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di Alessandro Ticozzi
Come si sono conosciuti Age & Scarpelli e quando hanno deciso di
lavorare insieme?
Age e Scarpelli si conoscono
nell’immediato dopoguerra, probabilmente nel 1946, nella redazione del «Marc’Aurelio», celeberrimo giornale umoristico nato a Roma
nel 1931. Furio è il figlio di Filiberto Scarpelli, scrittore, illustratore,
caricaturista, oltre che interessante personalità della Scapigliatura romana,
già attivo da anni su riviste satiriche come “Il Travaso delle idee” e “Il
Balilla”. Age, al secolo Agenore Incrocci, proviene
invece da una famiglia di attori napoletani, come la madre, che aveva recitato
accanto a Ettore Petrolini o la sorella, la famosa Zoe. Si vedono al «Marc’Aurelio» due volte alla settimana, per scrivere
battute e concertare vignette. Scrivono assieme alcuni testi per la radio e
poco dopo stanno già lavorando alla prima delle loro 117 sceneggiature in
comune.
Qual è stato il contributo di Age & Scarpelli al filone comico del
dopoguerra?
Il contributo della coppia al cinema
comico del dopoguerra è stato fondamentale. Accanto ad altre celebri coppie di
sceneggiatori, come Metz e Marchesi o Steno e Monicelli, i due cominciano a
scrivere testi per l’attore monstre del momento: il grande
Totò, per il quale sceneggeranno complessivamente circa venti film, da Totò
cerca casa del 1949 a Totò e Peppino divisi a Berlino del
1964. A scrivere per il principe della risata aveva cominciato già nel 1948 il
solo Age, collaborando al copione de I due orfanelli, un
rivoltamento ironico del quasi omonimo dramma teatrale, Le due
orfanelle, da cui D.W. Griffith aveva già tratto nel 1921 un celebre
adattamento cinematografico con le sorelle Lilian e Dorothy Gish.
Ma non per il solo Totò lavorano i due: oltre a quell’autentica gallina dalle
uova d’oro per il botteghino italiano del momento, Age e Scarpelli prestano la penna
anche ai copioni dei molti comici che, grazie al successo di Totò, si
affacciano in quei febbrili mesi d’entusiasmante ricostruzione materiale e
morale sul grande schermo. Quasi tutti provenienti dal teatro d’avanspettacolo,
dalla rivista e dal varietà: Renato Rascel, Aldo
Fabrizi, Tino Scotti, Walter Chiari, Carlo Dapporto e il primo Tognazzi.
Diretti per lo più da Carlo Ludovico Bragaglia (nove sceneggiature a firma Age
e Scarpelli) e Mario Mattoli (otto).
Da Mario Monicelli a Pietro Germi, da Dino Risi a Luigi Comencini e Ettore
Scola, quanto sono debitori i maggiori registi della commedia all’italiana ai
copioni di Age & Scarpelli?
Utilizzando al meglio i limiti del
“genere” commedia all’italiana, Age e Scarpelli, a prescindere dal regista con
cui di volta in volta si trovano a collaborare, sviluppano nel corso del tempo,
con sempre maggior consapevolezza, la propria peculiare cifra stilistica: una
comicità popolare quasi mai corriva, dotata di alcune caratteristiche
ricorrenti che consentono loro di distinguersi, per classe e acutezza, da altre
coppie analoghe. Diventano in breve la coppia regina della commedia
all’italiana, grazie a un lavoro di scrittura più ambizioso ed elaborato
rispetto a quello di altri pur valenti team di scrittori di
cinema (come Benvenuti e De Bernardi, o Castellano e Pipolo); fatto di sense of humour, satira di costume e passione
civile-politica. Entrambi dotati di un grande orecchio per il dialogo, ripetono
con immutata efficacia nella stesura della sceneggiatura le invenzioni del
soggetto; peculiarità certificata anche dai credits,
che li individua spesso anche come dialoghisti. Lo stile di Age e Scarpelli è
forse stato la massima rappresentazione del romanzo popolare all’italiana, che
ha raccontato con tono dolceamaro la società italiana nel primo trentennio del
dopoguerra; permeato di uno spirito se non scopertamente di sinistra quanto
meno fortemente democratico. Centrale nel loro lavoro di scrittura è il debito
dichiarato nei confronti della letteratura narrativa, e lo sguardo etico di una
coppia d’autori che non ha mai utilizzato l’umorismo in funzione evasiva, ma
sempre per riflettere sulla società contemporanea, con sintomatici ritorni al
passato e rivelatrici premonizioni future. A uno sguardo più attento, risalta nei
loro copioni l’urgenza etica e l’indignazione politica (In nome del popolo
italiano); la necessità di deformare l’attenta e puntuale osservazione
della realtà con uno sguardo ironico e talvolta grottesco, non per evaderne ma
per osservarla in modo ancora più realistico (Vogliamo i colonnelli); il
lavoro straordinario, da glottologi, sui linguaggi e sui dialetti, oltre
all’umiltà di sintonizzarsi sempre con il gusto popolare (Straziami, ma di
baci saziami); e infine l’obbligo di racchiudere tutto ciò in una struttura
narrativa classica (Romanzo popolare, per l’appunto). Per tacere di
quell’umanesimo e di quello struggimento che spesso trapela dalle commedie
scritte da loro. Altro, ennesimo, marchio di fabbrica age-e-scarpelliano.
Come mai, col passare degli anni, Age & Scarpelli hanno spesso
preferito lavorare separati?
Per Scarpelli il dopo-Age inizia già prima
che la coppia scoppi. La rottura del sodalizio viene preannunciata da un
episodio: Sì buana, diretto da Luciano Salce nel 1978 e incluso nel
film Dove vai in vacanza?. Scritto da Scarpelli col vecchio amico Sandro
Continenza, Sì Buana è il migliore dei tre episodi, anche se
il più famoso resta quello di Sordi (Le vacanze intelligenti). Uno sketch dal
sapore hemingwayano (è in effetti una parodia di Breve vita felice di
Francis Macomber) in cui si ritrovano alcuni topoi age-e-scarpelliani:
l’impianto romanzesco della drammaturgia e l’espediente del racconto in
flashback; già visti – per fare soltanto qualche esempio – in C’eravamo
tanto amati e Romanzo popolare. Insomma, se è vero che la
qualità dei copioni di Scarpelli non sarà forse più paragonabile a quella dei
precedenti, è però altrettanto vero che – come afferma l’Enciclopedia Treccani
– Furio prosegue di gran lena l’attività autonomamente, “rivelando nella
costruzione dell’intreccio e dei personaggi un’ambizione romanzesca.” Quel che
è certo è che d’ora in avanti i film di Scarpelli (La famiglia, Ballando
ballando, La cena) cambiano pelle e
iniziano a prediligere lunghi silenzi e toni rarefatti; come sarebbe stato
impensabile quando, all’interno del lavoro di coppia, prendevano vita ariose
narrazioni di stampo romanzesco.
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Ugo Tognazzi in Vogliamo i colonnelli (1973), regia di Mario Monicelli
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Come mai, negli ultimi anni, Scarpelli è stato molto più attivo di Age?
Nel 1983 quel felice matrimonio artistico
si conclude. Secondo alcuni i due si separano per l’usura fisiologica di un
rapporto che tra una litigata e l’altra è durato circa 35 anni; per altri,
invece, per via del progressivo deteriorarsi delle condizioni di salute di Age
e di certe sue drammatiche vicende familiari. C’è anche chi attribuisce le
cause della rottura al bisogno maturato da Scarpelli, dopo l’attività di
docente al Centro Sperimentale, di sviluppare la sua vocazione didattica,
dedicandosi ai suoi allievi prediletti o ai suoi figli ormai adulti. Chi
ritiene che la motivazione risieda nell’inasprirsi di certi suoi convincimenti
politici, e chi nel desiderio di rifuggire dal cinema commerciale che avevano
fatto insieme. C’è infine, chi pensa che la cagione vada ricercata nella
nascita della Mass Film. Dopo lo scioglimento della Cooperativa 15 Maggio, una
sorta di United Artists all’italiana votata al cinema
di qualità, in cui gli autori abbiano un riconosciuto peso decisionale.
Talmente riconosciuto da determinarne il nome, che è infatti l’acronimo delle
iniziali dei suoi fondatori: Maccari, Age, Scarpelli e Scola (anche se Age,
poco convinto dall’idea che l’autore debba assumersi i rischi d’impresa, si
limita di fatto a fornire la vocale del proprio cognome). La casa di produzione
romana diviene ben presto il regno di Scola e Scarpelli; con la taciturna
complicità di Ruggero Maccari, che dopo gli esordi da vignettista aveva stretto
un breve sodalizio con Fellini. La sua carriera di sceneggiatore è però
strettamente legata a quella di Ettore Scola, non troppo diversamente da quanto
Age abbia fatto con Scarpelli. Però, a ben vedere, se l’esperienza della Mass
non ha avuto lunga durata, è proprio perché non c’è stato nessuno come Age a
fungere da interlocutore privilegiato di Furio. Non poteva esserlo Maccari,
troppo austero e taciturno. Non Scola che è il regista, un’altra categoria;
oltretutto con un carattere forte come quello di Furio. Insomma, la mancanza di
Age si fa sentire. Insomma dopo tante litigate artefatte, i due, a furia di
frequentarsi, finiscono per “odiarsi” per davvero. Age si ammala e Furio si
impegna in politica; Age va a insegnare sceneggiatura all’Istituto Europeo di
Design, Furio al Centro Sperimentale; uno scrive un manuale all’americana,
l’altro si mette a parlare di letteratura e filosofia. E se Age smette
praticamente di lavorare, Furio lo fa ancora – e bene – con Scola e con Paolo
Virzì. Però per quanto ben fatti i film scritti da Furio dopo la fine del
sodalizio non raggiungono mai le vette dei precedenti, come se per esprimere il
vero sé, Furio avesse bisogno di questo contraltare con cui polemizzare. E che,
in definitiva, a Furio per diventare Scarpelli Age sia stato indispensabile.
“La chiusura del rapporto con Age è organica a due persone che sono state
troppo tempo assieme ed è rimasta una profondissima amicizia che non ha
eguali.” Ammetterà Scarpelli: “Ma ognuno aveva una necessità, quella di trovare
spazio per se stesso.”
Cosa rimane del lavoro di Age & Scarpelli oggi?
In breve, la Mass diventa un polo di
attrazione per tutti quei giovani cineasti ansiosi di trovare un raggio di luce
nel buio pesto degli anni ’80: figli d’arte come Marco Risi e Ricky Tognazzi,
giovanotti promettenti come Marco Tiberi e Leone Pompucci; e, ovviamente, i
discepoli prediletti di Scarpelli, Francesca Archibugi e Paolo Virzì. Un
apprendistato caotico che replica la medesima caoticità
picaresca che aveva caratterizzato quello di Agenore e Furio al «Marc’Aurelio» e dintorni, e che forgerà le nuove leve del
cinema italiano, donando loro una sorta di imprinting che nelle opere future
farà trasparire in filigrana quel magistero. Infatti, se si osservano i film di
Archibugi e Virzì (ma anche di discepoli più occasionali come Francesco Bruni,
Franco Bernini, Marco Risi, Carlo Mazzacurati e il
suo sceneggiatore preferito Umberto Contarello), si
nota subito quanto vi siano state travasate tutte le caratteristiche principali
del cinema age-e-scarpelliano,
tutte le “non-regole” della sceneggiatura prima dell’avvento della
manualistica. Ovvero, grosso modo: la compresenza di dramma e umorismo,
l’attenzione al contesto socio-politico in cui ambientare le storie, il rifiuto
della mono-dimensionalità dei personaggi e infine il
palpito epico di una narrazione ricalcata su un impianto da romanzo
ottocentesco. Quando poi quel magistero sarà seguito con maggior scrupolo,
diverrà possibile il passaggio del testimone dai padri ai figli, che
l’erediteranno non in modo pedissequo e nostalgico, ma adeguandolo ai tempi
nuovi. Come accade proprio con Virzì con la sua opera terza, Ovosodo che il decano della critica
cinematografica italiana, Gian Luigi Rondi, recensisce così: “Evviva, evviva, è
rinata la Commedia all’italiana, quella cui agli inizi, nei Cinquanta, molta
critica aveva guardato con sufficienza, poi consacrata invece dai trionfi
allegri (e non superficiali) dei Risi, dei Monicelli e dei Comencini”. Oppure
Francesca Archibugi, che dopo essersi diplomata al Centro Sperimentale, prende
a frequentare la Mass Film, dove concepisce i suoi primi lavori da
regista: Mignon è partita (1988), Verso sera (1990)
e Il grande cocomero (1993). Tre opere possenti, in grado di
affermarla nel panorama nazionale come una delle voci più autorevoli del cinema
di quegli anni. Oltre che ottimi esempi del retaggio della nobile tradizione
della commedia all’italiana. Francesca che, con il recente Il nome del
figlio, gira probabilmente una sorta di C’eravamo tanto amati del
terzo millennio.
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Sergio Castellitto e Alessia Fugardi in Il grande cocomero (1993), regia di Francesca Archibugi
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Infine Franco Bernini, sceneggiatore e
regista italiano, che ha scritto copioni che esemplificano eloquentemente come
la commedia all’italiana di Age e Scarpelli sia stata in grado di aggiornarci
ai tempi nuovi: La lingua del santo e A cavallo della
tigre di Carlo Mazzacurati, Domani accadrà di Daniele Luchetti e Sud di Gabriele Salvatores.
Bernini ha cominciato ad avvicinarsi al cinematografo grazie al magistero di
Age, e rievoca così la fortunata sinergia intellettuale di due delle migliori
menti del cinema italiano del ’900: “Per come l’ho conosciuto attraverso Age,
era un metodo preciso. Si lavorava sempre, ogni giorno, con orari rigidi, dalle
9 di mattina fino alle 13 e poi dalle 15,30 alle 19. Questa regolarità, però,
dava vita alla più ampia libertà creativa. Si cominciava parlando degli
avvenimenti del giorno: fatti avvenuti, eventi visti, sentiti, magari carpiti
per strada, o dei quali si era letto; un gesto, un incontro, un’immagine. E da
lì, parola dopo parola, il discorso si allargava, spaziava. Chiacchierando, si
arrivava come per caso a un’intuizione narrativa. Mettendo assieme varie
intuizioni forti si cominciava a concepire una storia. Era un processo
ininterrotto, che produceva in continuazione spunti. Se poi, riconsiderandoli a
mente fredda, questi spunti resistevano nella memoria e anzi si irrobustivano,
allora li si poteva considerare la base di un film”. E conclude: “Le differenze
caratteriali erano molto evidenti: Age era più riservato, ironico, Furio più
irruente. Ma sul piano artistico la loro impronta risultava abbastanza
unitaria. Un film di Age e Scarpelli lo si riconosce a prescindere dal regista,
che sia Scola, Comencini, Monicelli, oppure Risi. Detto questo, davano
certamente al lavoro di coppia apporti diversi. Age aveva un amore tutto
particolare per la lingua parlata e per i giochi di parole. Anche se, tutto
sommato, battutisti lo erano entrambi, perché provenivano dalle riviste
umoristiche e satiriche. Scarpelli era, dei due, quello più interessato alla
letteratura. Aveva i suoi autori di riferimento e dei loro romanzi aveva fatto
quasi il centro della sua intera riflessione artistica, ovviamente maturata con
gli anni”.
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