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di Diego Salvadori
1.1. Foreste del lògos: le piante in letteratura
A prescindere dal contesto e dall’altezza cronologica,
ogni letteratura si apre a ‘verdi’ interstizi. Anche solo tentare di farne una
sintetica storia, analizzando il ruolo che le piante hanno avuto nella loro
trasposizione in verba, impiegherebbe
una vita intera; anzi, neppure un lavoro così assiduo potrebbe far luce su
questa simbiosi, tanto complessa quanto affascinante. Di conseguenza, ci
limiteremo a enucleare per sommi capi tale rapporto tensivo, istituendo una
catena di immagini e verba avente un
duplice intento: illustrare, a livello diacronico, il mutamento dell’aisthesis verso il mondo vegetale e
chiarire, da un punto di vista sincronico, le funzioni assunte dall’erbario fra
testi di autori tra loro coevi. Riprenderemo il nostro percorso da dove si era
interrotto, al limitare testo biblico e al situarsi dell’homo primus:
Poi il Signore Dio piantò un giardino
in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece
germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da
mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della
conoscenza del bene e del male. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo:
«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della
conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne
mangiassi, certamente moriresti».[1]
Il passaggio dal bosco al giardino ha ormai avuto
luogo e l’Eden, benché locus amoenus,
rimanda a una cattività sub specie
aeternitatis: restringimento dei verdi oceani cui avevamo fatto cenno
all’inizio. L’albero della conoscenza, centrale fulcro di un equilibrio, si fa
legame e punto di raccordo fra due costanti della storia futura: ascende al
bene, col suo protendersi al cielo, ma al contempo si radica in una ctonia
materia, in una dialettica tra supero e infero. Va da sé che l’albero
scritturale non sia solo metafora dell’esistenza umana, di un agone irrisolto
in bilico tra due opposti, bensì epitome di tutte le piante terrestri. Si
prendano, a tal proposito, le parole di Maurice Maeterlinck, atte a descrivere in modo perfetto questo ancipite slancio
tensivo, di anabasi e catabasi:
Questo mondo vegetale che ci sembra
così calmo, così rassegnato, dove tutto pare accettazione silenziosa,
obbedienza e raccoglimento, è viceversa quello in cui la rivolta contro il
destino è la più veemente e ostinata […]. Se per l’uomo è arduo compito
scoprire fra tutte le leggi della natura quella che maggiormente grava sulle
sue spalle, per la pianta non vi è alcun dubbio: è la legge che la condanna
all’immobilità perpetua […].
[La pianta] è tutta tesa ad un unico
scopo: evadere verso l’alto alla fatalità che la lega alla terra, eludere la
legge triste e odiosa, liberarsi, rompere i severi legami, inventare o invocare
ali, fuggire il più lontano possibile […] avvicinarsi all’altro regno,
penetrare in un mondo […] dove tutto ha un’anima.[2]
Il passo biblico serva qui da chiave d’accesso, per
cominciare il percorso che, dall’Eden e la cacciata ex horto, ci condurrà fino a Giosafat. Contravvenendo alla parola
divina e cibandosi del frutto proibito, Adamo ed Eva sono strappati al loro
stato aurorale e conoscono la vergogna del proprio corpo
(«allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi[3]»). D’ora in poi, le piante
rimanderanno al divino, a una purezza e una verecondia consustanziali: una
sorte, questa, diametralmente opposta a quella degli animali che, a cominciare
dal rettile edenico[4],
evocheranno le attitudini del malvagio: «matta bestialitade[5]»,
sentenzierà Virgilio nell’Inferno dantesco,
a riprova che il dualismo tra bene e male è istituito in tutta la sua valenza.
Ed è nella Commedia che la nostra analisi avanza, dove il rimando
ai versi seguenti pare quasi obbligato. Siamo al Canto XXIII del Paradiso:
Perché la faccia mia sì t’innamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino
che sotto i raggi di Cristo
s’Infiora?
Quivi è la
rosa in che il verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese in buon cammino[6].
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Katie Hill, Senza titolo, 2010
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Sotto il cielo degli Spiriti Trionfanti, i cori
appaiono come un vero giardino, pronto a schiudere le sue corolle a quella
luce, cristica e abbacinante. Siamo dinanzi a un esempio sovraterrestre di hortus conclusus, inteso da Rosario
Assunto come «bellezza
assoluta di cui si cercava traccia nel guardare alle bellezze mondane[7]».
La Vergine è oggettivata nel fiore-simbolo dell’Assoluto; mentre i gigli e la
liturgica rosa mystica si fanno
immagini prive dei referenti tangibili, denotanti un’esperienza altra, mistica
e ultraterrena: un universo traslato, saturo di tensione psicagogica. E l’imago rosae, fiore principe nel
simbolico intrico cristiano, tornerà nei canti a venire, quando il viaggiatore
oltremondano descriverà la disposizione delle anime beate nel Canto XXXIII:
In forma
dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
ma l’altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la innamora
e la bontà che la fece cotanta,
si come schiera d’ape, che s’infiora
una fiata e una si ritorna
la dove suo laboro s’insapora,
nel gran fior discendeva che
s’adorna,
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove ‘l suo amor sempre soggiorna.[8]
L’immagine pare scindersi in
due scene consequenziali: da un lato, i beati si pongono allo sguardo del
visitatore come un’immensa corolla dai petali animati e lucenti; dall’altro,
quali api di fiore in fiore, gli angeli lambiscono le schiere del Paradiso,
sino a raggiungere e toccare il volto di Dio stesso. Nel susseguirsi limpido,
quasi rapsodico, l’analogia si posa sul substratum
letterale del testo. Eppure, le api dell’esempio dantesco stanno portando a
termine un vero e proprio processo impollinatorio per favorire la riproduzione
dei fiori; mentre Dio, situato al centro della rosa celeste, andrebbe a
occupare proprio l’ovario, dove crescerà il frutto a fecondazione ultimata. Non
è tra i nostri intenti leggere artatamente una simile immagine, ma è un buon
punto di partenza per affrontare l’esistenza seconda del regno plantarum sulla pagina letteraria.
Rispetto a Adamo ed Eva, le
piante hanno impiegato più tempo a farsi peccaminose e, nonostante le
avvisaglie teofrastee, la sessualità del mondo vegetale rimase un tabù per
tutto il Medioevo. Dovremmo aspettare il Rinascimento, affinché Andrea
Cisalpino – botanico, anatomista
e medico di Clemente VIII – gettasse luce sulla questione: «quelle splendide creature, con i colori
dell’arcobaleno, e i loro squisiti profumi»
altro non erano che «dei seducenti
organi sessuali[9]». Da allora, il problema circa il ‘sesso’
delle piante divenne oggetto di studio, sino a quando, nel 1676, l’inglese
Nehemiah Grew individuò negli stami
il corrispettivo dell’organo sessuale maschile[10].
Il processo si chiuderà con Linneo, che propose una classificazione del regno basata proprio
sugli organi sessuali dei fiori[11].
Il passaggio è ormai avvenuto: le piante escono fuori dall’Eden e abbandonano,
volendo rifarsi all’esempio dantesco, la celestiale stasi in cui erano
collocate; nello sfaldarsi di tale diaframma, scendono sulla terra, gridano e
reclamano un lògos inedito: il fiore,
da immagine dell’Assoluto, si fa orifizio e sensoriale pertugio.
In Sodoma e Gomorra, quarto tassello della Recherche proustiana, l’autore, nel descrivere l’appassionato incontro tra M. de
Charlus e il gilettiere Jupien, sfrutta pienamente questo linguaggio allusivo e
intesse parallelismi tra mondo umano e mondo vegetale. Non è un caso che Jupien, in attesa nella sua
bottega, venga paragonato a un fiore vergine, in attesa dell’insetto prossimo a
fecondarlo:
Balzai nuovamente indietro per non
essere visto da Jupien […].
Poi, rendendomi conto che nessuno
avrebbe potuto vedermi, mi risolsi a non cambiare più posto per paura di
perdere […] l’arrivo […] dell’insetto inviato così da lontano […] alla vergine
che da tempo prolungava la sua attesa.[12]
Sulla pagina, sembra ricrearsi una primavera “seconda”
dove il fiore, effusi i suoi aromi nell’etere, attende l’impollinatore venturo.
Le analogie continuano nel prosieguo della vicenda, momento in cui gli sguardi
dei due spasimanti s’incontrano:
Il barone, spalancati di colpo gli
occhi dapprima socchiusi, guardava con straordinaria attenzione l’ex gilettiere
sulla soglia della sua bottega, mentre costui, subitamente arrestatosi davanti
a M. de Charlus, quasi una pianta che
avesse messo radici, contemplava […] [il] maturo barone[13].
Oramai, lògos
dei fiori e corteggiamento si sovrappongono interamente: Jupien, quale
orchidea, dà ‘sfoggio’ delle sue grazie e incita l’uomo-insetto:
Ora Jupien, perdendo di colpo
l’espressione umile e buona che gli avevo sempre conosciuta, in perfetta
simmetria con il barone aveva rialzato la testa e ora dava alla sua figura un
portamento seducente, posava con grottesca impertinenza la mano sul fianco,
sporgeva il sedere, assumeva certe pose con
la civetteria che avrebbe potuto prendere l’orchidea per l’insetto provvidenzialmente
sopraggiunto.[14]
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Mauro Davoli, De Bloemen, foto, 2012
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Non è un caso che Marcel abbia paragonato le
movenze del gilettiere a un’orchidea schiusa e odorosa. Secondo il mito greco,
Orchide era un giovinetto bellissimo, dall’adolescenza in poi andato incontro a
una drastica metamorfosi: spuntati i seni, il suo corpo divenne efebico e
effeminato, a metà tra il femminile e il maschile. Schivato da entrambi i sessi
e disperato per quei continui rifiuti, Orchide si gettò da una rupe: fu allora che
il suo sangue si mischiò al terreno, sino a far germogliare dei fiori che
richiamavano in tutto e per tutto quella sessualità androgina e di passaggio[15].
Va da sé che, sulla pagina proustiana, il fiore divenga simbolo del diverso e
prospetti un’ulteriore ermeneia:
Jupien […] si avviò per la strada
dove il barone […] si slanciò prontamente a raggiungerlo. Nel medesimo istante
in cui M. de Charlus aveva oltrepassato il portone sibilando come un grosso
calabrone, un altro, uno vero questo, entrava nel cortile.
Chissà che non fosse quello atteso da
tanto tempo dall’orchidea, venuto a portarle quel polline così raro senza il
quale sarebbe rimasta vergine?[16]
Nell’istante in cui i due amanti saziano i loro
appetiti, anche il mondo circostante officia un simile rito: il fiore, intento
ad aprirsi e a rilasciare nell’aria i suoi effluvi, diviene segno, invito,
peccaminoso emblema sancente l’atto. Innegabile appare il legame tra universo
proustiano e mondo vegetale[17],
attivo ancor prima della Recherche. In L’indifferente, poi pubblicato postumo, si legge:
– Come ama i fiori, – esclamò la
signora Lawrence guardando il suo corsetto.
Li amava, in realtà, nel senso, un
po’ comune[18], che sapeva come sono belli e quanto rendono bella una donna. Amava la loro
bellezza, la loro
allegria, e persino la loro tristezza, ma dall’esterno,
come una tra le molte espressioni della loro bellezza. Quando non erano più
freschi, li gettava via come un abito gualcito.[19]
Si percepisce da subito l’affezione anomala di Madeleine
– la protagonista – nei confronti dei fiori, ivi raffigurati in veste corporea
e sostianzati a livello carnale. L’aleatorietà della loro bellezza fa pensare a
essi come a semplici surrettizi: amanti destinati a esaurirsi una volta
concluso l’amplesso. Sono riflessi testimoniali del suo crescendo amoroso e si
plasmano nettamente su esso:
Desolata, chinò la testa, e il suo
sguardo incontrò quello, ancora più languido, dei fiori appassiti del suo
corsetto, che sotto le loro palpebre avvizzite parevano sul punto di piangere.
Il pensiero di quanto era stato il suo sogno […] si associò per lei alla
tristezza di quei fiori che, prima di morire, languivano sul cuore che avevano
sentito battere per il suo ultimo amore, la sua prima umiliazione e il suo
primo dolore.
Il giorno seguente, non volle altri
fiori nella sua camera, abitualmente colma e rifulgente dello splendore delle
rose fresche.
Quando la signora Lawrence entrò, si
fermò davanti ai vasi in cui le cattleye finivano di morire, spoglie di
bellezza per occhi senza amore.[20]
Questo passo rafforza il legame cui accennavamo
poc’anzi, in quanto l’infiorescenza labiata diventa corrispettivo analogico del
languore provato da Madeleine: una fanciulla in fiore che è destinata tuttavia
ad appassire e abbruttirsi. La creatura vegetale è quasi protiro: famulo
antistante l’ultima soglia. Una connotazione, questa, presente anche nella Confessione di una fanciulla:
Il cuginetto […] era già alquanto
vizioso e m’insegnò cose che mi fecero subito rabbrividire di rimorsi e
voluttà. Nell’ascoltarlo, nel lasciare che le sue mani accarezzassero le mie,
assaporai una gioia avvelenata alla sua stessa fonte; dopo poco ebbi la forza
di andarmene e fuggii nel parco, con disperato bisogno di mia madre. D’un tratto […] la
scorsi su una panchina; sorrideva e mi apriva le braccia […]; piansi a lungo,
raccontandole tutte quelle brutte cose […]. Quel peso si attenuava […]; la mia
anima schiacciata saliva sempre di più […], ero tutta anima.[21]
Dal suo stato di moritura, la protagonista ricorda
questo primo incontro col vizio: un contatto, si badi bene, avvenuto all’ombra
di verdi custodi. Come sostiene Giovanni Macchia, le atmosfere sono da tragedia
classica, «i ricordi dell’infanzia
innocente rigenerano l’anima della morente[22]». E nel
ricongiungimento estremo, nel fatale abbraccio materno, la natura sancisce
questo sacro ritorno:
Poco dopo sentii sotto le mie narici
un odore altrettanto puro e fresco. Era un lillà, un suo ramo, nascosto dal
parasole di mia madre, era già fiorito e, invisibile, diffondeva il suo profumo
[…]. Baciai mia madre. Non ho più ritrovato la dolcezza di quel bacio[23].
Se per Madeleine i fiori appassivano, allineando il
loro ciclo all’aumentare del suo dolore; per la jeune fille in questione, il profumo dei lillà purifica, eleva e
aderge l’anima a un’innocenza perduta. Almeno in questo caso, il fitomorfismo
proustiano mira a ricostruire un Eden perduto e inebria, nel suo effondersi
liquoroso, la pagina saturata dal vizio. Per Giovanni Macchia, la Confessione d’una fanciulla altro non è che la Digitale purpurea dell’autore della Rechereche, ché Rachele e Madeleine «prestano ai fiori una simbologia, che è
la stessa immagine della vita, nell’orrore e nella gioia. I simboli [floreali]
diventano confessioni dolorose[24]».
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Baxadur Yuldashev, Senza titolo, 2012
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E passiamo al suaccennato
testo pascoliano: poemetto articolato in tre sezioni con al centro le
femminili protagoniste. Ormai adulte, Maria e Rachele ricordano gli anni di
collegio, in un fluire memorativo tiepido e figurale. Ex abrupto, la rievocazione si blocca in un «orto chiuso[25]»,
fra «i rovi con le more[26]».
Quale revenant, il «triste fiore»
appare in tutta la sua funerea e letale presenza, per rivelare una carica
mercuriale, quel fare parte di un rito di passaggio: creatura mortifera «che inebria l’aria; […] che bagna/ l’anima di un oblio sì dolce e crudele[27]». Una pianta malata, infetta, «spiga di fiori, anzi di dita/ spruzzolate
di sangue, dita umane[28]»: fiore dal sapore baudelairiano, carico
di una sensualità che è prossima a deflagrare nella parte conclusiva del
poemetto, momento in cui il passato – anche se a distanza di dodici anni –
torna a imprimersi vivido nei pensieri di una delle due fanciulle. «Sì: sentii
quel fiore[29]»,
afferma Rachele, l’unica ad aver avuto l’ardire – in quella «greve sera[30]»
– di sfiorarne la superficie rugosa. Abbandonato il maternage di partenza, ravvisabile invece nell’ultimo passo
proustiano, i fiori intessono un erotisme
panico e dilagante, partecipando all’iniziazione della giovane donna. Tre anni
dopo, nel Gelsomino notturno, Pascoli
porta al diapason questa tensione e intesse parallelismi tra la vita sessuale
dei fiori e la prima notte degli sposi novelli. L’infiorescenza, quale orifizio
riproduttivo, apre[31]
e chiude[32]
il componimento, in un gioco di analogie più o meno velate che, per certi
aspetti, richiamano i passi citati dalla Recherche
proustiana: gli insetti, in una danza propiziatoria, svolazzano intorno ai
viburni, cooperando al processo fecondativo; mentre il dolciastro aroma di
fragole rosse sancisce l’acme, il plateau
dell’atto medesimo. Volendoci soffermare ancora sul gelsomino e il suo ruolo da
fiore della passione, potremmo citare un passo da L’attore di Mario Soldati, relativo a uno dei tanti incontri fra Melchiorri e
Gabriella:
Era già buio, ma l’aria era tiepida, era maggio, col profumo
dei gelsomini che bastava, da solo a far girare la testa. […] esce Gabriella
per andare al cinema, ha un vestitino nuovo, bianco, scollato fino a metà della
schiena […]. Aspettavo il momento in cui non avrei più potuto resistere al
piacere di fare questa sciocchezza. Aspettavo, senza saperlo, proprio quel momento, quella notte, [aspettavo]
il profumo dei gelsomini […].[33]
Come accadeva nell’esempio
pascoliano, i gelsomini sono esseri psicagogici e rivelanti: officiano il
riemergere di una pulsione un tempo messa a tacere. Si assiste, per certi
aspetti, al capovolgimento dell’episodio adamitico: laddove il frutto della
conoscenza rivelava la vergogna corporale, nel romanzo di Soldati il fiore
‘apre gli occhi’ di chi, inconsapevole, aspetta quell’impudica rivelazione.
Non possiamo dunque
prescindere da I fiori di Aldo
Palazzeschi, che cinge e sostanzia la nostra Sodoma delle piante.
Citeremo la poesia per intero proprio perché, lo vedremo in seguito, si
rivelerà precipua per l’erbario di Luigi Meneghello:
Fra voi fiori sorridere,
fra i vostri profumi soavi,
angelica carezza di frescura,
esseri puri nella natura!
Oh! Com’è bello, sentirsi libero
cittadino,
solo, nel cuore d’un giardino![34]
Ancora una volta, ci troviamo in un giardino:
nell’Eden da cui ha preso inizio questa galleria fitomorfica. Il passo citato,
col suo tono ottativo, si regge sul tempo dell’innocenza, avulso, come Adamo ed
Eva prima della cacciata, dalle brutture mondane. Limpida e creaturale, questa
natura accoglie il visitatore in un abbraccio sinergico, panico, venato in limine da accenni quasi francescani.
Ma basta scorrere i versi successivi per assisterne all’improvviso
stravolgimento:
– Zz…Zz..
– Che c’è?
– Zz…Zz…
– Chi è?
M’avvicinai d’onde veniva il segnale
[…]
una rosa voluminosa
si spampanava sulle spalle
in maniera scandalosa
il décolleté.
[…]
– Ma tu chi sei? Che fai?
– Bella, sono una rosa […]
e
faccio la prostituta […].
All’angolo
del viale
aspetto
per guadagnarmi il pane […].[35]
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Giampiero Poggiali Berlinghieri, Scimmia, 2011
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Volendo citare le parole di Duccio Demetrio, «l’Eden è perduto per sempre, e anche il giardino più bello
che ardisca emularlo è un trabocchetto[36]»:
venuto meno l’afasico verde, le piante acquistano il verbum, non più modulato su criptiche movenze o sinestetici
accostamenti, ma identico all’umana favella. Un po’ come Alice nel giardino dei
fiori viventi, il protagonista è accerchiato da creature dialoganti che, come
la flora del Paese delle meraviglie, sono alla stregua degli uomini stessi:
Lo vedi
quel cespuglio
di quattro personcine,
due grandi e due bambine?
Due rose e due bocciuoli?
Sono il padre e la madre coi
figliuoli.
Se la intendono… e bene,
tra fratello e sorella,
il padre se la fa colla figliola…
la madre col figliolo…
Che cara famigliola!
[…]
E lo vedi quel figlio,
lì, al tronco di quel tiglio?
Che arietta ingenua e casta!
Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.
[…]
Saffica è la vainiglia.
E il narciso, specchiuccio di
candore,
si masturba quando è in petto alle
signore.
[…]
– E la violacciocca…
fa certi lavoretti con la bocca…
[…]
E la modestissima violetta,
beghina d’ogni fiore?
[…]
sapessi cosa fa del ciclamino…
è la più gran vergogna
corrompere un bambino! […].[37]
Per tale ragione, le infiorescenze si fanno simboli di
un mondo tanto naturale quanto perverso: nel loro intessere un discorso
analogico, paventano devianze, storture, celate sotto le più innocue spoglie.
Siamo lontani, oramai, dal giglio e la «candida rosa» danteschi: la natura non
è più realtà statica, edenica e celestiale; bensì un riflesso, perfetta mimesi,
di una ratio umana e perversa. Quella
natura Baudeleriana, «tempio ove
pilastri viventi lasciano sfuggire a tratti confuse parole[38]», è tratteggiata icasticamente nei versi
suaccennati: laida, sporca, luciferina come i suoi bipedi abitatori.
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Pablo Dotta, Torno subito, "Fotografías encontradas mientras volvía a casa", 2010
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Dall’Eden a Giosafat:
vorremo chiudere con un’ultima immagine, un ‘sigillo’ posto a completamento del
cerchio. Siamo alle ultime pagine di Anna
Karenina:
Il vento pareva insistesse
ostinatamente, fermava Lévin e, strappando le foglie e i fiori dai tigli e
denudando mostruosamente e stranamente i bianchi rami delle betulle, piegava
tutto da una sola parte; le acacie, i fori, la bardana, l’erba e le cime degli
alberi.
[…] Lévin giungeva già di corsa al
Kolòk e vedeva già qualcosa di bianco dietro una quercia, quando a un tratto
tutto s’infiammò, prese fuoco tutta la terra e fu come se sopra il capo si
fosse spaccata la volta celeste. Aperti gli occhi e abbagliati, Lévin
attraversò lo spesso velo della pioggia, che adesso lo separava da Kolòk, vide
[…] la cima verde della quercia […] che aveva stranamente mutata la posizione.
[…] [La] cima si nascose dietro alle
altre piante, ed egli sentì lo schianto del grande albero caduto sugli altri
alberi.
La luce del fulmine, il rombo del
tuono e la sensazione del freddo […] si fusero […] in una sola impressione
d’orrore[39].
In uno scenario dai toni apocalittici, l’albero di una
pristina mitologia silvestre è vittima della distruzione totale: come in un
biblico Eden, Lévin assiste a una cacciata seconda, all’ira divina pronta ad
accanirsi sulla natura circostante. Quei fiori, un tempo emblema di sensualità
ed erotismo; un tempo orpelli sul corpo delle fanciulle proustiane, sono ora
strappati uno a uno, in una sorta di cosmico raptus che, come Adamo ed Eva, lascerà la natura in preda alla
propria vergogna. E in quella quercia, nel netto sfaldarsi della sua chioma,
rivive forse ancora lo spirito di Anna: «la
testa intatta, reclinata indietro con le sue trecce pesanti e i capelli
inanellati sulle tempie[40]».
[1]
Genesi, II, 2-17; si cita da La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della CEI, Roma, Paoline,
1980.
[2]
M. Maeterlinck, L’intelligenza dei fiori,
Firenze, Nerbini, 1944, p. 8.
[4]
«Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore
Dio», Genesi, III, 1.
[5]
Inferno, XI, vv. 79-83.
[6]
Paradiso, XXIII, v. 69-75.
[7]
R. Assunto, Ontologia e teleologia del
giardino, Milano, Guerini, 1988, p. 53.
[8]
Paradiso, XXI, vv. 1-12.
[9]
Le piante non sono angeli, p. 42
[12]
M. Proust, Sodoma e Gomorra, in id., Alla ricerca del tempo perduto, tr. di M.
T. Nessi Somaini, Milano, Rizzoli, 1988, p. 24-25. D’ora in poi: Sodoma e Gomorra, corsivo mio.
[13]
Sodoma e Gomorra, p. 27.
[14]
Ivi, p. 27, corsivo mio.
[16] Sodoma
e Gomorra, p. 29.
[17]
Si pensi À l’ombre des jeunes filles en
fleure, wagneriano richiamo che, in veste di titolo, sigla il secondo atto
della Recherche.
[18]
«en ce sens vulgaire»
nel testo originale.
[19]
M. Proust, L’indifferente,
introduzione di G. Agamben, con testo a fronte e una nota di P. Kolb, tr. it.
di M. Bongiovanni Bertini, Torino, Einaudi, 1978, p. 29.
[21]
M. Proust, Confessione di una fanciulla,
in id., I piaceri e i giorni, con 13
illustrazioni di M. Lemaire, a cura di M. Bongiovanni Bertini, note e commento
di L. Keller, Torino, Bollati Boringhieri, 1988, p. 89. D’ora in poi, Confessione di una fanciulla.
[22]
G. Macchia, Innocenza e morte
dell’adolescente, in Tutti gli
scritti su Proust, Torino, Einaudi, 1997, p. 13.
[23]
M. Proust, op. cit. p. 89.
[24]
G. Macchia, op. cit. p. 13.
[25]
G. Pascoli, Digitale purpurea, da Poemetti 1900, ora in Poesie e prose scelte progetto
editoriale, introduzioni e commento di C. Garboli, Milano, Mondadori, 2002, II,
p. 71, v. 12. Si osservi qui la presenza del giardino e il conseguente
allontanamento dall’ecumenismo silvestre.
[30]
G. Pascoli, op. cit. v. 16.
[31]
«E s’aprono i fiori notturni», G. Pascoli, Il
gelsomino notturno, da Canti di
Castelvecchio, introduzione e note di G. Nava, Milano, Rizzoli, 1983, p.
246, v. 1.
[32]
«è l’alba si chiudono i petali/ un poco gualciti […]», ivi, vv. 21-22.
[33]
M. Soldati, L’attore, Milano,
Mondadori, 1970, p. 191.
[34]
A. Palazzeschi, I fiori, da Poesie 1910-1915, ora in id., Tutte le poesie, a cura di A. Dei,
Milano, Mondadori, 2002, p. 301, vv. 64-70. D’ora in poi, I fiori.
[36]
D. Demetrio, La religiosità della terra,
Una fede civile per la cura del mondo,
Milano, Raffaello Cortina Editore, 2013, p. 72.
[37]
I fiori, vv. 105-160.
[38]
C. Baudelaire, Corrispondenze, in I fiori del male, introduzione di G. Macchia,
versione in prosa di A. Bertolucci, con una “nota” di G. Raboni, Milano,
Garzanti, 1999.
[39]
L. N. Tolstoj, Anna Karenina, tr. it.
di L. Ginzburg, prefazione di N. Ginzburg, Torino, Einaudi, 1993, p. 881-882.
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