INTERVISTE
CLAUDIO FABRETTI
Il canto degregoriano sbaffato
di “Rimmel”


  
Una conversazione con l’autore del volume “Francesco De Gregori - Fra le pagine chiare e le pagine scure” (Arcana 2011): parlando degli esordi del cantautore romano al Folkstudio e, quindi, degli album degli anni ’70, tra cui “Bufalo Bill” (forse il suo migliore in assoluto); andando poi da “Titanic” (1982) a “Pezzi” (2005) e riflettendo sulla sua attuale e sempre più intensa attività concertistica, quasi da cantante di una (rock) band che suona senza rete. In chiusura una significativa testimonianza di Giovanna Marini, che con lui ha inciso il bel disco “Il fischio del vapore” (2002).
  



  

 

 

di Alessandro Ticozzi





Francesco De Gregori nel 1979 al tempo di Banana Republic


Formatosi negli anni Settanta al Folkstudio di Roma, Francesco ha ottenuto il suo primo successo, nel 1973, con la canzone Alice: da cosa furono segnati i suoi inizi?

 

All’inizio componeva soprattutto brani folk, nel solco della tradizione americana (Guthrie, Dylan) e della canzone popolare italiana. Per lo più fiabe, ninnananne, ma anche brani dai contenuti politici, sempre però in uno stile molto metaforico ed evocativo. Poi aveva anche un gusto particolare per la canzone satirica: risalgono ai suoi primi anni diverse composizioni di questo tipo, come La ballata di Spiro Agnew, che mette alla berlina il vice del presidente statunitense Richard Nixon, oppure Santa Seicento, che irride la Fiat. Ma ce ne sono anche alcune composte per gli amici, come ad esempio Miele di rose per Giorgio Lo Cascio.

 

Quanto è stato importante l’album Rimmel (1975) nella storia della canzone d’autore italiana anni Settanta?

 

È stato fondamentale, sia per la sua indubbia qualità di scrittura, sia perché ha chiarito una volta per tutte che anche i cantautori politicamente impegnati potevano scrivere canzoni d’amore. Sembra una banalità, ma nel 1975 non lo era affatto. Sul disco uscirono articoli di fuoco, come quello scritto da Giaime Pintor per Linus, che suonava come un atto di accusa fin dal titolo: “De Gregori non è Nobel, è Rimmel”. In pratica, gli imputavano un eccessivo ripiegamento nella sfera introspettiva e individuale. Ovvero, quello che è la vera forza di Rimmel, un disco che sa raccontare un’epoca proprio attraverso le emozioni individuali, con canzoni di straordinaria qualità musicale e testi tra i più belli scritti da De Gregori (da Pezzi di vetro alla stessa title track, ma l’intera tracklist è eccezionale). È il trionfo della sua arte della metafora, dell’enigma e della raffinatezza lirica. È anche il disco che lo ha reso popolare, sdoganandolo presso il grande pubblico che prima lo etichettava con sospetto come un cantautore di sinistra.

 

Possiamo pensare che con l’album Titanic (1982) e la sua canzone capolavoro La donna cannone Francesco abbia raggiunto i vertici della sua arte cantautorale?

 

A mio parere no. I vertici di De Gregori per me sono compresi negli anni Settanta, tra Rimmel, Bufalo Bill (forse il suo album migliore in assoluto) e De Gregori, che è forse il suo più sottovalutato in assoluto. Certamente Titanic è un ottimo disco, ha contribuito a rilanciarlo anche in un decennio che sembrava per lui più difficile, considerati i cambi di gusti e costumi dell’epoca, e contiene almeno due o tre tracce da brividi. La donna cannone è un altro grande pezzo, sicuramente ha ampliato notevolmente la popolarità del suo autore, ma non è in assoluto tra i miei preferiti.

 

Cos’ha spinto Francesco a pubblicare nel 1990 ben tre album dal vivo (Niente da capire, Catcher in the Sky e Musica leggera)?

 

Da molto tempo, la dimensione concertistica è diventata ormai la parte preponderante della sua attività, con una sfilza di date e di dischi live che non ha quasi precedenti tra i cantautori italiani di scuola classica. Una sorta di Never Ending Tour personale, in cui la sua stessa arte si è trasformata, seguendo anche qui la lezione dylaniana della canzone come work in progress, della performance live come opera artistica non ripetibile e luogo privilegiato della creatività. Più che un cantautore, De Gregori si sente ormai il cantante di una (rock) band che suona senza rete.





De Gregori oggi


Prendere e lasciare (1996), La valigia dell’attore (1997), Curve nella memoria (1998) e Amore nel pomeriggio (2001): che De Gregori è quello a cavallo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila?

 

De Gregori in quel periodo ha un po’ smarrito la sua vena melodica e anche la sua scrittura, pur restando su buoni livelli, si è fatta un po’ meno sorprendente e originale. Però non si è ritirato nella sua torre d’avorio, ha continuato a osservare la realtà, a lanciare allarmi, a seminare dubbi. Una sorta di coscienza critica della canzone italiana. Emblematica, in tal senso, una canzone totale come L’agnello di Dio, una sorta di summa del pensiero degregoriano sulle atrocità del mondo contemporaneo, alla luce di un umanesimo laico, ma non troppo distante dalla prospettiva cristiana. Pur tra alti e bassi, De Gregori è riuscito in quegli anni a conservare un suo aristocratico decoro, una fierezza artistica che molti cantautori della sua generazione hanno perso da tempo. E poi si è sempre distinto per la sua instancabile attività live.

 

Cosa spinge Francesco a incidere nel 2002, insieme con Giovanna Marini, Il fischio del vapore, una raccolta di canzoni popolari italiane?

 

È una collaborazione che affonda le radici nei tempi gloriosi del Folkstudio, ma che riscopre suggestioni ancora più antiche, quelle della canzone popolare italiana, dei canti di lavoro, di lotta e di libertà. Giovanna Marini era stata una delle guide del giovane De Gregori e ha continuato a seguirlo affettuosamente lungo tutta la carriera, tra annotazioni, consigli e incursioni inaspettate, come nel duetto de L’abbigliamento del fuochista su Titanic. De Gregori coltivava da tempo l’idea di riaccostarsi a quella sua storica fonte d’ispirazione e sul live Fuoco amico aveva già inserito il traditional L’attentato a Togliatti. Così, dopo alcune esibizioni live insieme, De Gregori e la Marini hanno deciso di pubblicare quest’album, che contiene quattordici tracce, con relative note storiche, provenienti dalla memoria storica della musica folk italiana.





Da Mix (2003) a Pezzi (2005), da Calypsos (2006) a Per brevità chiamato artista (2008), cosa possiamo trovare delle costanti di Francesco nei suoi album successivi?

 

De Gregori non ha smesso di indagare con occhio spietato la realtà per smascherare nuovi soprusi e ipocrisie, per inseguire il sogno di una società più giusta. Anche a costo di risultare predicatorio o di passare per moralista. Pezzi è in tal senso esemplare: una sorta di istantanea globale del mondo in frantumi, secondo me è il suo album migliore degli ultimi vent’anni almeno e contiene alcune tracce memorabili, come La testa nel secchio, che sembra quasi uscita da un disco dei Giant Sand o dei Calexico. Con Calypsos, poi, è tornato alle canzoni d’amore, alle emozioni della sfera individuale, raccontando i rapimenti d’amore e l’indecifrabilità dei sentimenti. Mentre in Per brevità chiamato artista è riuscito ancora una volta a raccontare se stesso con lucidità e una punta di autoironia, come in fondo ha sempre cercato di fare.

 

Quali sorprese ci riserva ancora secondo Lei la carriera di Francesco De Gregori?

 

Difficile dirlo. Potrebbe ad esempio decidere di virare definitivamente verso la canzone popolare, e per me sarebbe un’ottima mossa, visti anche i risultati ottenuti al fianco di Ambrogio Sparagna nelle esibizioni dal vivo. Oppure potrebbe continuare a fare quello che gli riesce meglio: scrivere canzoni, anche se magari non è più assistito dai lampi di genio di qualche anno fa. Potrebbe anche dar vita a nuove collaborazioni, visto che è sempre stato molto attivo anche su questo fronte (da quella storica con Dalla al recente tour con Mannoia, Ron e Daniele). Di sicuro non lo vedremo mai degenerare, diventare troppo commerciale, banale o prevedibile, com’è successo invece ad alcuni suoi compagni di viaggio. Ogni riferimento ad Antonello Venditti è puramente non casuale!

 

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Chiudiamo questo pezzo con il contributo di Giovanna Marini: “Francesco frequentava il Folkstudio quando aveva quindici o sedici anni: veniva a sentire tutti i canti e gli piacevano molto quelli che cantavo. Mi diceva spesso: ‘Facciamo un disco’. Io non ero mai pronta per fare un disco con lui, perché avevo sempre cose mie da fare. Quand’avevo sessantacinque anni, pensavo di andare in pensione, e ho detto: ‘A questo punto facciamolo, però secondo me tu perdi un sacco di pubblico tuo, perché non accettano che tu canti con me: io invece non ho niente da perdere e mi fa piacere farlo’. Lui comunque era convinto di farlo e l’abbiamo inciso: c’ha fatto molto piacere realizzarlo, perché quelle cose le abbiamo sempre cantate.

Francesco m’ha ospitata a casa sua: aveva uno studio di registrazione fatto in casa, e sotto ha messo delle tende per attutire un po’ il suono. Così noi stavamo rilassati e contenti in campagna: abbiamo registrato divertendoci. È stato molto piacevole per me: una settimana di riposo. Non c’è stata nessuna discussione: abbiamo fatto i canti come li facevamo di solito, con la band che si divertiva molto.





Giovanna Marini e De Gregori (maggio 2003)


Francesco lo conosco da molto tempo: si può dire che l’abbia visto crescere. È una persona che si è formata moltissimo da sola, agendo su sé stesso e addolcendo il suo carattere. Ha lavorato molto in senso sempre positivo: Francesco è molto serio, in certi casi addirittura troppo. Pretende il massimo da sé e vuole che anche gli altri corrispondano a questo suo concetto della cosa fatta bene: io lo trovo una persona molto amabile. Lo stimo molto nel lavoro: ho visto quanto lui si appassioni. Per esempio è andato a cercare una chitarra che avesse il suono come quello di Giovanna Daffini, la mondina che mi ha insegnato tanti canti che io ho fatto sentire su nastro a Francesco. Si era appassionato anche lui al lavoro di questa donna che ha insegnato Bella ciao e gli altri canti delle mondine a tutti noi: è stata bravissima. Lui seguiva tutte le nostre vicende, anche se lavoravamo in un ambiente musicale diverso dal suo: è andato fino in Francia a trovare una chitarra che avesse più o meno lo stesso suono di quello della Daffini. Dopo avere inciso il disco, pensavamo: ‘Questo lo mettiamo da parte: è un mero piacere per noi’. Invece un amico di Francesco lo ha ascoltato e ha detto: ‘Portalo subito alla Sony: questo è bellissimo’. C’hanno dato fiducia e così lo abbiamo realizzato. Francesco è una persona in continua ricerca che comprende tutto il suo modo di essere: ogni volta che lo incontro per me è una piacevolissima sorpresa, perché è un progressive man che ha sempre conquistato qualche cosa in meglio.

Francesco è un uomo che non imbroglia e che non ha mai finto: ha sempre cercato la verità. Se lui ha la sensazione che questa verità sia in qualche cosa che è poi attivamente politico, in quel momento lui si associa. Tuttavia è sempre possibile che dica: ‘Adesso non va più bene’. È un uomo che cerca sempre le cose vere”.




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