di Federica Montevecchi
Vittorio Foa ha studiato, scritto e
insegnato la storia italiana, ma soprattutto ne è stato protagonista, prima come
antifascista, poi come padre costituente, quindi come deputato e sindacalista.
Lo studio, l’azione, la
scrittura e l’insegnamento scandiscono, peraltro intrecciandosi fra loro, le
età principali della sua vita ‒ giovinezza, maturità e vecchiaia: se lo
studio e la scrittura della storia possono costituire un diverso modo di agire
e mai culto antiquario, l’azione vera e propria, che comprende l’insegnamento,
è inscindibile dalla
riflessione sul tempo in cui essa si sviluppa. A fondare questo stile
esistenziale e intellettuale è la convinzione che non ci si può
improvvisare politici,
che è necessario
studiare per comprendere il mondo, per dare consapevolezza alla propria azione,
cercando di restituire così alla politica un carattere qualitativo. Non a caso
Vittorio Foa invitava chi è impegnato pubblicamente a leggere, informarsi,
pensare, non per confermare visioni preconfezionate rispetto all’esperienza, ma al fine di penetrare
oltre l’immediato
accadere. In lui non c’era alcuna traccia di erudizione, cioè
di un sapere
collezionistico fine a se stesso, tantomeno il culto del libro.
Tutto ciò
è coerente con la
tradizione di Giustizia e Libertà, il movimento antifascista fondato
da Carlo e Nello Rosselli, e del quale Foa fece parte dal 1933, che
sottolineava la necessità di un’azione politica quale espressione di un costume morale e
intellettuale. Un costume che in Vittorio consisteva nel non perdere di vista
la realtà,
nel rinnovare quotidianamente l’interesse verso gli altri, da conoscere nella loro
concretezza e individualità: gli altri non erano una categoria stereotipata, ma
costituivano quello stesso mondo che esigeva di essere indagato e compreso. Si
può pensare
che questo modo di essere e di ragionare non fosse banalmente spontaneo, ma
rappresentasse il tentativo continuo di rafforzare un movimento verso l’esterno da sé
che consente di limitare
i rischi dell’autocompiacimento
e dell’autoreferenzialità. Nell’attenzione al mondo, nella ricerca
continua della coerenza fra azione e parola e viceversa, emergeva così
una concreta natura politica.
Per questo motivo nel Cavallo e la torre Foa affermava di ritenere per
certi versi limitante la sua formazione intellettuale, avvenuta negli anni del
carcere fascista, a causa dell’astrattezza dovuta tanto all’isolamento, quanto alla costruzione di
un professionismo politico, per quanto di altissimo livello[1]. Del resto
sulla differenza fra la politica come tecnica e la politica come raccordo dell’azione con l’ideale egli si è
interrogato tutta la
vita, poiché temeva
la pratica esclusiva del tatticismo fine a stesso, che isterilisce la capacità
di pensare e di agire.
Che abbia cercato di salvaguardare l’idea e la pratica di una politica
alte lo dimostrano diversi episodi della sua esistenza, in particolare la
scelta, nei difficili anni ’70 del Novecento, di abbandonare per qualche tempo l’attività sindacale e pubblica per tornare a
praticare la politica come educazione, cioè a studiare e insegnare.
La giovinezza: lo
studio come azione politica
Lo studio della storia rimanda alla
formazione, dunque in modo particolare agli anni del carcere fascista. Dopo l’arresto, avvenuto nel 1935 a Torino,
Foa fu condannato a 15 anni di reclusione dal Tribunale Speciale e restò
in carcere fino all’agosto 1943. Furono per la maggior parte
anni di studio intenso e di discussioni appassionate con compagni di prigionia
come Ernesto Rossi e Massimo Mila, persone che stimolavano il pensiero. Le
letture comuni si concentrarono soprattutto sul diritto, sull’economia, oltreché
sulla storia, e
trasformarono l’impossibilità di occuparsi in modo diretto del presente e la
limitazione causata dalla censura e dall’autocensura, tipiche del carcere,
nell’opportunità
di indagare la profondità
temporale.
Della storia venne privilegiato lo studio del Risorgimento per più
di una ragione. In primo luogo Vittorio, che era di origini ebraiche, aveva
formato la sua identità di italiano sulle memorie dell’Italia ottocentesca,
tanto più importanti da indagare quanto più il fascismo le umiliava. Il lento
processo che portò gli ebrei della diaspora, dopo secolari discriminazioni, ad
essere equiparati ai cittadini dei Paesi che li ospitavano ebbe, in Italia, il
suo momento favorevole proprio nel Risorgimento, tanto che uno dei maggiori
esponenti del pensiero politico del tempo, Carlo Cattaneo, fu autore anche del
volume Le interdizioni israelitiche. Lo studio della storia risorgimentale assume così quasi la forma di un atto
di fedeltà alla vera patria ‒ molto lontana da quella vantata dal
fascismo e umiliata soprattutto dalle leggi razziali ‒ e alla migliore tradizione italiana,
che si era posta come obiettivo la libertà e la giustizia. In tal senso lo studio della storia della prima Italia sembra
evocare quel secondo Risorgimento di moralità contro il fascismo sottolineato
nel 1927 da Ferruccio Parri, fondatore del Partito d’azione e guida del primo
governo di unità antifascista nel 1945, durante il processo sulla fuga di
Filippo Turati. In quell’occasione Parri dichiarò il suo rifiuto morale, prima
ancora che politico, per il clima fascista intriso di ingiustizia, violenza,
vuota retorica, ipocrisia: soltanto il recupero degli ideali ottocenteschi
avrebbe reso possibile un secondo Risorgimento, non più di pochi, ma
dell’intero popolo italiano. La via da seguire per i giellisti era non certo la
propaganda, ma la politica come educazione, poiché non si trattava di imporre
un pensiero ma di spingere gli individui a pensare.
Un’altra ragione che muove Vittorio a
esplorare le memorie risorgimentali è l’inevitabile confronto con i detenuti
politici del secolo precedente considerati piagnucolosi, con l’unica eccezione
di Felice Orsini, l’attentatore di Napoleone III, i cui ricordi «sulla
prigionia di Mantova ‒ è scritto nella lettera dal carcere del 10 settembre 1937 ‒
sono splendidi
appunto per quel dispregio che ostentava per tutte le indulgenze lacrimogene»[2]. La maggior parte dei detenuti
politici ottocenteschi sono, infatti, privi di quell’intransigenza che diventa invece per
i detenuti antifascisti esempio morale e linea da adottare nei confronti del
fascismo, nella quale riecheggia un’intera tradizione politica che va dal
giovane Gobetti al Salvemini di «non mollare». Interessante è
che Vittorio ripensando
alla sua vita si interroghi sulle possibili valenze dell’intransigenza, a partire dal rischio
di una visione ridotta e semplificata della realtà che il radicalismo può
comportare[3]. D’altra parte non era possibile
concepire compromessi con il potere fascista, pur nella consapevolezza che il
fascismo era pienamente inserito nella continuità storica, tanto che nessuno poteva
dirsi completamento estraneo a esso. Da una simile severità
verso se stessi discende
l’insofferenza
verso il piagnucolio in genere e dei detenuti politici ottocenteschi in
particolare, anche se è difficile evitare di riconoscere che il comportamento
intransigente, certamente necessario durante il fascismo, può
diventare in altri
contesti moralismo ed elitarismo. L’assenza di enfasi che caratterizza la
valutazione del proprio comportamento è stata una caratteristica di Vittorio
fin dalla giovinezza, un modo di essere che cerca di misurarsi sui fatti. Non è
un caso che lo stesso
Risorgimento venga studiato evitando qualsiasi tono agiografico, come risulta
dalla lettera dal carcere del 16 agosto 1938[4], in cui si
denuncia l’inconsistenza
delle facili analogie fra periodi storici diversi e la necessità
di riconoscere come le
parole trasformino il loro significato con il trascorrere dei tempi.
La maturità: i nodi del fare la storia
Nella lunga e articolata attività
politico-sindacale di
Vittorio Foa si possono rintracciare alcuni nodi di riflessione e di azione che
permangono costanti: si tratta del rapporto fra radicalismo e liberalismo e di
quello fra realismo e moralità. Per comprendere le implicazioni del primo basta
pensare al significato che ebbe per Vittorio l’adesione a Giustizia e libertà
prima, e al Partito d’Azione poi. Nella tradizione
azionista l’impegno
politico si indirizzava verso forme di democrazia basate sulla non delega, vale
a dire sull’autogoverno
e sulla limitazione del potere centrale a vantaggio della periferia e della
base. Era un’impostazione
pragmatica che si esprimeva nella forma del movimento più
che del partito, in una
struttura organizzativa fondata non su un’adesione ideologica ma sull’impegno pratico. Il Partito d’azione trovò
l’occasione storica per la
realizzazione del suo progetto nella Resistenza, dove il governo dal basso si
confrontava e si intrecciava con quello centrale, secondo un progetto di
democrazia il più possibile integrata. Nel 1944 Foa, usando lo pseudonimo di
Carlo Inverni, aveva pubblicato, infatti, uno scritto sul ruolo che i partiti
dovevano assumere nella nuova Italia, nel quale esortava il Comitato di
Liberazione Nazionale, dunque i cinque partiti antifascisti che ne facevano
parte, a non far dipendere le decisioni dal governo centrale e ufficiale: il
futuro assetto dell’Italia doveva essere definito, una volta concluso il processo
di liberazione e in attesa delle elezioni, da un accordo fra la Resistenza e il
governo in carica. Sempre in tal senso va considerata la Lettera aperta del
Partito d’azione al Comitato di Liberazione dell’Alta Italia che Foa scrisse, sempre
nel 1944, con Riccardo Lombardi e Altiero Spinelli nella quale si chiedeva una
formale auto legittimazione del Comitato come soggetto di governo, sempre
secondo la prospettiva di un’integrazione fra democrazia diretta e democrazia
rappresentativa.
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Vittorio Foa durante un comizio sindacale
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È
ancora nella Resistenza
che Vittorio Foa fece esperienza del rapporto fra la politica e il lavoro, nel
senso che in quel momento il lavoratore si poneva come soggetto di
trasformazione storica e, più in generale, di un progetto volto a correggere l’economia di mercato con il controllo
e con l’autonomia
operaia, espressioni di una conquistata libertà, ma anche fattori di efficienza. Il
fallimento del progetto resistenziale non portò Vittorio a rinunciare al suo
progetto: l’impegno
s’indirizzò
soprattutto verso il
sindacato che, in luogo dei consigli di fabbrica, divenne uno strumento della
lotta operaia e, in generale, terreno dove esperienze autobiografiche diverse
si fondevano nella difesa e promozione dell’autonomia, intesa come potere di
decisione su stessi. Il sindacato è infatti considerato come un mezzo
volto tanto alla tutela del lavoro e dei suoi diritti, quanto alla proposta di
ideali di trasformazione: nel Cavallo e la torre è
affermato che il
rapporto «fra
tutela e trasformazione, fra azione per
la difesa immediata e azione per cambiare il contesto sociale e politico, è
un rapporto stretto e
irrinunciabile»[5]. Durante le fasi di debolezza vale
però anche
il processo inverso, e cioè che il sindacato cerchi, attraverso la contrattazione,
la legittimazione dello Stato e delle imprese, piuttosto che la legittimazione
dei lavoratori. Va da sé che questa idea del sindacato come punto di raccordo fra
ideale e reale è vincolata alla capacità del sindacato stesso di farsi carico
delle trasformazioni del lavoro, di comprenderle nelle loro specificità, senza rinserrarsi ad esempio nella
difesa esclusiva e corporativa del lavoro tradizionale, dunque in una miopia
politica e storica.
Proprio attraverso l’azione sindacale così
intesa è
possibile comprendere
anche la complessità del rapporto fra realismo e moralità, specchio peraltro di quello fra
reale e ideale. Si tratta di una tensione senza fine, se si tiene conto delle
contraddizioni e delle resistenze della realtà: ciò che sembra essere il cambiamento
necessario e positivo difficilmente corrisponde a quello che è
possibile realizzare, il
moralismo va rifiutato in nome del realismo. A questo proposito è
eloquente il caso
Operti, dal nome dell’intendente della IV Armata dissolta l’8 settembre sull’ex fronte francese. Sempre nel Cavallo
e la torre si racconta che il generale Operti aveva offerto la ricca cassa
dell’Armata,
che rischiava di cadere in mani tedesche, al Comitato di Liberazione in cambio
del comando della resistenza armata piemontese. L’autonomia del governo resistenziale
impediva di accettare la proposta di Operti, ma il denaro dell’Armata era paradossalmente strumento
necessario per consolidare quella stessa autonomia. Gli azionisti piemontesi
decisero di accettare la proposta di Operti, che versò
il denaro ma non esercitò
il comando neppure un
giorno. Nonostante ciò, Foa scrive che quando «Mario Andreis e Aurelio Peccei
andarono a Roma per discutere la situazione politico-militare e portarono, per
la Resistenza romana, un po’ di soldi se li videro rifiutare con prediche
moralistiche»[6].
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Vittorio Foa (1910-2008)
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Nel modo di agire di Vittorio erano chiari
l’intelligenza
di intendere la realtà come un processo in atto e l’immaginazione come strumento pratico,
come capacità di
vedere le possibilità di cambiamento. Al contrario la contemplazione di modelli
politici prestabiliti appare segno di pigrizia mentale, di un’inclinazione all’autoinganno che porta a ingannare il
prossimo e di un’esperienza politica come fatale contrapposizione ripetitiva,
che fraintende il rapporto fra azione e reazione e impedisce così
la ricerca di un terreno
diverso di confronto. Essere realista significava tanto sfruttare le fasi di
cambiamento, per cercare di mutare i rapporti di forza nella società, quanto accettare la situazione
impegnandosi per migliorarla: era un modo per evitare di porre l’ideale «fuori dell’impegno quotidiano, il futuro fuori
del presente»[7]. Di qui la particolare attenzione
all’autonomia
e alle esperienze, purtroppo minoritarie, del primo comunismo consigliare e
ordinovista, del socialismo libertario e, in generale, delle espressioni
democratiche dal basso.
La vecchiaia:
ripensare la propria vita, ripensare la storia
La lunga vecchiaia di Foa si è
espressa soprattutto
nella scrittura. I numerosi libri e interventi di questo periodo intrecciano
autobiografia e riflessione politica, del resto a Vittorio è
stato chiaro, fin dalla
giovinezza, che il suo destino personale si saldava con quello collettivo. L’altra peculiarità
di tali scritti è
la considerazione del
passato in funzione del futuro, della ricerca di nuove opportunità, senza alcun cedimento alla vuota
retorica e alla nostalgia.
Si può capire allora perché
uno dei temi più
presenti nella
riflessione di questo periodo sia stato il progetto, che dà
conto appunto di un preciso
modo di intendere il rapporto fra passato, presente e futuro. Il progetto non è
inteso come utopia,
considerata un esito della cosiddetta cultura della crisi, un disegno globale
astratto dalle tendenze reali e «una fuga nel futuro come esorcismo
rispetto all’impotenza
nel presente»[8]. Lo scarto fra il disegno, dunque le
intenzioni, e il processo reale porta Foa a definire piuttosto il progetto come
«un
processo di verifica fattuale della complessità, un controllo democratico costruito
sui fatti»[9]. Si tratta di una definizione
comprensibile alla luce dell’eterogenesi dei fini, già presa in considerazione da Vico nella
Scienza nuova seconda e ripensata da Vittorio, senza alcuna implicazione
provvidenzialistica, come chiave di lettura storico-politica fondamentale, che
permette di capire tanto le ragioni stesse del progetto, quanto la complessità
del reale, irriducibile
a schemi semplificatori, e insieme i limiti conoscitivi dell’uomo. Dal momento che si è
consapevoli dell’eterogenesi dei fini, dunque dell’impossibilità
di vedere realizzate
appieno le proprie intenzioni, l’insistenza sul progetto può
avere lo scopo, ad
esempio, di mobilitare gli individui e di innescare il cambiamento, pur sapendo
che il disegno iniziale potrà fallire, o realizzarsi in maniera residuale, o ancora
compiersi secondo modalità diverse da quelle ipotizzate. Nel possibile fallimento dei
progetti c’è l’aspetto positivo dell’emergere della complessità
della realtà, che sfugge a ogni schematizzazione
e dà conto
dei limiti conoscitivi umani: se è indubbio che senza semplificazione
diventa difficile agire, è altrettanto evidente che senza reintegrare la complessità
è impossibile
comprendere ciò che
accade. È implicita
in tutto ciò la
critica a ogni forma di ideologia, vale a dire all’assunzione del progetto come valore
assoluto e alla concezione della politica come realizzazione di un disegno
preordinato.
Va da sé che la riflessione sul progetto
diventa inevitabilmente specchio delle memorie esistenziali: l’eterogenesi dei fini frena, infatti,
tanto la ricostruzione autobiografica come progressivo sviluppo di una chiara
potenzialità originaria,
quanto la recriminazione rispetto ad aspettative che non si sono realizzate e
vengono vissute come sconfitte. Di conseguenza è preso in considerazione tutto quello
che non era stato previsto e, per certi versi, non poteva esserlo.
Fra i ricordi personali e, al tempo
stesso, collettivi di Vittorio è particolarmente importante l’eterogenesi dei fini della
Resistenza: il 1945 ha certamente liberato l’Italia, ma non ha portato alla
realizzazione della nuova democrazia progettata. In tal senso ripensare la
Resistenza comporta molte domande, l’interrogarsi, ad esempio, su quanto
il postfascismo sia in continuità o meno con il fascismo, oppure sul
rapporto fra i valori resistenziali e gli anni successivi alla Resistenza, che
a quest’ultima
sono indissolubilmente legati. Questi interrogativi sono importanti non tanto
per le possibili risposte che sollecitano (a supporto di risposte fra loro
opposte al medesimo interrogativo sollevato in questo contesto si possono
sostenere legittimamente infinite tesi), ma perché essi spingono a riflettere «sul mutamento nel tempo delle
categorie analitiche di continuità oppure di rottura»[10]: i giudizi mutano e ciò
che prima si presenta
come rottura, poi si rivela come continuità. Per questo motivo il 1945 fu
vissuto dai contemporanei come una rottura, mentre a una maggior distanza
temporale è stato
possibile vedere le sue continuità con il tempo prefascista, a partire dal
fatto che i Comitati di Liberazione erano coalizioni di vecchi partiti.
È
chiaro che la
riflessione sulle continuità e sulle rotture fra prefascismo, fascismo e
postfascismo implica specularmente l’interrogativo sulle continuità
e sulle rotture rispetto
all’antifascismo. Foa non ha mancato di sottolineare come l’antifascismo, che nasce come
negazione del nazifascismo, diventa nella storia successiva difesa della
Costituzione, della Repubblica e delle libertà elementari nei diversi tentativi del
ritorno a una delega a chi comanda. Ma ancor di più
l’antifascismo ha continuato a vivere
nella storia italiana come affermazione di una politica dotata di principi:
sono quei principi molto concreti che Vittorio, ripensando la sua lunga vita,
indica come caratterizzanti il suo modo di essere: «Oggi, per me, si è
antifascisti quando si
rispetta l’Altro,
quando se ne riconosce la legittimità nell’atto stesso di contrastarlo e di
combatterlo, quando non si pretende di distruggerlo e nemmeno di assimilarlo,
cioè di
ridurre il suo pensiero, la sua identità al nostro pensiero, alla nostra
identità.
Essere antifascista oggi significa per me rinunciare all’egemonia, cioè
a un esproprio soft
della personalità altrui. Ma significa quindi anche resistere sempre, in modo
intransigente, al dominio arbitrario di altri su noi stessi»[11].