale, irriducibile a schemi semplificatori, e insieme i limiti conoscitivi delluomo. Dal momento che si è consapevoli delleterogenesi dei fini, dunque dellimpossibilità di vedere realizzate appieno le proprie intenzioni, linsistenza sul progetto può avere lo scopo, ad esempio, di mobilitare gli individui e di innescare il cambiamento, pur sapendo che il disegno iniziale potrà fallire, o realizzarsi in maniera residuale, o ancora compiersi secondo modalità diverse da quelle ipotizzate. Nel possibile fallimento dei progetti c’è laspetto positivo dellemergere della complessità della realtà, che sfugge a ogni schematizzazione e dà conto dei limiti conoscitivi umani: se è indubbio che senza semplificazione diventa difficile agire, è altrettanto evidente che senza reintegrare la complessità è impossibile comprendere ciò che accade. È implicita in tutto ciò la critica a ogni forma di ideologia, vale a dire allassunzione del progetto come valore assoluto e alla concezione della politica come realizzazione di un disegno preordinato.

Va da sé che la riflessione sul progetto diventa inevitabilmente specchio delle memorie esistenziali: leterogenesi dei fini frena, infatti, tanto la ricostruzione autobiografica come progressivo sviluppo di una chiara potenzialità originaria, quanto la recriminazione rispetto ad aspettative che non si sono realizzate e vengono vissute come sconfitte. Di conseguenza è preso in considerazione tutto quello che non era stato previsto e, per certi versi, non poteva esserlo.





Fra i ricordi personali e, al tempo stesso, collettivi di Vittorio è particolarmente importante leterogenesi dei fini della Resistenza: il 1945 ha certamente liberato lItalia, ma non ha portato alla realizzazione della nuova democrazia progettata. In tal senso ripensare la Resistenza comporta molte domande, linterrogarsi, ad esempio, su quanto il postfascismo sia in continuità o meno con il fascismo, oppure sul rapporto fra i valori resistenziali e gli anni successivi alla Resistenza, che a questultima sono indissolubilmente legati. Questi interrogativi sono importanti non tanto per le possibili risposte che sollecitano (a supporto di risposte fra loro opposte al medesimo interrogativo sollevato in questo contesto si possono sostenere legittimamente infinite tesi), ma perché essi spingono a riflettere «sul mutamento nel tempo delle categorie analitiche di continuità oppure di rottura»[10]: i giudizi mutano e ciò che prima si presenta come rottura, poi si rivela come continuità. Per questo motivo il 1945 fu vissuto dai contemporanei come una rottura, mentre a una maggior distanza temporale è stato possibile vedere le sue continuità con il tempo prefascista, a partire dal fatto che i Comitati di Liberazione erano coalizioni di vecchi partiti.

È chiaro che la riflessione sulle continuità e sulle rotture fra prefascismo, fascismo e postfascismo implica specularmente linterrogativo sulle continuità e sulle rotture rispetto allantifascismo.  Foa non ha mancato di sottolineare come lantifascismo, che nasce come negazione del nazifascismo, diventa nella storia successiva difesa della Costituzione, della Repubblica e delle libertà elementari nei diversi tentativi del ritorno a una delega a chi comanda. Ma ancor di più lantifascismo ha continuato a vivere nella storia italiana come affermazione di una politica dotata di principi: sono quei principi molto concreti che Vittorio, ripensando la sua lunga vita, indica come caratterizzanti il suo modo di essere: «Oggi, per me, si è antifascisti quando si rispetta lAltro, quando se ne riconosce la legittimità nellatto stesso di contrastarlo e di combatterlo, quando non si pretende di distruggerlo e nemmeno di assimilarlo, cioè di ridurre il suo pensiero, la sua identità al nostro pensiero, alla nostra identità. Essere antifascista oggi significa per me rinunciare allegemonia, cioè a un esproprio soft della personalità altrui. Ma significa quindi anche resistere sempre, in modo intransigente, al dominio arbitrario di altri su noi stessi»[11].                                

                   

 

 



[1] V. Foa, Il cavallo e la torre, Einaudi, Torino, 1991, in particolare i capitoli II, III, V. 

[2]V. Foa, Lettere della giovinezza, a cura di F. Montevecchi, Einaudi, Torino, 1998, p. 283.

[3]V. Foa, Il cavallo e la torre, cit., pp.94-98.

[4]V. Foa, Lettere della giovinezza, cit., pp.460-62. 

[5] V. Foa, Il cavallo e la torre, cit., p. 240.

[6]Ibidem, p. 145. 

[7]Ibidem, p. 329. 

[8]Ibidem, p. 68. 

[9]Ibidem, p.162.

[10] Ibidem, p. 161.

[11]Ibidem, p. 167.




Scarica in formato pdf  


      
Sommario Primo Piano

Il contatore dei visitatori Shiny Stat è attivo da dicembre 2006