PRIMO PIANO
NOTE SUL CINEMA FRANCESE
Film d’autore che aggrediscono la modernità borghese


      
Considerazioni sparse sulla cinematografia transalpina, riflettendo sul robusto e pregiato filone del genere poliziesco (da Melville a Courneau, da Clouzot a Sautet, a Deville), confrontato con la corrispondente, assai più povera, produzione italiana. Un focus critico, tra i cineasti colti delle ultime decadi, sulle pellicole di Eugène Green, newyorkese di nascita e parigino per adozione, regista di opere pensose e letterarie dove fermenta il senso di un ritorno a una purezza originaria, a uno spazio immaginario che è quello degli incantamenti infantili, dove il mondo si costruisce per volontà di illusione partecipe.
      



      

 

 

di Michele Goni

 

 

Partendo dalla rilettura attenta del cinema americano, il cinema francese del dopoguerra si è fatto quasi scuola. Tanto che molti allievi finiscono per gareggiare alla pari con i maestri. Non mi riferisco tanto alle vedettes del cinema borghese e intellettuale, scampate, come Rivette e Godard, a un tempo cui sono vieppiù estranei; è piuttosto il poliziesco alla francese di Jean-Pierre Melville, Alain Courneau, Henri-Georges Clouzot e Claude Sautet, cui per completezza si aggrega il fantasioso e letterario Michel Deville di Pericolo nella dimora, che potremmo definire come una scuola di foggia tutta sua: quella del polar. Quelli sopra citati sono autori che alla classica rudezza coloristica del cinema americano – da Raoul Walsh a Robert Aldrich – oppongono una stilizzazione a tinte astratte e livide, tanto esalata da rasentare a momenti il dramma rituale. Non era un caso che Melville intitolasse uno dei suoi film più riusciti Le Samourai (quello da noi conosciuto come Frank Costello - Faccia d'Angelo [1967], storia di un sicario silente nella Parigi degli anni '60 che, come appunto i guerrieri del Giappone feudale, agisce con solitaria dignità), tributando all'astrazione del cinema dell'Oriente uno dei più begli omaggi possibili.

Manca da troppo una storia del cinema francese più recente (nessuno ne azzarda una da un pezzo, fosse pure in sintesi, buona ad aggiornare mappe ormai invecchiate e scollate dalle esperienze del Nouvelle vague's after), ma sono pronto a scommettere che a farla vi brillerebbero non pochi film di genere poliziesco: a partire da quelli dell'ex-questurino Olivier Marchal (ispettore per più di un decennio in Francia, reparto antiterrorismo, uno che dell'argomento dimostra ai fatti di saperla lunga) che, dato l'addio alla professione originaria, con il suo 36 Quai des Orfèvres (2005) eclissa le ormai sbiadite ricognizioni poliziesche di un cinema USA traboccante di paranoia istituzionale (anche se restano le eccezioni di valore, da Hollywood Confidential a I padroni della notte), passando per il Philippe Lefebvre dell'elettrico-barocco Une nuit (2012) e il Jean-François Richet di Nemico Pubblico n° 1 (2008) sull'epopea dell'inafferrabile bandito Mesrine, il Vallanzasca all'ennesima potenza della Francia anni '70. Quai des Orfèvres è la storia di un confronto senza esclusione di colpi tra due colleghi (i divi Daniel Auteil e Gérard Depardieu) per ascendere la poltrona di capo della polizia di Parigi. La spunta il più cinico burocrate; all'altro, più etico e fattivo, e che non esita a sporcarsi le mani per giustizia vera, toccherà il carcere e la sconfitta. Quasi una rilettura victorhughiana della lotta tra Valjean e Javert, dove poliziotto e fuggiasco si scambiano i ruoli. C'è almeno una scena memorabile: quella in cui, alle esequie del vecchio capo ispettore caduto sul campo, i poliziotti girano in blocco le spalle al neo-capataz, mentre le note della Marcia funebre di Chopin scandiscono lugubri la fine di un'era. È un attimo struggente: par di essere di altri tempi, ne L'anno del dragone di Cimino, con il suo gusto popolare per una giustizia di uomini che il mondo vero non sa più.

Ho citato solo tre film, ma l'elenco andrebbe allargato a comprenderne altri tutti di un certo spessore, testimonianza del permanere di una scuola, di un mestiere consolidato; ma anche, e soprattutto, di una tensione.

A tutti questi film è propria una certa spigliatezza d'appendice: rapidi abbozzi di personaggi sostenuti da una spigliata tipizzazione e da ottimi dialoghi, sempre al servizio di un intreccio energico. Servono poi da valore aggiunto le facce patibolari di comprimari o protagonisti beur memorabili (vedi la maschera di un Roschdy Zem). Sono le caratteristiche del feuilleton, o anche del 'realista' (devoto alla corona) Balzac, nelle cui vicende l'individuo è la somma dei suoi attributi sociali. Volendo, quindi, il poliziesco rappresenta un passo indietro verso le forme primarie della narrativa moderna, quelle pre-flaubertiane (o pre-proustiane), stando l'autore di Madame Bovary come fondatore del romanzo borghese psicologico. 

È certo un segno del mutare dei tempi. Sbiadita la Parigi novecentesca surrealista e dei suoi successori, si torna al pensiero borghese e popolare dell'ordine certo, con l'aggiunta di un ringalluzzito nazionalismo. Resta però forte l'impressione di solidità che caratterizza tanti film di autori non tutti certo di primo piano. Una Francia cinematografica contemporanea, dei tanti film di buona stoffa minore, che, più muscolare e meno propensa alle scommesse col diavolo (il cinema colto), sembra una parente in piccolo (specie se si confrontano le rispettive strutture produttive) del vecchio cinema americano, con le sue risorse di grande mestiere e artigianato.

Altro possibile accostamento tra due cinematografie per altri versi così distanti (si pensi alla libertà mentale del cinema francese e al ristretto orizzonte puritano di quello americano) è il permanere di una vivacità culturale di fondo: la ricca presenza di film, anche non perfetti e maiuscoli, in cui pure si avverte un confronto con una storia ancora viva. Così, da I miserabili si può ancora attingere, magari (è il caso del cinema di Marchal) per narrare la redenzione di un poliziotto vessato ingiustamente, tra scorribande che restituiscono all'urbe parigina una dimensione sfolgorante di epica.





Tanta vitalità non è di tutte le cinematografie. Non di quella italiana, ad esempio. Il solo vero poliziotto 'duro e puro', garante di una giustizia senza macchia, si diede nei fumetti: era, ed è, perseverando nel tempo la sua fortuna editoriale, il Tex Willer di Gian Luigi Bonelli. Caso esemplare di perpetuarsi, benignamente stemperato, di un ideale di giustizia manzoniano, con tanto di giustizia a mano libera. 

Più raro sarà l'affacciarsi al cinematografo italiano di input di ordine e onestà sotto forma di impulso schietto e affocato. Si esclude da sé l'involontaria caricatura tribunizia di Di Pietro, che pure a una allure televisiva da divo doveva non poche delle sue fortune. Al caso meglio si attagliano l'ironia e lo sbeffeggio amaro della commedia all'italiana: tra il Commissario Pepe e In nome del popolo italiano, gli esempi più illustri. Ma restano referti sociologici di una civiltà sgomenta e turbata nel transito dalle campagne alla città del boom e della ricchezza improvvisa.

Il poliziesco italiano vero e proprio, con il suo aggregato naturalista di violenza e scorci criminali, avrà invece solo cantori marginali come Fernando di Leo o Umberto Lenzi, sospesi tra una vena spiritata e popolare e il corrivo aderire alle più spicce formule del genere simil-USA.

Specie Di Leo resta un caso nel cinema italiano: quasi un Matarazzo violento e senza ironia del Rione Sanità, o se si vuole, un anti-Mario Soldati spregiatore della bella forma; quella che subito riaggallò al richiamo provvidenziale dei primi anni '90, tra gli spiriti miracolati che venivano spurgandosi degli umori esausti della protesta. Spianando intanto la strada alle arcadie a venire, dove pure a un Visconti (fatte salve le apparenze) toccherà di essere guardato con degnazione.

Di Leo resta uno di quei registi che agli esegeti maggiori del cinematografo dispiacerà sempre, specie perché troppo studiatamente rozzo e in contrasto con la vocazione formale dominante. Come l'altro suo conterraneo Pasquale Squitieri, che da Il prefetto di ferro a Il pentito, passando per il davvero splendido e dimenticato I guappi (storia tragica e in costume di uomini di coltello nella Napoli dell''800, girata con sontuoso furore cromatico) costruisce una piccola storia a parte del cinema italiano, nel quale, fuori della vena ufficiale tutta istrionica e oleografica di una Napoli 'da cantare' (tra il Totò d'antan e le risorgenze periodiche del bozzettismo dei comici minori, senza trascurare il genius loci delle mitologie languide e sanguigne dei neo-melodici, da Mario Merola a Nino d'Angelo in poi), la città si rivela teatro potentemente barocco e anti-formalista di un espressionismo popolare degno di un Fuller di provincia. Dove si lotta con il coltello tra i denti per una dignità non servile. Era il principio dei westerner più solitari, o delle fantasie dei polizieschi o gangster movies dei tempi d'oro. 

Fuori di questa torbida e viscerale vena popolare, sono acque più chete e limpide. Sorvolando sulla oleografia istituzionale del 'carabbiniere' da prima serata (ma anche il ritorno in auge di parroci e sacerdoti a tutte le ore è assai temibile in chiave di un ritorno all'ordine), l'arco degli esempi va dalle placide strenne di un Montalbano – i cui scorci panoramici e la pacata serenità prosastica discendono anch'essi alla lontana da una mitologia della provincia tutta manzoniana - al tentativo storico-epico di Romanzo criminale. Il film di Placido (ex-poliziotto anche lui, come già il più di lui valente Marchal, a sua volta, come l'italiano, attore e comparsa di pregio: due figure a specchio nei rispettivi contesti) si risolveva in una visitazione in toni filodrammatici di parte dell'ampio cono d'ombra che copre la storia d'Italia recente. Mancava, il film, di una dorsale d'arte, di una stilizzazione a dare un significato.

Come tutti i mestieranti senza vocazione, il Placido regista si sofferma su fenomeni di superficie, in questo caso i caratteri duri e brutali che conferiscono il tipico tono di genere al film, non ha quindi l'autore un'idea. Come già prima di lui Leone (che però era regista di più solido mestiere, sia pure grossolano nelle sue burle grevi e ammiccanti), Placido confida troppo nell'effetto di realtà della macchina da presa.

Nel fondo di Romanzo criminale si avverte la mancanza di una dialettica tra la cultura dell'autore (che è cosa di poco conto, solvibile come abilità professionale) e il materiale narrativo; ne risulta quell'arte senz'arte, senza costrutto, che è il marchio degli autori mancati, dei meri professionisti di settore. Non è da cercarne ragione in fondamenti estetici, quanto piuttosto nella mancanza di un fine che non sia il semplice sensazionalismo di cronaca.

L'effetto di bruto realismo è la più primitiva delle risorse del cinema, fatto che nell'evoluzione pareva ormai condannato a sparire. Da noi perdura e dilaga oltre che per una rozzezza civile di fondo, anche perché il genere non ha riserve di realtà (culturali, morali, storiche) a cui attingere. A quale idea positiva di Stato rifarci, ad esempio? Su quale fondo, sia pure sedimentato e distante, poggiare una durevole mitologia delle istituzioni, quando le più edificanti esperienze individuali rimandano in Italia a virtù in conflitto con il contesto, quasi perpetuandosi nel tempo gli stessi casi, con poche significative varianti? Il Mori silurato dal fascismo ne Il prefetto di ferro, vale i giudici che combatterono la mafia a prezzo della chiorba nella Sicilia del recente passato. In queste immolazioni in serie, i servitori dello Stato non sono eroi sfolgoranti o capipopolo, paiono piuttosto santi e martiri crepuscolari chiusi nella lugubre solitudine astratta di una sconfitta certa. Vale per tutti allora il Cadaveri eccellenti di Rosi, con il suo senso di mistero grottesco aleggiante e inafferrabile.

Non c'è insomma alle spalle della storia patria quel vissuto comune che garantisce l'identificarsi di una collettività in un qualche passato glorioso che è la premessa di ogni epos.

Il poliziesco resta non a caso spazio elettivo di cinematografie che hanno alle spalle una tradizione storica temprata anche sotto l'aspetto simbolico. Come gli Stati Uniti e la Francia, che sul mito dello stato moderno, illuminista e laico, poggiano le fondamenta di istituzioni aggregate da fatti memorabili. Lo Stato è garante delle lotte e delle scelte che i personaggi compiono nei film, definendosi come proiezioni simboliche di una verifica itinerante di un problema morale (il cinema USA) o di un modello culturale (il cinema francese). I film migliori di queste nazioni, in cui pure s'avanza la percezione crepuscolareggiante del declino della comunità, trasmettono sempre un senso di realtà che nasce dalla tensione delle forze in lotta nei sistemi sociali.

L'immoralità tribale, il torbidume degli ammicchi e delle connivenze, che vanificano slanci e contrasti, condannano la storia a perpetuarsi in una immobilità in cui i personaggi sono costretti al grottesco di una storia tragicomica. Copia scandalosa e surrettizia della società illuminista, l'Italia eleggerà a suoi campioni simboli minori, per lo più comici o sentimentali, cui mai si è perdonato l'oltraggio di essere a volte più veri del vero, fino a mostrare il re nudo nelle viscere.

Ecco allora l'Otello Celletti de Il vigile di Luigi Zampa, strepitoso trattato di realismo caustico anti-democristiano in cui non va sprecata battuta: un condensato di atrocità piccolo-borghesi, tra ignobiltà e viltà che ne sono il corollario. È l'altra faccia del popolino cantato e preso in carico dal neorealismo e poi dalle sue filiazioni: tra l'oscenità in filigrana pornografica del Roma città aperta e il più veritiero epos romanzesco di Rocco e i suoi fratelli, il solo, di tutti i ritratti sul popolo fatti dal nostro cinematografo, degno di figurare al fianco di quelli di un Kazan, pur con tutti i suoi nobili limiti di realismo letterario (ma anche con mirabili segni di perfidia che tralignano qua e là: vedi quell'"Arrivano i Parondi!", quasi uno squillo caricaturale, che dagli anni '60 risale sino al nord dei raduni confederali più tardi, nella Padania in fiamme di un proletariato nordico che non è più disposto a condividere i frutti del suo agiato benessere). Quello de Il vigile fu il risvolto realistico, senza il freno di pedagogie retoriche (il mito del bel popolo) obliose, troppo presto dimentiche degli anni in cui le adunate in piazza erano quelle della plebe fascista.





Seppure la potente stilizzazione dei polizieschi dia lustro a tutta una cinematografia, essa non esaurisce la storia intera del cinema francese. Pure se la cinematografia dei lumi intellettuali non è più. Tra i cineasti colti brillano oggi le firme non laiche dei fratelli Dardenne e dell'esistenziale  (ed ex-professore di filosofia) Bruno Dumont[1]; oppure come opposto perfetto, il socialista Guédiguian. Resta poi il cumulo dei non catalogati e degli inediti in Italia, con cui tra qualche anno si rischia di dover fare i conti severamente per tracciare bilanci meno provvisori di quel che non risulta questo mio abbozzo.

Tra gli eredi confessi della tradizione colta, e da noi inedito, è Eugène Green, newyorkese di nascita e parigino per adozione. Questo paladino del cinema scelto, oltre che cineasta, regista di teatro e romanziere, è l'autore di un breve libello tra il teorico e il pratico pubblicato qualche anno fa: Poétique du cinématographe. Il cinema vi è disegnato come estremo erede, in ordine temporale, di quella cultura barocca ampiamente passata in rassegna negli ultimi anni, dalla letteratura alla pittura attraverso la musica; forma atta, per la sua natura insieme tangibile e illusoria di miraggio, a unire in sintesi l'elemento razionale cartesiano con quello più eminentemente onirico e sfuggente del Calderón de La vita è sogno: "Des nos jours, la seule forme d'expression qui retrouve intégralement l'oxymore baroque est le cinématographe: il enregistre le monde comme une réalité, et le fait apparaître comme un rêve, en nous y dévoilant un monde caché, plus solide que l'autre"[2].

Nulla di che scuotersi, ma poi monta la polemica contro il materialismo e l'illuminismo: "Dans un effort frénétique d'achever l'oeuvre du siècle dit des lumières, le XXe siècle a voulu que rien ne demeurât caché: la psychanlyse a cherché à remplacer le mystère de l'être par un flux rationnel de comportement, et le marxisme voyait la matière comme une finalité, avec sa propre logique et son propre sens. Cela a abouti enfin au marché mondial, déplacement de masses de matière qui se vendent et qui s'achètent, en récusant tout sens. La trouvaille pour rendre apparente cette visibilité universelle, c'est la télévision, à laquelle rien ne s'oppose davantage que le cinématographe"[3]. È evidentemente una 'caccia' alla grazia, compiuta  per contrasto ecologico con il mondo odierno e le sue tradizioni materialiste e anti-spiritualiste. Green è in questo l'erede per eccellenza di un Bresson, dal quale lo separa però la concezione più austera della trascendenza del regista francese. È l'altra faccia di una critica alla modernità borghese che anziché aggredire il sistema alle sue radici economico-culturali (vedi la critica della separazione di un Debord), lo aggira, rifacendosi al mito di una semplicità originaria e spirituale.

Ecco allora film come Toutes les nuits (2001), liberamente ispirato all'intreccio della prima versione de L'educazione sentimentale di Flaubert. La Francia del '68 vi fa da sfondo storico e riferimento polemico: per il regista è l'età in cui la ragione inizia il suo declino, evidente tanto nell'odio per l'arte (come manifestazione borghese[4]), quanto nell'esibizione di un fanatismo vacuo[5]. I protagonisti sono due amici le cui vicende scorrono parallele tra il '67 e il '79, a partire da quando un giorno scorgono, quasi ninfa pagana, la silhouette nuda di una donna al bagno in un torrente. È l'epifania simbolica di un tema (il femminile, la notte, l'oscurità, la poesia, la musica) che attraversa modulandolo il film come un leitmotiv. Alla fine del film, è un'invocazione misterica al  risolversi entro un ordine superiore in cui "tutto si dissolve e dove tutto diventa possibile". 

Il lungometraggio successivo, Le Pont des Arts (2004), riprende gli stessi motivi, appuntando una critica più circoscritta al mondo degli esperti del barocco musicale e dell'accademia in generale. Anche qui la storia è un circuito di spiriti lontani, che finiscono per convergere in un metafisico slancio di grazia. I protagonisti sono uno studente parigino deluso che ha in uggia un insegnamento della poesia ridotto a grottesche recite vocaliche, e una sublime cantante barocca vessata da un arcigno maestro di musica che ha il solo merito delle giuste conoscenze. Quasi un mito di Orfeo a rovescio, percorso da struggenti arie monteverdiane: il giovane studente sarà salvato dal suicidio in atto dall'ascolto di un disco della cantante, che nel frattempo si è suicidata, vittima dell'ennesima vessazione del maestro. I due si ritroveranno di là della morte 'sul ponte dell'arte' che dà il titolo al film, sciolti dal conformismo imperante.

A Religiosa Portuguesa (2009) mi pare tra tutti il film più stanco. È la storia di un'attrice cinematografica vittima di uno sdoppiamento di personalità tra le vie di Lisbona. Attratta da più uomini nel suo girovagare tra le strade della capitale portoghese, la protagonista subisce il fascino di una monachella devota, usa a trascorre le sue serate in compunta preghiera. L'amore da voluttuoso si tramuta in mistico schiudendo nuovi orizzonti, che dal laicismo dubbioso paiono adire a una sorta di più tenace e fremente spiritualità.





Un fotogramma di Le monde vivant (2003), regia di Eugène Green


Una sorta di manifesti d'intenti si trova allora nel secondo film in ordine temporale, Le monde vivant (2003), che precede Le Pont des Arts e rappresenta una bizzarra e letteraria evocazione stilizzata, a metà tra il fiabesco e il poema classico. La storia racconta di due bambini che un orco rapisce per divorarli. Saranno salvati dal duplice intervento di due cavalieri erranti. La storia è esilissima, la scommessa è tutta formale. In una scena ridotta a pochi scorci naturali, è la parola che si sobbarca l'incombenza di restituire il mondo vivente, dando corpo alla pluralità delle sue voci in una recitazione teatrale: dall'orco di cui non vediamo mai il volto, alla pianta incantatrice, giù fino al cane-leone, fido compagno di uno dei cavalieri. Gli attori recitano fissati iconicamente al centro dell'inquadratura, sempre ripresa frontalmente. Tutto esiste per tramite di una lingua creatrice, fuori di essa è il nulla. È un principio teologico e il regista lo addita in apertura del film come ispiratore: "Si Dieu manquait à sa parole, sa vérité, il manquerait à sa divinité, il ne serait pas Dieu car il est sa parole et sa vérité".  Sono parole di Meister Eckhart, il mistico tedesco. Nel cinema di Green hanno valore quasi di programma ingenuo e regressivo, nel senso di un ritorno a purezza originaria: a quel modo immaginario che è degli incantamenti infantili, dove il mondo si costruisce per volontà di illusione partecipe.

È anche, volendo, il principio del cinema stesso, sia pure ridotto ai suoi minimi termini. Rifuggendo le razionalizzazioni dello spirituale operate nel tempo ora dal gesuitismo, ora dalla psicanalisi[6], è come se nel cinema di Green il cinema di realtà documentaria (Lumière) e quello di fantasmagoria frenetica (Méliès) trovassero un accordo per sottrazione; quasi che, seguendo il filo di una teologia negativa, la rinuncia al mondo esteriore e la negazione dell'iperbole inventiva congiurassero per l'incanto di un'epifania: proposta divagante dal chiacchiericcio dell'intellettualismo chic, ma anche rispetto al più bolso e Può essere; ma resta una soluzione giocata sul primitivismo e sul naif, al riparo dal rischio di un grande cinema.

Ne riesce una sorta di arcadica e lirica evocazione del pulsare intenso di una forma estetica cui si affida il riscatto di un mondo inemendabile. Più le astrazioni coloristiche e temperate di uno Hou Hsiao-Hsien che non le rituali forme di trascendenza di uno Yasujirô Ozu o del succitato Bresson. Oppure, stando all'ambito letterario, più Flaubert che Balzac[7], in un culto evocativo dell'inazione che nel suo anti-wagnerismo, o meglio anti-hollywoodianesimo, figura una battaglia di Roncisvalle alla Ocelot, tra silhouettes di pupi, spade di latta e elmi di cartone.

L'azione cinematografica come verità e violenza, o come turbamento e trasalimento tenue: son le due diverse vie battute da Marchal e Green, registi che in comune hanno solo l'avversione compatta dell'establishment. Il disamore (chiamiamolo così) per Marchal, somiglia a quello tributato al Luc Besson degli anni '90, inemendabile regista di cassetta agli occhi della più contegnosa intellighenzia; Green paga invece un certo anti-intellettualismo di marca spiritualeggiante, sospetto agli epigoni della kultur cinematografara - ma anche, come  pare di intuire da Le Pont des Arts, una serie di attriti coi circuiti salottieri parigini.

Il tempo cambia: quel cinema che fu un tempo rifugio d'elezione per reietti, avventurieri e stravaganti fuori registro, non è davvero più. Oggi vale un metro museale e accomodante, senza impennate furibonde. E chi stempera acconsente.

 

 

 

 

 



[1]                  

[2]             Eugène Green, Poétique du cinémaotgraphe, Actes Sud, 2009, p. 18.

[3]             Eugène Green, Op. cit., p.24.

[4]             La lettura “sonora” che Jules (uno dei due protagonisti) fa dei versi di Verlaine è contestata con giudizi beffardi da colleghi e professore, agguerriti rappresentanti della schiera di intellettuali engagés molto attivi in quegli anni, a cui Jules risponde perplesso: “Verlaine credeva che senza musica la poesia non può esistere”. “E tu cosa credi?”- fa il professore. “Io credo che la musica sia il segno necessario della poesia e in assoluto la poesia sia un’altra cosa. In ogni serie di rumori è possibile rilevare sequenze ritmiche, ma il rumore non è musica e la poesia è la presenza manifesta nel linguaggio…”. “Di cosa?”. “Di un ordine, non parlo di un ordine politico”. “ Tutto è politico!”. “Si tratta di un regno dello spirito, è qualcosa di universale, quello che si può sentire quando si è da soli in una chiesa…”. “Non ho mai sentito qualcuno della tua età rilasciare una dichiarazione così reazionaria”. La traduzione dei dialoghi è a cura di Paola di Giuseppe ed è contenuta nell'articolo Eugène Green, il mondo vivente 1/6: Toutes les nuits pubblicato sul sito di Indie-eye, url http://www.indie-eye.it/cinema/recensioni/eugene-green-il-mondo-vivente-16-toutes-les-nuits-francia-2001.html#ts-fab-latest-posts-template-tag-387-892-698.

[5]             Sullo stessa linea, anche se più attento, nei film, nella ricostruzione del panorama storico del tempo, è l'Edgar Reitz dei fluviali Heimat: “L’ideologia del ’68 condannava e criminalizzava l’arte come attività borghese, riservata nel migliore dei casi ai collettivi. Non osavo più seguire le mie idee, ero bloccato dall’ideologia del movimento studentesco in cui credevo, perché si accordava con il mio idealismo democratico. In definitiva direi che il ’68 non ha realizzato la sua rivoluzione e dall’altra ha creato una profonda insicurezza artistica distruggendo una certa tradizione culturale.” E. Reitz, cit. in Cronaca di un secolo concluso, la trilogia di Heimat di Edgar Reitz, a cura di T.Subini, Temi di cinema/3, 2007, p. 262. Citato sempre da Paola de Giuseppe, http://www.indie-eye.it/cinema/recensioni/eugene-green-il-mondo-vivente-16-toutes-les-nuits-francia-2001.html#ts-fab-latest-posts-template-tag-387-892-698.

[6]             "La transformation la plus radicale de la présence réelle en présence symbolique a été opérée au XVIê et XVIIê siècles la Compagnie de Jésus, dont les efforts de représentation tendaient à transformer l'ineffable en formes visibles et anodines rentrant dans un ordre temporel et rationnel. Ce travail a été repris et continué à partir de la fin du XXê siècle par les psychanalystes. Le cinématoghraphe ne peut être ni jésuite ni freudien".  Eugène Green, Op. cit., p. 50.  

[7]             "Dans la culture atticiste on dit souvente que Balzac 'peint' ses personnages, mais il en fournit plutôt des fiches descriptives. C'est pourquoi il n'est ni peintre ni écrivain. Flaubert a cherché à décrire des situations et des êtres vus, de telle sorte que, sans que nous nous en rendions compte, les mots dont il se servait comme signes rationnels pour représenter une réalité matérielle dévoilaient en eux la présence spirituelle qui est le propre de la parole". Eugène Green, Op. cit., pp. 42-43.




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