LUOGO COMUNE
NOTE D’AUTORE
La poesia dominante e ‘infinita’ del genio di Recanati


      
Sempre sfiziosi arabeschi critici dal cinema al teatro, dalla letteratura alla musica, ragionando liminarmente sul libro di Nino Borsellino “Leopardi – La cognizione del vero”, uscito all’inizio del 2015 da Fermenti editrice. Tra il recente film di Martone e il ricordo di Walter Binni, eccellente leopardista, forse il maggiore della sua generazione, si segnala in questo volume il ponderato saggio sul socialismo o sansimonismo della Ginestra che ‘è come un colpo di lancetta chirurgica in un corpaccione resosi apoplettico’. I tesi e tersi versi del conte Giacomo sono come ‘un ultimo Quartetto di Beethoven o un tardo Liszt alle soglie della macerazione timbrica’.
      



      

di Marzio Pieri

 

 

Mi sa d’avere un conto aperto con Leopardi. Chi si confessa gode. Per il recente film di Martone sto, fino a prova contraria, in sospensione fra appassionati giudizî negativi e imbarazzate difese per l’onore della bandiera. Propendendo, lo ammetto, per i primi, ché pesa a carico di un così eccellente direttore di teatro, ahi, per me lo scontento in cui mi lasciò quella sua evocazione della parabola risorgimentale, Noi credevamo, troppo eloquente e troppo elusiva insieme. Martone, aver creduto non assolve; non è più epoca da Fratelli Taviani (Allonsanfan), del resto più poetici e strazianti, in quanto de re sua agitur. Si tratta di una cosa scritta sulla loro pelle. Quando il protagonista del bellissimo, quello sì!, San Michele aveva un gallo si lascia andare nella laguna, è proprio come quando (dicevano i professori di un tempo, aspettandosi l’applauso) Ugo uccide Jacopo Ortis per poter sottentrargli diverso.

 

 

 

 

Non fu cosa facile scoprirmi ridestato dalla mia ammirazione per il commosso Teatro di guerra. Vedo che si era nel lontanissimo 1998. Diobono non avevo sessant’anni. Sarà che le guerre ormai ci sono entrate nel televisore. Ma in Teatro di guerra Martone parlava di sé, della propria realtà d’intellettuale teatrante, della viva esperienza di tradurre, su tavole di palcoscenico sempre comunque memori di una antica nascita funzionale (ségnica) e arditamente artigianale, le cose ‘reali’ nella cosa ‘in sé’. Da giovane amai il teatro quanto e più della poesia; con la mia sottocultura di liceale fieramente (e necessitatamente) autodidatta. Nessuno, in realtà, a scuola ce ne aveva parlato; medesimo silenzio che sulla musica. Forse anche peggio, perché Eschilo alla fine era usato come un serbatojo grammaticale, le prove teatrali dell’Ariosto erano traversate di sfuggita (come le bande dei turisti al Museo) quali applicazione ‘scritta’ di ricette latine (del patto fra Ludovico da Reggio Emilia e l’arte della, diciamo oggi, messinscena o regìa, qualcosa diceva, con entusiasmo comunicativo, l’indimenticabile ferrarese Caretti, e ci avrebbe alla fine aperto gli occhi a 360° la memoranda impresa innovativa dell’Orlando ‘in piazza’ squadernato da Sanguineti e Ronconi come un gigante carciofo). Perché eccezioni come Federigo della Valle, manierista biblicheggiante proto barocco, sortissero dal carcere di qualche, viva e sviante, definizione crociana, ci volle il sangue e lo sperma versati dal bracciante Testori. Adelchi, senza venire meno alle volontà espresse dal timido Autore, era ridotto ai due celebri cori e additato come maiuscola riuscita letteraria, come del resto, e qui venendo meno alle indicazioni e alla pratica autoriale, si era fatto con la tragedia di Vittorio Alfieri. Goldoni piaceva perché ‘realista’ e antibarocco (da poco si era letto, ma sui rotocalchi, della paradossale riscoperta strehleriana del Goldoni ‘delle maschere’), si taceva del Gozzi. Arrivati a Pirandello, poco osservante della austera e in fondo argutamente futile scacchiera ideologica crociana, quasi pareva dover chiedere scusa al Mondo. Che intanto se n’era appropriato e lo teneva stretto. Non è un lamento (‘a scuola siamo arrivati al Botticelli…’) e non un vanto (‘a colpi di piccozza ma ho letto tutti libri’), bensì un rendimento di grazie alla provvidenza. La quale, a norma manzoniana, ‘la c’è’. Il neotoscanismo bécero dell’Era Renziana renderà testo d’obbligo, di nuovo, il Manzoni, il cui fulgore d’un tempo parrebbe oggi decisamente velato, o il Palazzeschi ‘mediano’? Sai le palpitazioni di queste fanciullette che, pena la vergogna, la dànno via a tredici anni (‘dov’Ercole segnò li suoi riguardi’), a pensare che ‘quel signore’ vuol togliere l’incomodo alla casta e poco invogliante villanotta del lago di Lecco, ma solo per vincere una scommessa zuzzurellona. “L’onore! … dove diamin l’ha posto umano errore” (il Conte di Almaviva delle Nozze di Figaro, che nella versione originaria di Caron de Beaumarchais il Manzoni conosceva benissimo senza averne capito un K). Allora Palazzeschi? andrebbe bene per cremosissime letture gay, ma, ahimè, ride e fa ridere, temo non si concilij coi programmi ministeriali. Forse, benissimo pagato, Camilleri (dal riso televisionisticamente autorizzato), sarebbe disposto a fornire in esclusiva e su commissione il classico ‘in buon toscano moderno’ per la durata della legislatura. Il grillo antigrillo toscano può saltare, se non sfiorisce con troppe docilissime ministre, per altri 50 anni, uso Napolitano. “La c’è la Provvidenza”. Benigni tutto parolacce, Umberto-eco fa venire le barbe anche alle unghie degli àlluci, mica ci sarà poi tanto da scegliere.

“Qui-rramo de-illago scaffaiuolo, miseria bu’ajuola-bu’ajuolissima, ’he da un pezzo e’ nun vede più una ’harpa, tu cci sta’ ungiorno a bu’ho ritto e ’un tu-ttiri sùpiù nean’he una scalpa, <O Boschi, e’ gli dissi, ’un tu-ppotresti mi’ha’ndare unpò più’nlà, ’he tu-mmi fa ombra, accidentatté, e s’er pesce mi-tira, e cche l’ha’ visto nini, l’ha ’isto te?> <Io tiràr’unn’ò visto nulladinulla, guarda è meglio stia zitta, ’he son bbona fanciulla>. <O grullerella, ’un tu-mme li vuo’ mica fa’ ggirare?> <Batti batti, bel Renzetto, la tu’ pòhera zirlina…> <Zitta zitta, ’he c’è!> <C’èèè?...> <Nòeee… l’è un barattolo vòto di nuthella…> <La c’è la provvidenza anche pe’ pesci…> <O-ttu la pianti o di qui te ’un tu-nn’esci…>”

Sono aperte le sottoscrizioni su Amazon per quando i’ ccapolavoro sortirà.

 

 

 

 

Intanto, ed è lieta sorpresa, “Fermenti” di Velio Carratoni stampa una nuova edizione, in gran parte rifatta di pianta, di un vecchio, ottimo libro universitario, il Leopardi. La cognizione del vero (già Il socialismo della Ginestra, Poggibonzi, Lalli, 1987) di un sottile e lieto ‘descrittore di descrittori’ (cito quasi uno dei pochi Pasolini davvero indispensabili, benché o perché uscito postumo), il nostro amico Nino Borsellino. Intanto, per riallacciarmi allo spunto di sopra, sul teatro, Borsellino è andato in evidente, clamorosa controtendenza, dico negli usi e costumi della letteratura garantita dall’accademia (la storia di Borsellino ci garantisce che non tutti, in accademia, han trasformato l’utile mestiere in qualcosa che sta fra il turismo, la diplomazia, la massoneria, e qualche cacata carta giornalistica). L’interesse per la cosa teatrale in lui pareggia, se non forse anche quantitativamente supera, quello per la letteratura cartacea: ero ai primi esami universitarî e si vide sui banchi di libreria il primo volume del prezioso dittico feltrinelliano Commedie del Cinquecento. Anche allora certi editori se la prendevano comoda: ‘tarde non furon mai gratie diuine!’ (così il secondo dei due volumi uscì non prima del 1967) || nei cinque anni passati mi ero laureato, con ritardo che sgomentò la famigliola d’origine che mi pagava gli studî e si trovava a impreviste gabelle per un figliuol fuori-corso (vergogna, vergogna per tutta la stirpe sull’Arno), m’ero pompeggiato un anno nella divisa di ufficialetto ‘a terra’ dell’AArs (arma aeronautica ruolo servizî), avevo preso moglie, messo al mondo un bambino e, alla fine dell’anno medesimo, appreso che già n’era in arrivo un altro. Che fu una bambina. || Insegnavo alle medie di Pistoja (mezz’ora d’autostrada in torpedone, mi si incollava un giudice inebetito e particolareggiava con occhi a strabuzzo e labbra piene di saliva gialla delle fucilazioni e perversioni diverse esercitate su partigiane dai comunisti nella resistenza, ‘cartuccesplosive nelle pudenda… néllepu-dènda… un adònio… [─˘˘─–] tàttata-tàtta [pòrcami-seria] e io mi dicevo: ‘su che ginocchia stiamo’, senza avere l’impudicizia di fissargli-dritto la patta [─˘˘─–] dei pantaloni lisi) e non sognavo d’università. La borsa di studio parmigiana fu quasi un gavettone: prendere o lasciare ‘entro domattina alle 8’ (erano già le 19 del giorno prima). Mi tentò l’avventura e ne seguì un decennio di privazioni (per i miei bambini, solo per loro mi dispiaceva e per gli stenti che costava a mia moglie tenere insieme i chiodi della baracchetta), di smarrita educazione a un ambiente che non mi aspettavo (prima lo choc di non sentirmi all’altezza, poi la disillusione amarissima, il desengaño franoso, di vedermi fra genti mediamente ignoranti, cultrici d’un unico orticello d’elezione, un mucchio poco selvaggio di seconda o terza scelta ma inamovibile, che mi elessero sùbito come un compagno troppo scomodo per tenerselo stretto), mi ci ammalai di brutto, poi mi trovai sbalzato in prima fascia (!) per un concorso a cattedra richiesto a mio sfavore e a mia totale insaputa. Un baronetto di quaranta anni, come le Capitaine de quinze ans di Jules Verne, uscito tradotto in Italia fin dall’anno della prima sortita francese, nel 1878. Le ossa del 7° Cavalleria biancheggiavano da due anni fra le erbe dei Monti Neri (le Black Hills, per il nostro geniale imbroglione Emilio Salgàri).

 

 

 

 

 

I capricci della sorte (Rossini), le ‘peripetie di Fortuna’ di un Camilleri bolognese (nel Seicento), Giovan Battista Manzini. Ma anche ‘CHI LA FA L’ASPETTI’; non interessa come il lebbroso di ieri sarebbe, senza averlo minimamente progettato o preteso, divenuto poi addirittura direttore di quel convento, che per allora Institutus Philologiae Nostrorum Temporum nuncupabatur. Fra anda e rianda, preso in un giro di lunapark infernale, fra una dimissione forzata e una voluta, fra raggiri e infide prove d’amicizia, solo come un cane vi spesi vent’anni. “Le mie prigioni…” – ecché, me cojoni.

La linea teatrale di Borsellino incontra il Cinquecento (Rozzi e Intronati come intermezzo significativo, la Pastorale come linea umanistica che traversa l’Europa) fino alla conclusione piucche anticlassica del miracoloso Candelajo del Bruno, più avanti s’inoltrerà nel mondo di Pirandello (questo professore arguto e buono ─ a volte per esprimere il vero si risulta nel dire goffi ─, nulla massimalista e non nevrotico, diresse la “Rivista di Studî Pirandelliani” e fu sempre ottimo amico di uno dei padri della scuola teatrale universitaria italiana, il valentissimo Federico Doglio, che diede solidità di testi scavati al fantasma retorico del ‘teatro tragico italiano’). Una volta, tornando da un mio sudatissimo seminario alla “Sapienza” (suo secondo o terzo invito in quella cattedrale di leoni, che aveva assistito nel novembre del 1966 allo sparagma del Pieri laureando, disfatto ma non arreso e i commissarî, ignari, non si capacitavano), gli dissi in macchina: ‘sei la persona che conosco più simile a Pirandello’. Lui rise, in fondo io (che pure so che, per nascita, il nostro Nino venne di Calabria) mi ostino a pensarlo come un siciliano. A casa, ci aspettava (lui, mia moglie e me) la straordinaria Maria De Lorenzo, maga di fuoco e di acque, poetessa che ammiro da quando ne lessi i versi (rari, studiati e pieni di misteriosa saggezza) la prima volta e che pur non so pensare, dentro di me, come una poetessa. Stava ai poeti come a una buona Ford starebbe un’astronave. Ora è morta ma non lo so pensare.

Anche uscendo dalla produzione teatrale stricto sensu, Borsellino non si allontana dal ripensare la storia letteraria sotto una ipotesi di scrittura ‘che potrebbe anche essere teatro’, fin dall’esempio primario della Commedia di Dante: la Tradizione del Comico (letteratura e teatro da Dante al Belli) (Garzanti, Saggi Blu, 1989); Sipario dantesco (sei scenarî della Commedia). Ultimo sigillo da infrangere: è novecentista dei più autorevoli e provveduti. Una volta, sul chiudere un panorama del secolo in vista ormai del fatale 2000 (crisi e guerre, guerre e crisi, ma come nel secolo prima e anche nei secoli prima, i contadini di Verdi morivano di pellagra, Hugo scriveva il vero capolavoro del romanzo storico e lo intitolava Les Misérables, la Beresina anticipa Stalingrado, Sédan vale ai francesi quel che a noi valse e non so se valga ancora Caporetto, non c’irragnateliamo nel cervello dei giornalisti, bisognosi di punti d’appoggio vistosi, come quegli antichissimi clienti del bordello che per eccitarsi ambivano vedere, poi gli riusciva inutile, ‘l’origine del mondo’. || Era più onesta la “Moderna Enciclopedia” di cui collezionai le figurine (qualche centinaio) quando ero paggio di terza elementare e stupivo i maestri pronunciando l’augusto nome di Urbano Rattazzi vedevo le loro fronti aggrottarsi a ripassare ‘la storia’ ||, quella volta di dodici righe più sopra, Borsellino lanciò un sasso in piccionaja augurando un cambio di marcia, nel rapporto letteratura: società dei lettori, da intravedersi nel romanziere di tanto esplodente successo. Macari iddu, anche lui, mi dissi; e, dentro di me, gli tenevo quasi il broncio. Ma oggi penso che il vulcanico autore di Porto Empedocle sia ben considerabile un Salgàri un poco diverso. Montalbano il suo Sandokan, il Re di Girgenti un D’Arrigo o anche un Consolo ‘per i poveri’, e ce ne sono tanti, oggi, come non mai si pensa a trovarcisi in mezzo, peccato sia tanto consapevole di riuscire simpatico, perfino la sua immagine oscilli fra le foto di Scalfaro e quelle di Re Giorgio, peccato. Ma diresse la sua prima regìa teatrale quando io avevo due anni. Se non vi gira la testa… Né di lui si può dire che (scommetto ci avrà anche i suoi ‘negri’, come gli aiuto-registi in teatro) che abbia lasciato alcunché d’intentato per rompere l’assedio in cui stava lasciandosi morire lo scrivere d’arte. Intendo per categoria: opposta alle scritture utilitarie.

Dicevo, più sopra, di Urbano Rattazzi; non il conte marito di Susanna Agnelli, “vestivamo alla marinara”, ma il politico sabaudo del Connubio con Cavour, suo storico avversario, della soppressione dei beni ecclesiastici, donde l’odio teologico dei clericali che ha contribuito a cancellarne memoria, delle oscillazioni fra cuore e diplomazia che portarono alla sparatoria di Aspromonte, presidente della Camera quasi a vita, primo ministro solo pochi mesi. Inventore dal 1849 del primo “Centro sinistra”. Lèggine la schedina su Wikipedia e ti pare di essere oggi. Ci siamo liberati di papa Giorgione e già pare di esserne orfani.





Nino Borsellino


Il Leopardi rinato di Borsellino è come un volo d’aria in una stanza affossata da penombre ed afrori. Il saggio equilibrato sul socialismo o sansimonismo della Ginestra è come un colpo di lancetta chirurgica in un corpaccione resosi apoplettico. Fui allievo di Walter Binni, forse il più autorevole leopardista della sua generazione. Binni era un critico nato, guastato dalla politica senza padroneggiarla (era un aristocratico a giusto disagio nei meandri dei gruppi, gruppuscoli e frange dei cupidi rerum novarum) e imbarazzantemente predisposto a discorsi di circostanza, commemorazioni (Gandhi, Momigliano, Capitini, lo studente Paolo Rossi vittima accidentale di uno spintone) e lapidi. Quella per Aldo Capitini, l’amico e maestro più bello in una biografia ricca d’incontri al vertice e di onori come il più invidiato panettone, testimonia in un colpo generosità d’ideali e goffaggine di stile. Si era fatti per amarci (quando arrivai alla Accademia di Pozzuoli per i tre mesi da allievo ufficialetto la prima lettera che mi arrivò fu quella, inaspettata e generosissima, del Maestro col quale tardavo a laurearmi, purtroppo macerata da acque e torba nell’alluvione fiorentina del ’66) e per non intenderci. Forse peccavo di orotunditade ma scalpitavo come giacomino rispetto all’argenteo-senzargenti monaldo. Si sa che si vollero bene e che se eccessi (voglia Iddio soltanto verbali) ci furono, risalgono al geniale ragazzaccio. Infame infamissimo scelleratissimo libro, sozzi fanatici dialogacci, per Giacomo, a un amico Melchiorri, i Dialoghetti di Monaldo, conservatore spiritoso e immobile, quando, frequentatore del Viesseux, si accorse che in giro li attribuivano a lui. Bene scrisse Manganelli che in ultima istanza obbedivano come a un copione teatrale già scritto.

Tranne il ‘geniale ragazzaccio’ (mai fui né l’una né l’altra di queste due cose) il mio rapporto con Binni (praticamente interrottosi dopo la mia sciagurata tesi di laurea, fatta oggetto di obbrobrio e modello vitando fra compagni e perfino familiari, questi amaramente soddisfatti – “l’avevo sempre detto io…” ─ rapidi gli altri a traversare sull’altro marciapiede o a scappar dalle trincee fusiformi della cunicolare ‘Feltrinelli economici’, soloché mi sbirciassero arrivare) finiva col dimolto avvicinarsi a quello mio con mio padre. Che di Binni era pressoché coetaneo. Borsellino è del ’29, dunque appartiene a quella Generazione del Trenta che annovera i nomi di Arbasino e Clint Eastwood, Sanguineti e Godard, Gene Hackmann (il mio attore prediletto) e Jean-Louis Trintignant (l’attore più da me detestato), Folco Quilici e Marco Pannella. La mia generazione venne un decennio dopo. Iva Zanicchi e Paolo Borsellino, Plácido Domingo (ch’è forse tuttavia del ’34 !) e Mina, Bruce Chatwin e Francesco Guccini, Ringo Starr e Fausto Bertinotti, John Lennon e Pelé, Dario Argento e De Palma e Frank Zappa. Avino Avolio Otone e Berlingieri. E una predominanza di musicisti.

Fui, benché tardi, corrispondente di Oreste Macrì: critico puntiglioso e visionario. In un discorso a Parma, da me disertato anche se a cento passi contati da casa mia, lodò insieme me e Quintavalle (quello di “Panorama”, l’ACQ). La città a chiedersi ma ho capito bene? Sbigottita come da terremoto. Nella sottile ragna della macriana ‘teoria delle generazioni’ mi perdevo. Ma idee così nascono solo a chi sente di essere ben piantato in un ‘sentimento del tempo’ non cedibile. “Una generazione scatta quando finisce un periodo” (così leggo su Google, suggerito da una lettrice).

Così, la benevolenza di Nino per me. Risale almeno a 35 anni fa, quando mi volle a Roma a parlare di Tasso e dell’Opera. Nello stesso tempo troncò i rapporti con me Riccardo Scrivano, senza del quale il miracolo del mio inopinabile lancio fra le stelle filanti cattedratiche mai si sarebbe potuto verificare. Certo dovetti averlo offeso o deluso in qualcosa, ma non mi volle mai chiarire dove e quando e perché.

 

 

 

 

Che brutta cosa l’università. I rari, rarissimi Borsellino la rendono più utile e men futile, mai disertata dal confronto con l’oggi ‘naturale’ e non con quello ideologico, opportuno soltanto agli squali tonanti della politica. Mi seduceva il Binni della opzione per il Leopardi non ridotto al lirico o idilliante strozzato dai crociani e dai floreschi, mi trovai molto presto a preferire Nella morte [o Nello strazio] di una [giovane] donna fatta trucidare col suo portato dal seduttore per mano di un Chirurgo (in fondo un ultimo omaggio in cronaca nera |||| un caso infausto di procurato aborto che scosse Recanati l’anno dell’Infinito |||| al Parini della raccolta delle immondizie a Milano) o la ben tortuosa discorsessa sui plusdoveri dell’aristocrazia, letta ai Felsinei di Bologna ─ annoiati fino all’angustia ─ indirizzandola a Carlo Pepoli, il futuro librettista dei Puritani (Bellini è il Beato Angelico dell’Opera italiana dell’Ottocento). Il pensiero dominante, Amore e morte, Aspasia (che, a primo acchito, m’apparve baudelairiana, solo perché non iniziato ancora alle infinite declinazioni del Gusto neoclassico), ai quali ci orientava la lettura di Binni, mi paiono ancora da prediligere rispetto ai più canonici Idilli, certe derive melodrammatiche (da Le ricordanze al pare isolato, tassiano sfinitissimo e tenorile Consalvo) ammesse a denti stretti dai lettori più alcyonici (in primis De Robertis) le lessi quasi sùbito come utilizzazioni ‘al cubo’ di un linguaggio non diversamente prescritto di quello petrarchesco, ma, a variante di quello, ancora empiricamente evolutivo (da Felice Romani montiano a Luigi Illica, spartito fra Enotrio Romano e Gabriel Musicus, corre una storia parallela del linguaggio poetico italiano ottocentesco). Come quando, nell’ultima delle Sonate per pianoforte, quella tornata celebre dal Doktor Faustus di Thomas Mann, Beethoven durando a scogitare sulla indeclinabile base bachiana, si trova a un guizzo ad inventare il jazz.

Poi viene la Ginestra. In tempi in cui inibito era il frammento (che tuttavia rinasce, gloriosamente, in Foscolo, frammentario se mai ce ne fossero), Giacomo in punto di morte vi lascia la nostra Waste Land. Per ragioni ideologiche imperversarono letture sempre più muscolari nell’effonderne il ‘messaggio’. Borsellino lo legge come attraverso un vetrino di laboratorio, o, se questo è una mia illusione, ne lo ringrazio lo stesso. A me interessa il timbro, il gioco dei grigi di diàccio, la mirabile partitura sintattica. Lasciate che imiti un gesto del mio amico e maestro Nino, mutuato a sua volta dal ‘suo’ De Sanctis (il primo libro di Nino che ebbi fra i miei fu, al primo relativo miglioramento della mia situazione economica, il suo Verso il realismo (Prolusioni e lezioni zurighesi ec.), nel quadro della edizione di tutto il De Sanctis a cura di Muscetta, che acquistai a rate in tutti quei volumi azzurro-cupo per tanto tempo da me pregustati). “Colonnello, è successa una cosa incredibile. Per colpa della immeritata cadrèga, il marzio si è messo a studiare l’Italianistica”. La pura verità, per chi non volesse crederci.

Dunque, come ci invita Borsellino, come ci invita De Sanctis (“sentite che cuore aveva l’Ariosto…”) torniamo a scandire questa lassa:

 

                        Sovente in queste rive,

                        che, desolate, a bruno

                        veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

                        seggo la notte; e su la mesta landa

                        in purissimo azzurro

                        veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

                        cui di lontan fa specchio

                        il mare, e tutto di scintille in giro

                        per lo vòto seren brillare il mondo.

                        E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

                        ch’allor sembrano un punto,

                        e sono immense, in guisa

                        che un punto a petto a lor son terra e mare

                        veracemente; a cui

                        l’uomo non pur, ma questo

                        globo ove l’uomo è nulla,

                        sconosciuto è del tutto; e quando miro

                        quegli ancor più senz’alcun fin remoti

                        nodi quasi di stelle,

                        ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

                        e non la terra sol, ma tutte in uno,

                        del numero infinite e della mole,

                        con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

                        o sono ignote, o così paion come

                        essi alla terra, un punto

                        di luce nebulosa…

 

Per quel tisico, per quell’asmàtico, un bel tour de force in apnèa. Un ultimo Quartetto di Beethoven o un tardo Liszt alle soglie della macerazione timbrica, uno Scriabin o un Turner? L’Arte della Sintassi Visionaria? Lucrezio, il Mondo creato? Petrocchi ne acconciò una edizione scientifica prima assai di volgersi a quella ufficiale di Dante. Della Ginestra, peraltro, e Nino ce lo rammenta con una qualche bonaria perfidia, non si trovò l’Autografo. Ci sono tre copie del Ranieri. “Ranieri mio… coughh cough… chiama un altro gelato… per piacere…” Anche su due autografi del Ranieri ci sono giunti I nuovi credenti. è la satira delle magnifiche sorti e progressive in salsa piccante. Ne delirava Vittorio Imbriani, che anche testimonia d’una variante sfuggita (o tacitata) da tutti gli editori: “canta, e le vecchie chiava”, [o fotte], anziché “abbraccia”.

Più luce, più luce. Nino, ci riprendiamo un Imbriani così? ||

 

 

 




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