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di Alessandro Ticozzi
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Francesco De Gregori nel 1979 al tempo di Banana Republic
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Formatosi
negli anni Settanta al Folkstudio di Roma, Francesco
ha ottenuto il suo primo successo, nel 1973, con la canzone Alice: da cosa
furono segnati i suoi inizi?
All’inizio
componeva soprattutto brani folk, nel solco della tradizione americana (Guthrie, Dylan) e della canzone popolare italiana. Per lo
più fiabe, ninnananne, ma anche brani dai contenuti
politici, sempre però in uno stile molto metaforico ed evocativo. Poi aveva
anche un gusto particolare per la canzone satirica: risalgono ai suoi primi
anni diverse composizioni di questo tipo, come La ballata di Spiro Agnew, che mette alla berlina il vice del presidente
statunitense Richard Nixon, oppure Santa
Seicento, che irride la Fiat. Ma ce ne sono anche alcune composte per gli
amici, come ad esempio Miele di rose
per Giorgio Lo Cascio.
Quanto è
stato importante l’album Rimmel (1975) nella storia della canzone d’autore
italiana anni Settanta?
È stato
fondamentale, sia per la sua indubbia qualità di scrittura, sia perché ha
chiarito una volta per tutte che anche i cantautori politicamente impegnati
potevano scrivere canzoni d’amore. Sembra una banalità, ma nel 1975 non lo era
affatto. Sul disco uscirono articoli di fuoco, come quello scritto da Giaime Pintor per Linus,
che suonava come un atto di accusa fin dal titolo: “De Gregori non è Nobel, è Rimmel”. In pratica, gli imputavano un
eccessivo ripiegamento nella sfera introspettiva e individuale. Ovvero, quello
che è la vera forza di Rimmel, un
disco che sa raccontare un’epoca proprio attraverso le emozioni individuali,
con canzoni di straordinaria qualità musicale e testi tra i più belli scritti
da De Gregori (da Pezzi di vetro alla
stessa title track, ma
l’intera tracklist
è eccezionale). È il trionfo della sua arte della metafora, dell’enigma e della
raffinatezza lirica. È anche il disco che lo ha reso popolare, sdoganandolo
presso il grande pubblico che prima lo etichettava con sospetto come un
cantautore di sinistra.
Possiamo
pensare che con l’album Titanic (1982) e la sua canzone capolavoro La
donna cannone Francesco abbia raggiunto i
vertici della sua arte cantautorale?
A mio parere
no. I vertici di De Gregori per me sono compresi negli anni Settanta, tra Rimmel, Bufalo Bill (forse il suo album migliore in assoluto) e De Gregori, che è forse il suo più
sottovalutato in assoluto. Certamente Titanic
è un ottimo disco, ha contribuito a rilanciarlo anche in un decennio che
sembrava per lui più difficile, considerati i cambi di gusti e costumi dell’epoca,
e contiene almeno due o tre tracce da brividi. La donna cannone è un altro grande pezzo, sicuramente ha ampliato
notevolmente la popolarità del suo autore, ma non è in assoluto tra i miei
preferiti.
Cos’ha
spinto Francesco a pubblicare nel 1990 ben tre album dal vivo (Niente da capire,
Catcher in the Sky e Musica leggera)?
Da molto
tempo, la dimensione concertistica è diventata ormai la parte preponderante
della sua attività, con una sfilza di date e di dischi live che non ha quasi precedenti tra i cantautori italiani di
scuola classica. Una sorta di Never Ending Tour personale, in cui la sua stessa arte si è
trasformata, seguendo anche qui la lezione dylaniana
della canzone come work in progress,
della performance live come opera artistica non ripetibile
e luogo privilegiato della creatività. Più che un cantautore, De Gregori si
sente ormai il cantante di una (rock) band che suona senza rete.
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De Gregori oggi
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Prendere e lasciare (1996), La valigia dell’attore (1997), Curve nella memoria (1998) e Amore nel pomeriggio (2001): che De Gregori è quello a cavallo
tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila?
De Gregori
in quel periodo ha un po’ smarrito la sua vena melodica e anche la sua
scrittura, pur restando su buoni livelli, si è fatta un po’ meno sorprendente e
originale. Però non si è ritirato nella sua torre d’avorio, ha continuato a
osservare la realtà, a lanciare allarmi, a seminare dubbi. Una sorta di
coscienza critica della canzone italiana. Emblematica, in tal senso, una
canzone totale come L’agnello di Dio,
una sorta di summa del pensiero degregoriano sulle atrocità del mondo contemporaneo, alla
luce di un umanesimo laico, ma non troppo distante dalla prospettiva cristiana.
Pur tra alti e bassi, De Gregori è riuscito in quegli anni a conservare un suo
aristocratico decoro, una fierezza artistica che molti cantautori della sua
generazione hanno perso da tempo. E poi si è sempre distinto per la sua
instancabile attività live.
Cosa spinge
Francesco a incidere nel 2002, insieme con Giovanna Marini, Il fischio del vapore, una raccolta di canzoni popolari italiane?
È una
collaborazione che affonda le radici nei tempi gloriosi del Folkstudio,
ma che riscopre suggestioni ancora più antiche, quelle della canzone popolare
italiana, dei canti di lavoro, di lotta e di libertà. Giovanna Marini era stata
una delle guide del giovane De Gregori e ha continuato a seguirlo
affettuosamente lungo tutta la carriera, tra annotazioni, consigli e incursioni
inaspettate, come nel duetto de L’abbigliamento
del fuochista su Titanic. De
Gregori coltivava da tempo l’idea di riaccostarsi a quella sua storica fonte d’ispirazione
e sul live Fuoco amico aveva già
inserito il traditional L’attentato a Togliatti. Così, dopo
alcune esibizioni live insieme, De
Gregori e la Marini hanno deciso di pubblicare quest’album, che contiene
quattordici tracce, con relative note storiche, provenienti dalla memoria
storica della musica folk italiana.
Da Mix (2003) a Pezzi (2005), da Calypsos (2006) a Per brevità chiamato artista (2008), cosa possiamo trovare delle costanti di Francesco nei suoi
album successivi?
De Gregori
non ha smesso di indagare con occhio spietato la realtà per smascherare nuovi
soprusi e ipocrisie, per inseguire il sogno di una società più giusta. Anche a
costo di risultare predicatorio o di passare per moralista. Pezzi è in tal senso esemplare: una
sorta di istantanea globale del mondo in frantumi, secondo me è il suo album
migliore degli ultimi vent’anni almeno e contiene alcune tracce memorabili,
come La testa nel secchio, che sembra
quasi uscita da un disco dei Giant Sand o dei
Calexico. Con Calypsos, poi, è
tornato alle canzoni d’amore, alle emozioni della sfera individuale,
raccontando i rapimenti d’amore e l’indecifrabilità dei sentimenti. Mentre in Per brevità chiamato artista è riuscito
ancora una volta a raccontare se stesso con lucidità e una punta di autoironia,
come in fondo ha sempre cercato di fare.
Quali
sorprese ci riserva ancora secondo Lei la carriera di Francesco De Gregori?
Difficile
dirlo. Potrebbe ad esempio decidere di virare definitivamente verso la canzone
popolare, e per me sarebbe unottima mossa,
visti anche i risultati ottenuti al fianco di Ambrogio Sparagna nelle
esibizioni dal vivo. Oppure potrebbe continuare a fare quello che gli riesce
meglio: scrivere canzoni, anche se magari non è più assistito dai lampi di
genio di qualche anno fa. Potrebbe anche dar vita a nuove collaborazioni, visto
che è sempre stato molto attivo anche su questo fronte (da quella storica con
Dalla al recente tour con Mannoia, Ron e Daniele). Di
sicuro non lo vedremo mai degenerare, diventare troppo commerciale, banale o
prevedibile, com’è successo invece ad alcuni suoi compagni di viaggio. Ogni
riferimento ad Antonello Venditti è puramente non casuale!
***
Chiudiamo
questo pezzo con il contributo di Giovanna Marini: “Francesco frequentava il Folkstudio quando aveva quindici o sedici anni: veniva a
sentire tutti i canti e gli piacevano molto quelli che cantavo. Mi diceva spesso:
‘Facciamo un disco’. Io non ero mai pronta per fare un disco con lui, perché
avevo sempre cose mie da fare. Quand’avevo sessantacinque anni, pensavo di
andare in pensione, e ho detto: ‘A questo punto facciamolo, però secondo me tu
perdi un sacco di pubblico tuo, perché non accettano che tu canti con me: io invece
non ho niente da perdere e mi fa piacere farlo’. Lui comunque era convinto di
farlo e l’abbiamo inciso: c’ha fatto molto piacere realizzarlo, perché quelle
cose le abbiamo sempre cantate.
Francesco
m’ha ospitata a casa sua: aveva uno studio di registrazione fatto in casa, e sotto
ha messo delle tende per attutire un po’ il suono. Così noi stavamo rilassati e
contenti in campagna: abbiamo registrato divertendoci. È stato molto piacevole
per me: una settimana di riposo. Non c’è stata nessuna discussione: abbiamo
fatto i canti come li facevamo di solito, con la band che si divertiva molto.
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Giovanna Marini e De Gregori (maggio 2003)
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Francesco lo
conosco da molto tempo: si può dire che l’abbia visto crescere. È una persona
che si è formata moltissimo da sola, agendo su sé stesso e addolcendo il suo
carattere. Ha lavorato molto in senso sempre positivo: Francesco è molto serio,
in certi casi addirittura troppo. Pretende il massimo da sé e vuole che anche
gli altri corrispondano a questo suo concetto della cosa fatta bene: io lo
trovo una persona molto amabile. Lo stimo molto nel lavoro: ho visto quanto lui
si appassioni. Per esempio è andato a cercare una chitarra che avesse il suono
come quello di Giovanna Daffini, la mondina che mi ha
insegnato tanti canti che io ho fatto sentire su nastro a Francesco. Si era
appassionato anche lui al lavoro di questa donna che ha insegnato Bella ciao e gli altri canti delle
mondine a tutti noi: è stata bravissima. Lui seguiva tutte le nostre vicende,
anche se lavoravamo in un ambiente musicale diverso dal suo: è andato fino in
Francia a trovare una chitarra che avesse più o meno lo stesso suono di quello
della Daffini. Dopo avere inciso il disco, pensavamo:
‘Questo lo mettiamo da parte: è un mero piacere per noi’. Invece un amico di
Francesco lo ha ascoltato e ha detto: ‘Portalo subito alla Sony: questo è
bellissimo’. C’hanno dato fiducia e così lo abbiamo
realizzato. Francesco è una persona in continua ricerca che comprende tutto il
suo modo di essere: ogni volta che lo incontro per me è una piacevolissima
sorpresa, perché è un progressive man
che ha sempre conquistato qualche cosa in meglio.
Francesco è
un uomo che non imbroglia e che non ha mai finto: ha sempre cercato la verità. Se
lui ha la sensazione che questa verità sia in qualche cosa che è poi
attivamente politico, in quel momento lui si associa. Tuttavia è sempre
possibile che dica: ‘Adesso non va più bene’. È un uomo che cerca sempre le
cose vere”.
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