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di Marzio Pieri
Mi
sa d’avere un conto aperto con Leopardi. Chi si confessa gode. Per il recente
film di Martone sto, fino a prova contraria, in sospensione fra appassionati
giudizî negativi e imbarazzate difese per l’onore della bandiera. Propendendo,
lo ammetto, per i primi, ché pesa a carico di un così eccellente direttore di
teatro, ahi, per me lo scontento in cui mi lasciò quella sua evocazione della
parabola risorgimentale, Noi credevamo,
troppo eloquente e troppo elusiva insieme. Martone, aver creduto non assolve;
non è più epoca da Fratelli Taviani (Allonsanfan), del resto più poetici e strazianti, in quanto de re sua agitur.
Si tratta di una cosa scritta sulla loro pelle. Quando il protagonista del
bellissimo, quello sì!, San Michele aveva un gallo si lascia andare nella laguna, è proprio
come quando (dicevano i professori di un tempo, aspettandosi l’applauso) Ugo
uccide Jacopo Ortis per poter sottentrargli diverso.

Non
fu cosa facile scoprirmi ridestato dalla mia ammirazione per il commosso Teatro di guerra. Vedo che si era nel
lontanissimo 1998. Diobono non avevo sessant’anni.
Sarà che le guerre ormai ci sono entrate nel televisore. Ma in Teatro di guerra Martone parlava di sé,
della propria realtà d’intellettuale teatrante, della viva esperienza di
tradurre, su tavole di palcoscenico sempre comunque memori di una antica
nascita funzionale (ségnica) e arditamente
artigianale, le cose ‘reali’ nella cosa ‘in sé’. Da giovane amai il teatro
quanto e più della poesia; con la mia sottocultura di liceale fieramente (e necessitatamente) autodidatta. Nessuno, in realtà, a scuola
ce ne aveva parlato; medesimo silenzio che sulla musica. Forse anche peggio,
perché Eschilo alla fine era usato come un serbatojo
grammaticale, le prove teatrali dell’Ariosto erano traversate di sfuggita (come
le bande dei turisti al Museo) quali applicazione ‘scritta’ di ricette latine
(del patto fra Ludovico da Reggio Emilia e l’arte della, diciamo oggi,
messinscena o regìa, qualcosa diceva, con entusiasmo comunicativo,
l’indimenticabile ferrarese Caretti, e ci avrebbe alla fine aperto gli occhi a
360° la memoranda impresa innovativa dell’Orlando
‘in piazza’ squadernato da Sanguineti e Ronconi come un gigante carciofo).
Perché eccezioni come Federigo della Valle, manierista biblicheggiante
proto barocco, sortissero dal carcere di qualche, viva e sviante, definizione
crociana, ci volle il sangue e lo sperma versati dal bracciante Testori.
Adelchi, senza venire meno alle volontà espresse dal timido Autore, era ridotto
ai due celebri cori e additato come maiuscola riuscita letteraria, come del
resto, e qui venendo meno alle indicazioni e alla pratica autoriale, si era
fatto con la tragedia di Vittorio Alfieri. Goldoni piaceva perché ‘realista’ e
antibarocco (da poco si era letto, ma sui rotocalchi, della paradossale
riscoperta strehleriana del Goldoni ‘delle
maschere’), si taceva del Gozzi. Arrivati a Pirandello, poco osservante della
austera e in fondo argutamente futile scacchiera ideologica crociana, quasi
pareva dover chiedere scusa al Mondo. Che intanto se n’era appropriato e lo
teneva stretto. Non è un lamento (‘a scuola siamo arrivati al Botticelli…’) e
non un vanto (‘a colpi di piccozza ma ho letto tutti libri’), bensì un
rendimento di grazie alla provvidenza. La quale, a norma manzoniana, ‘la c’è’. Il neotoscanismo bécero dell’Era Renziana renderà
testo d’obbligo, di nuovo, il Manzoni, il cui fulgore d’un tempo parrebbe oggi
decisamente velato, o il Palazzeschi ‘mediano’? Sai le palpitazioni di queste fanciullette che, pena la vergogna, la dànno via a tredici
anni (‘dov’Ercole segnò li suoi riguardi’), a pensare che ‘quel signore’ vuol
togliere l’incomodo alla casta e poco invogliante villanotta
del lago di Lecco, ma solo per vincere una scommessa zuzzurellona. “L’onore! …
dove diamin l’ha posto umano errore” (il Conte di Almaviva delle Nozze
di Figaro, che nella versione originaria di Caron
de Beaumarchais il Manzoni conosceva benissimo senza averne capito un K).
Allora Palazzeschi? andrebbe bene per cremosissime letture gay, ma, ahimè, ride
e fa ridere, temo non si concilij coi programmi
ministeriali. Forse, benissimo pagato, Camilleri (dal riso televisionisticamente
autorizzato), sarebbe disposto a fornire in esclusiva e su commissione il
classico ‘in buon toscano moderno’ per la durata della legislatura. Il grillo antigrillo toscano può saltare, se non sfiorisce con troppe
docilissime ministre, per altri 50 anni, uso Napolitano. “La c’è la
Provvidenza”. Benigni tutto parolacce, Umberto-eco fa venire le barbe anche
alle unghie degli àlluci, mica ci sarà poi tanto da
scegliere.
“Qui-rramo de-illago scaffaiuolo, miseria bu’ajuola-bu’ajuolissima,
’he da un pezzo e’ nun vede
più una ’harpa, tu cci sta’ ungiorno
a bu’ho ritto e ’un tu-ttiri
sùpiù nean’he una scalpa,
<O Boschi, e’ gli dissi, ’un tu-ppotresti mi’ha’ndare unpò più’nlà, ’he tu-mmi fa ombra,
accidentatté, e s’er pesce
mi-tira, e cche l’ha’ visto nini, l’ha ’isto te?>
<Io tiràr’unn’ò visto nulladinulla,
guarda è meglio stia zitta, ’he son bbona fanciulla>. <O grullerella,
’un tu-mme li vuo’ mica fa’
ggirare?> <Batti batti,
bel Renzetto, la tu’ pòhera
zirlina…> <Zitta zitta,
’he c’è!> <C’èèè?...> <Nòeee… l’è
un barattolo vòto di nuthella…>
<La c’è la provvidenza anche pe’ pesci…> <O-ttu
la pianti o di qui te ’un tu-nn’esci…>”
Sono
aperte le sottoscrizioni su Amazon per quando i’ ccapolavoro
sortirà.

Intanto,
ed è lieta sorpresa, “Fermenti” di Velio Carratoni
stampa una nuova edizione, in gran parte rifatta di pianta, di un vecchio,
ottimo libro universitario, il Leopardi.
La cognizione del vero (già Il
socialismo della Ginestra, Poggibonzi, Lalli, 1987) di un sottile e lieto ‘descrittore di
descrittori’ (cito quasi uno dei pochi Pasolini davvero indispensabili, benché
o perché uscito postumo), il nostro amico Nino Borsellino. Intanto, per
riallacciarmi allo spunto di sopra, sul teatro, Borsellino è andato in
evidente, clamorosa controtendenza, dico negli usi e costumi della letteratura
garantita dall’accademia (la storia di Borsellino ci garantisce che non tutti,
in accademia, han trasformato l’utile mestiere in qualcosa che sta fra il
turismo, la diplomazia, la massoneria, e qualche cacata carta giornalistica).
L’interesse per la cosa teatrale in lui pareggia, se non forse anche
quantitativamente supera, quello per la letteratura cartacea: ero ai primi
esami universitarî e si vide sui banchi di libreria
il primo volume del prezioso dittico feltrinelliano Commedie del Cinquecento. Anche allora
certi editori se la prendevano comoda: ‘tarde non furon
mai gratie diuine!’ (così il secondo dei due volumi uscì non prima del 1967) ||
nei cinque anni passati mi ero laureato, con ritardo che sgomentò la famigliola
d’origine che mi pagava gli studî e si trovava a impreviste gabelle per un figliuol
fuori-corso (vergogna, vergogna per tutta la stirpe sull’Arno), m’ero
pompeggiato un anno nella divisa di ufficialetto ‘a terra’
dell’AArs (arma aeronautica ruolo servizî), avevo
preso moglie, messo al mondo un bambino e, alla fine dell’anno medesimo,
appreso che già n’era in arrivo un altro. Che fu una bambina. || Insegnavo alle
medie di Pistoja (mezz’ora d’autostrada in torpedone,
mi si incollava un giudice inebetito e particolareggiava con occhi a strabuzzo
e labbra piene di saliva gialla delle fucilazioni e perversioni diverse
esercitate su partigiane dai comunisti nella resistenza, ‘cartuccesplosive
nelle pudenda… néllepu-dènda… un adònio…
[─˘˘─–] tàttata-tàtta [pòrcami-seria] e io mi dicevo: ‘su che ginocchia stiamo’,
senza avere l’impudicizia di fissargli-dritto la patta [─˘˘─–]
dei pantaloni lisi) e non sognavo d’università. La borsa di studio parmigiana
fu quasi un gavettone: prendere o lasciare ‘entro domattina alle 8’ (erano già
le 19 del giorno prima). Mi tentò l’avventura e ne seguì un decennio di
privazioni (per i miei bambini, solo per loro mi dispiaceva e per gli stenti
che costava a mia moglie tenere insieme i chiodi della baracchetta), di
smarrita educazione a un ambiente che non mi aspettavo (prima lo choc di non
sentirmi all’altezza, poi la disillusione amarissima, il desengaño
franoso, di vedermi fra genti mediamente ignoranti, cultrici d’un unico
orticello d’elezione, un mucchio poco selvaggio di seconda o terza scelta ma
inamovibile, che mi elessero sùbito come un compagno troppo scomodo per
tenerselo stretto), mi ci ammalai di brutto, poi mi trovai sbalzato in prima
fascia (!) per un concorso a cattedra richiesto a mio sfavore e a mia totale
insaputa. Un baronetto di quaranta anni, come le Capitaine de quinze ans
di Jules Verne, uscito tradotto in Italia fin dall’anno della prima sortita
francese, nel 1878. Le ossa del 7° Cavalleria biancheggiavano da due anni fra
le erbe dei Monti Neri (le Black Hills,
per il nostro geniale imbroglione Emilio Salgàri).

I
capricci della sorte (Rossini), le ‘peripetie di
Fortuna’ di un Camilleri bolognese (nel Seicento), Giovan
Battista Manzini. Ma anche ‘CHI LA FA L’ASPETTI’; non interessa come il
lebbroso di ieri sarebbe, senza averlo minimamente progettato o preteso,
divenuto poi addirittura direttore di quel convento, che per allora Institutus Philologiae Nostrorum Temporum nuncupabatur.
Fra anda e rianda, preso in
un giro di lunapark infernale, fra una dimissione
forzata e una voluta, fra raggiri e infide prove d’amicizia, solo come un cane
vi spesi vent’anni. “Le mie prigioni…” – ecché, me cojoni.
La
linea teatrale di Borsellino incontra il Cinquecento (Rozzi e Intronati come
intermezzo significativo, la Pastorale come linea umanistica che traversa
l’Europa) fino alla conclusione piucche anticlassica
del miracoloso Candelajo del Bruno, più avanti s’inoltrerà nel
mondo di Pirandello (questo professore arguto e buono ─ a volte per
esprimere il vero si risulta nel dire goffi ─, nulla massimalista e non
nevrotico, diresse la “Rivista di Studî Pirandelliani” e fu sempre ottimo amico
di uno dei padri della scuola teatrale universitaria italiana, il valentissimo
Federico Doglio, che diede solidità di testi scavati al fantasma retorico del
‘teatro tragico italiano’). Una volta, tornando da un
mio sudatissimo seminario alla “Sapienza” (suo secondo o terzo invito in quella
cattedrale di leoni, che aveva assistito nel novembre del 1966 allo sparagma del Pieri laureando, disfatto ma non arreso e i
commissarî, ignari, non si capacitavano), gli dissi in macchina: ‘sei la
persona che conosco più simile a Pirandello’. Lui rise, in fondo io (che pure
so che, per nascita, il nostro Nino venne di Calabria) mi ostino a pensarlo
come un siciliano. A casa, ci aspettava (lui, mia moglie e me) la straordinaria
Maria De Lorenzo, maga di fuoco e di acque, poetessa che ammiro da quando ne
lessi i versi (rari, studiati e pieni di misteriosa saggezza) la prima volta e
che pur non so pensare, dentro di me, come una poetessa. Stava ai poeti come a
una buona Ford starebbe un’astronave. Ora è morta ma non lo so pensare.
Anche
uscendo dalla produzione teatrale stricto sensu, Borsellino non si allontana dal ripensare la
storia letteraria sotto una ipotesi di scrittura ‘che potrebbe anche essere
teatro’, fin dall’esempio primario della Commedia
di Dante: la Tradizione del Comico
(letteratura e teatro da Dante al Belli) (Garzanti, Saggi Blu, 1989); Sipario dantesco (sei scenarî della
Commedia). Ultimo sigillo da infrangere: è novecentista dei più autorevoli e
provveduti. Una volta, sul chiudere un panorama del secolo in vista ormai del
fatale 2000 (crisi e guerre, guerre e crisi, ma come nel secolo prima e anche
nei secoli prima, i contadini di Verdi morivano di pellagra, Hugo scriveva il
vero capolavoro del romanzo storico e lo intitolava Les Misérables, la Beresina
anticipa Stalingrado, Sédan vale ai francesi quel che
a noi valse e non so se valga ancora Caporetto, non c’irragnateliamo
nel cervello dei giornalisti, bisognosi di punti d’appoggio vistosi, come
quegli antichissimi clienti del bordello che per eccitarsi ambivano vedere, poi
gli riusciva inutile, ‘l’origine del mondo’. || Era
più onesta la “Moderna Enciclopedia” di cui collezionai le figurine (qualche
centinaio) quando ero paggio di terza elementare e stupivo i maestri
pronunciando l’augusto nome di Urbano Rattazzi vedevo
le loro fronti aggrottarsi a ripassare ‘la storia’ ||, quella volta di dodici
righe più sopra, Borsellino lanciò un sasso in piccionaja
augurando un cambio di marcia, nel rapporto letteratura: società dei lettori,
da intravedersi nel romanziere di tanto esplodente successo. Macari iddu,
anche lui, mi dissi; e, dentro di me, gli tenevo quasi il broncio. Ma oggi
penso che il vulcanico autore di Porto Empedocle sia ben considerabile un Salgàri un poco diverso. Montalbano il suo Sandokan, il Re di Girgenti un D’Arrigo o anche un
Consolo ‘per i poveri’, e ce ne sono tanti, oggi, come non mai si pensa a
trovarcisi in mezzo, peccato sia tanto consapevole di riuscire simpatico,
perfino la sua immagine oscilli fra le foto di Scalfaro e quelle di Re Giorgio,
peccato. Ma diresse la sua prima regìa teatrale quando io avevo due anni. Se
non vi gira la testa… Né di lui si può dire che (scommetto ci avrà anche i suoi
‘negri’, come gli aiuto-registi in teatro) che abbia lasciato alcunché
d’intentato per rompere l’assedio in cui stava lasciandosi morire lo scrivere
d’arte. Intendo per categoria: opposta alle scritture utilitarie.
Dicevo,
più sopra, di Urbano Rattazzi; non il conte marito di
Susanna Agnelli, “vestivamo alla marinara”, ma il politico sabaudo del Connubio
con Cavour, suo storico avversario, della soppressione dei beni ecclesiastici,
donde l’odio teologico dei clericali che ha contribuito a cancellarne memoria,
delle oscillazioni fra cuore e diplomazia che portarono alla sparatoria di
Aspromonte, presidente della Camera quasi a vita, primo ministro solo pochi mesi.
Inventore dal 1849 del primo “Centro sinistra”. Lèggine
la schedina su Wikipedia e ti pare di essere oggi. Ci siamo liberati di papa
Giorgione e già pare di esserne orfani.
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Nino Borsellino
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Il
Leopardi rinato di Borsellino è come
un volo d’aria in una stanza affossata da penombre ed afrori. Il saggio
equilibrato sul socialismo o sansimonismo della Ginestra è come un colpo di lancetta chirurgica in un corpaccione
resosi apoplettico. Fui allievo di Walter Binni,
forse il più autorevole leopardista della sua generazione. Binni
era un critico nato, guastato dalla politica senza padroneggiarla (era un
aristocratico a giusto disagio nei meandri dei gruppi, gruppuscoli e frange dei
cupidi rerum novarum)
e imbarazzantemente predisposto a discorsi di
circostanza, commemorazioni (Gandhi, Momigliano, Capitini,
lo studente Paolo Rossi vittima accidentale di uno spintone) e lapidi. Quella
per Aldo Capitini, l’amico e maestro più bello in una
biografia ricca d’incontri al vertice e di onori come il più invidiato
panettone, testimonia in un colpo generosità d’ideali e goffaggine di stile. Si
era fatti per amarci (quando arrivai alla Accademia di Pozzuoli per i tre mesi
da allievo ufficialetto la prima lettera che mi arrivò fu quella, inaspettata e
generosissima, del Maestro col quale tardavo a laurearmi, purtroppo macerata da
acque e torba nell’alluvione fiorentina del ’66) e per non intenderci. Forse
peccavo di orotunditade ma scalpitavo come giacomino rispetto all’argenteo-senzargenti
monaldo. Si sa che si vollero bene e che se eccessi
(voglia Iddio soltanto verbali) ci furono, risalgono al geniale ragazzaccio. Infame infamissimo scelleratissimo libro,
sozzi fanatici dialogacci,
per Giacomo, a un amico Melchiorri, i Dialoghetti di Monaldo, conservatore
spiritoso e immobile, quando, frequentatore del Viesseux,
si accorse che in giro li attribuivano a lui. Bene scrisse Manganelli che in
ultima istanza obbedivano come a un copione teatrale già scritto.
Tranne
il ‘geniale ragazzaccio’ (mai fui né l’una né l’altra di queste due cose) il
mio rapporto con Binni (praticamente interrottosi
dopo la mia sciagurata tesi di laurea, fatta oggetto di obbrobrio e modello
vitando fra compagni e perfino familiari, questi amaramente soddisfatti –
“l’avevo sempre detto io…” ─ rapidi gli altri a traversare sull’altro
marciapiede o a scappar dalle trincee fusiformi della cunicolare ‘Feltrinelli economici’,
soloché mi sbirciassero arrivare) finiva col dimolto avvicinarsi
a quello mio con mio padre. Che di Binni era
pressoché coetaneo. Borsellino è del ’29, dunque appartiene a quella
Generazione del Trenta che annovera i nomi di Arbasino e Clint Eastwood,
Sanguineti e Godard, Gene Hackmann (il mio attore
prediletto) e Jean-Louis Trintignant (l’attore più da me detestato), Folco
Quilici e Marco Pannella. La mia generazione venne un decennio dopo. Iva
Zanicchi e Paolo Borsellino, Plácido Domingo (ch’è
forse tuttavia del ’34 !) e Mina, Bruce Chatwin e Francesco Guccini, Ringo Starr
e Fausto Bertinotti, John Lennon e Pelé, Dario Argento e De Palma e Frank
Zappa. Avino Avolio Otone e Berlingieri. E una
predominanza di musicisti.
Fui,
benché tardi, corrispondente di Oreste Macrì: critico puntiglioso e visionario.
In un discorso a Parma, da me disertato anche se a cento passi contati da casa
mia, lodò insieme me e Quintavalle (quello di
“Panorama”, l’ACQ). La città a chiedersi ma ho capito bene? Sbigottita come da
terremoto. Nella sottile ragna della macriana ‘teoria
delle generazioni’ mi perdevo. Ma idee così nascono solo a chi sente di essere
ben piantato in un ‘sentimento del tempo’ non cedibile. “Una generazione scatta
quando finisce un periodo” (così leggo su Google, suggerito da una lettrice).
Così,
la benevolenza di Nino per me. Risale almeno a 35 anni fa, quando mi volle a
Roma a parlare di Tasso e dell’Opera. Nello stesso tempo troncò i rapporti con
me Riccardo Scrivano, senza del quale il miracolo del mio inopinabile lancio
fra le stelle filanti cattedratiche mai si sarebbe potuto verificare. Certo
dovetti averlo offeso o deluso in qualcosa, ma non mi volle mai chiarire dove e
quando e perché.

Che
brutta cosa l’università. I rari, rarissimi Borsellino la rendono più utile e
men futile, mai disertata dal confronto con l’oggi ‘naturale’ e non con quello
ideologico, opportuno soltanto agli squali tonanti della politica. Mi seduceva
il Binni della opzione per il Leopardi non ridotto al
lirico o idilliante strozzato dai crociani e dai floreschi, mi trovai molto presto a preferire Nella morte [o Nello strazio] di una [giovane] donna fatta trucidare col suo portato dal seduttore per mano di un
Chirurgo (in fondo un ultimo omaggio in cronaca nera |||| un caso infausto
di procurato aborto che scosse Recanati l’anno dell’Infinito |||| al Parini della raccolta delle immondizie a Milano) o
la ben tortuosa discorsessa sui plusdoveri
dell’aristocrazia, letta ai Felsinei di Bologna ─ annoiati fino
all’angustia ─ indirizzandola a Carlo Pepoli, il futuro librettista dei Puritani (Bellini è il Beato Angelico
dell’Opera italiana dell’Ottocento). Il
pensiero dominante, Amore e morte,
Aspasia (che, a primo acchito,
m’apparve baudelairiana, solo perché non iniziato ancora alle infinite
declinazioni del Gusto neoclassico), ai quali ci orientava la lettura di Binni, mi paiono ancora da prediligere rispetto ai più
canonici Idilli, certe derive
melodrammatiche (da Le ricordanze al
pare isolato, tassiano sfinitissimo e tenorile Consalvo) ammesse a denti stretti dai lettori più alcyonici (in primis De Robertis)
le lessi quasi sùbito come utilizzazioni ‘al cubo’ di
un linguaggio non diversamente prescritto di quello petrarchesco, ma, a
variante di quello, ancora empiricamente evolutivo (da Felice Romani montiano a
Luigi Illica, spartito fra Enotrio Romano e Gabriel Musicus,
corre una storia parallela del linguaggio poetico italiano ottocentesco). Come
quando, nell’ultima delle Sonate per pianoforte, quella tornata celebre dal Doktor Faustus di
Thomas Mann, Beethoven durando a scogitare sulla
indeclinabile base bachiana, si trova a un guizzo ad inventare il jazz.
Poi
viene la Ginestra. In tempi in cui
inibito era il frammento (che tuttavia rinasce, gloriosamente, in Foscolo,
frammentario se mai ce ne fossero), Giacomo in punto di morte vi lascia la
nostra Waste Land. Per ragioni
ideologiche imperversarono letture sempre più muscolari nell’effonderne il
‘messaggio’. Borsellino lo legge come attraverso un vetrino di laboratorio, o,
se questo è una mia illusione, ne lo ringrazio lo
stesso. A me interessa il timbro, il gioco dei grigi di diàccio,
la mirabile partitura sintattica. Lasciate che imiti un gesto del mio amico e
maestro Nino, mutuato a sua volta dal ‘suo’ De Sanctis (il primo libro di Nino
che ebbi fra i miei fu, al primo relativo miglioramento della mia situazione
economica, il suo Verso il realismo (Prolusioni e lezioni zurighesi ec.), nel quadro della edizione di tutto il De Sanctis a
cura di Muscetta, che acquistai a rate in tutti quei volumi azzurro-cupo per
tanto tempo da me pregustati). “Colonnello, è successa una cosa incredibile.
Per colpa della immeritata cadrèga, il marzio si è
messo a studiare l’Italianistica”. La pura verità, per chi non volesse
crederci.
Dunque,
come ci invita Borsellino, come ci invita De Sanctis (“sentite che cuore aveva
l’Ariosto…”) torniamo a scandire questa lassa:
Sovente in queste rive,
che,
desolate, a bruno
veste
il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo
la notte; e su la mesta landa
in
purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui
di lontan fa specchio
il
mare, e tutto di scintille in giro
per
lo vòto seren brillare il
mondo.
E poi che gli occhi a
quelle luci appunto,
ch’allor
sembrano un punto,
e
sono immense, in guisa
che
un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente;
a cui
l’uomo
non pur, ma questo
globo
ove l’uomo è nulla,
sconosciuto
è del tutto; e quando miro
quegli
ancor più senz’alcun fin remoti
nodi
quasi di stelle,
ch’a
noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e
non la terra sol, ma tutte in uno,
del
numero infinite e della mole,
con
l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o
sono ignote, o così paion come
essi
alla terra, un punto
di
luce nebulosa…
Per
quel tisico, per quell’asmàtico, un bel tour de force in apnèa.
Un ultimo Quartetto di Beethoven o un tardo Liszt alle soglie della macerazione
timbrica, uno Scriabin o un Turner? L’Arte della
Sintassi Visionaria? Lucrezio, il Mondo
creato? Petrocchi ne acconciò una edizione
scientifica prima assai di volgersi a quella ufficiale di Dante. Della Ginestra, peraltro, e Nino ce lo
rammenta con una qualche bonaria perfidia, non si trovò l’Autografo. Ci sono
tre copie del Ranieri. “Ranieri mio… coughh cough… chiama un altro gelato… per piacere…” Anche su due
autografi del Ranieri ci sono giunti I
nuovi credenti. è la satira
delle magnifiche sorti e progressive in salsa piccante. Ne delirava Vittorio
Imbriani, che anche testimonia d’una variante sfuggita (o tacitata) da tutti
gli editori: “canta, e le vecchie chiava”, [o fotte], anziché “abbraccia”.
Più
luce, più luce. Nino, ci riprendiamo un Imbriani così? ||
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