di Michele Goni
Partendo dalla
rilettura attenta del cinema americano, il cinema francese del dopoguerra si è
fatto quasi scuola. Tanto che molti allievi finiscono per gareggiare alla pari
con i maestri. Non mi riferisco tanto alle vedettes
del cinema borghese e intellettuale, scampate, come Rivette
e Godard, a un tempo cui sono vieppiù estranei; è piuttosto il poliziesco alla
francese di Jean-Pierre Melville, Alain Courneau,
Henri-Georges Clouzot e Claude Sautet,
cui per completezza si aggrega il fantasioso e letterario Michel Deville di Pericolo nella dimora, che potremmo
definire come una scuola di foggia tutta sua: quella del polar.
Quelli sopra citati sono autori che alla classica rudezza coloristica del
cinema americano – da Raoul Walsh a Robert Aldrich –
oppongono una stilizzazione a tinte astratte e livide, tanto esalata da rasentare a momenti il dramma rituale. Non era
un caso che Melville intitolasse uno dei
suoi film più riusciti Le Samourai (quello da
noi conosciuto come Frank Costello - Faccia d'Angelo [1967], storia di
un sicario silente nella Parigi degli anni '60 che, come appunto i guerrieri
del Giappone feudale, agisce con solitaria dignità), tributando all'astrazione
del cinema dell'Oriente uno dei più begli omaggi possibili.
Manca da troppo una storia del cinema francese più
recente (nessuno ne azzarda una da un pezzo, fosse pure in sintesi, buona ad
aggiornare mappe ormai invecchiate e scollate dalle esperienze del Nouvelle vague's after), ma sono
pronto a scommettere che a farla vi brillerebbero non pochi film di genere
poliziesco: a partire da quelli dell'ex-questurino Olivier Marchal (ispettore
per più di un decennio in Francia, reparto antiterrorismo, uno che
dell'argomento dimostra ai fatti di saperla lunga) che, dato l'addio alla
professione originaria, con il suo 36 Quai des Orfèvres (2005) eclissa
le ormai sbiadite ricognizioni poliziesche di un cinema USA traboccante di
paranoia istituzionale (anche se restano le eccezioni di valore, da Hollywood
Confidential a I padroni della notte),
passando per il Philippe Lefebvre dell'elettrico-barocco Une nuit (2012) e il Jean-François Richet
di Nemico Pubblico n° 1 (2008) sull'epopea dell'inafferrabile bandito Mesrine, il Vallanzasca all'ennesima potenza della Francia
anni '70. Quai des
Orfèvres è la storia di un confronto senza
esclusione di colpi tra due colleghi (i divi Daniel Auteil
e Gérard Depardieu) per ascendere la poltrona di capo della polizia di Parigi.
La spunta il più cinico burocrate; all'altro, più etico e fattivo, e che non
esita a sporcarsi le mani per giustizia vera, toccherà il carcere e la
sconfitta. Quasi una rilettura victorhughiana della
lotta tra Valjean e Javert,
dove poliziotto e fuggiasco si scambiano i ruoli. C'è almeno una scena
memorabile: quella in cui, alle esequie del vecchio capo ispettore caduto sul
campo, i poliziotti girano in blocco le spalle al neo-capataz, mentre le note
della Marcia funebre di Chopin scandiscono lugubri la fine di un'era. È
un attimo struggente: par di essere di altri tempi, ne L'anno del dragone
di Cimino, con il suo gusto popolare per una giustizia di uomini che il mondo
vero non sa più.
Ho citato solo
tre film, ma l'elenco andrebbe allargato a comprenderne altri tutti di un certo
spessore, testimonianza del permanere di una scuola, di un mestiere
consolidato; ma anche, e soprattutto, di una tensione.
A tutti questi
film è propria una certa spigliatezza d'appendice: rapidi abbozzi di personaggi
sostenuti da una spigliata tipizzazione e da ottimi dialoghi, sempre al
servizio di un intreccio energico. Servono poi da
valore aggiunto le facce patibolari di comprimari o protagonisti beur memorabili (vedi la maschera di un Roschdy Zem). Sono le
caratteristiche del feuilleton, o anche del 'realista' (devoto alla
corona) Balzac, nelle cui vicende l'individuo è la somma dei suoi attributi
sociali. Volendo, quindi, il poliziesco rappresenta un passo indietro verso le
forme primarie della narrativa moderna, quelle pre-flaubertiane
(o pre-proustiane), stando l'autore di Madame
Bovary come fondatore del romanzo borghese psicologico.
È certo un segno del mutare dei tempi. Sbiadita la
Parigi novecentesca surrealista e dei suoi successori, si torna al pensiero
borghese e popolare dell'ordine certo, con l'aggiunta di un ringalluzzito
nazionalismo. Resta però forte l'impressione di solidità che caratterizza tanti
film di autori non tutti certo di primo piano. Una Francia cinematografica
contemporanea, dei tanti film di buona stoffa minore, che, più muscolare e meno
propensa alle scommesse col diavolo (il cinema colto), sembra una parente in
piccolo (specie se si confrontano le rispettive strutture produttive) del
vecchio cinema americano, con le sue risorse di grande mestiere e artigianato.
Altro possibile accostamento tra due cinematografie
per altri versi così distanti (si pensi alla libertà mentale del cinema
francese e al ristretto orizzonte puritano di quello americano) è il permanere
di una vivacità culturale di fondo: la ricca presenza di film, anche non
perfetti e maiuscoli, in cui pure si avverte un confronto con una storia ancora
viva. Così, da I miserabili si può ancora attingere, magari (è il caso
del cinema di Marchal) per narrare la redenzione di un poliziotto vessato
ingiustamente, tra scorribande che restituiscono all'urbe parigina una
dimensione sfolgorante di epica.
Tanta vitalità non è di tutte le cinematografie. Non
di quella italiana, ad esempio. Il solo vero poliziotto 'duro e puro', garante di una giustizia senza macchia, si diede nei
fumetti: era, ed è, perseverando nel tempo la sua fortuna editoriale, il Tex
Willer di Gian Luigi Bonelli. Caso esemplare di perpetuarsi, benignamente
stemperato, di un ideale di giustizia manzoniano, con tanto di giustizia a mano
libera.
Più raro sarà l'affacciarsi al cinematografo italiano
di input di ordine e onestà sotto forma di impulso schietto e affocato.
Si esclude da sé l'involontaria caricatura tribunizia di Di
Pietro, che pure a una allure televisiva da divo doveva non poche delle
sue fortune. Al caso meglio si attagliano l'ironia e lo sbeffeggio amaro della
commedia all'italiana: tra il Commissario Pepe e In nome del popolo
italiano, gli esempi più illustri. Ma restano referti sociologici di una
civiltà sgomenta e turbata nel transito dalle campagne alla città del boom
e della ricchezza improvvisa.
Il poliziesco italiano vero e proprio, con il suo
aggregato naturalista di violenza e scorci criminali, avrà invece solo cantori
marginali come Fernando di Leo o Umberto Lenzi, sospesi tra una vena spiritata
e popolare e il corrivo aderire alle più spicce formule del genere simil-USA.
Specie Di Leo resta un caso nel cinema italiano:
quasi un Matarazzo violento e senza ironia del Rione Sanità, o se si vuole, un
anti-Mario Soldati spregiatore della bella forma; quella che subito riaggallò al richiamo provvidenziale dei primi anni '90,
tra gli spiriti miracolati che venivano spurgandosi degli umori esausti della
protesta. Spianando intanto la strada alle arcadie a venire, dove pure a un
Visconti (fatte salve le apparenze) toccherà di essere guardato con degnazione.
Di Leo resta uno di quei registi che agli esegeti
maggiori del cinematografo dispiacerà sempre, specie perché troppo
studiatamente rozzo e in contrasto con la vocazione formale dominante. Come
l'altro suo conterraneo Pasquale Squitieri, che da Il
prefetto di ferro a Il pentito, passando per il davvero splendido e
dimenticato I guappi (storia tragica e in costume di uomini di coltello
nella Napoli dell''800, girata con sontuoso furore cromatico) costruisce una
piccola storia a parte del cinema italiano, nel quale, fuori della vena
ufficiale tutta istrionica e oleografica di una Napoli 'da cantare' (tra il
Totò d'antan e le risorgenze
periodiche del bozzettismo dei comici minori, senza trascurare il genius loci delle mitologie languide e
sanguigne dei neo-melodici, da Mario Merola a Nino d'Angelo in poi), la città
si rivela teatro potentemente barocco e anti-formalista di un espressionismo
popolare degno di un Fuller di provincia. Dove si
lotta con il coltello tra i denti per una dignità non servile. Era il principio
dei westerner più solitari, o delle
fantasie dei polizieschi o gangster movies dei
tempi d'oro.
Fuori di questa torbida e viscerale vena popolare,
sono acque più chete e limpide. Sorvolando sulla oleografia istituzionale del 'carabbiniere' da prima serata (ma anche il ritorno in auge
di parroci e sacerdoti a tutte le ore è assai temibile in chiave di un ritorno
all'ordine), l'arco degli esempi va dalle placide strenne di un Montalbano – i
cui scorci panoramici e la pacata serenità prosastica discendono anch'essi alla
lontana da una mitologia della provincia tutta manzoniana - al tentativo
storico-epico di Romanzo criminale. Il film di Placido (ex-poliziotto
anche lui, come già il più di lui valente Marchal, a sua volta, come
l'italiano, attore e comparsa di pregio: due figure a specchio nei rispettivi
contesti) si risolveva in una visitazione in toni filodrammatici di parte
dell'ampio cono d'ombra che copre la storia d'Italia recente. Mancava, il film,
di una dorsale d'arte, di una stilizzazione a dare un significato.
Come tutti i mestieranti senza vocazione, il Placido
regista si sofferma su fenomeni di superficie, in questo caso i caratteri duri
e brutali che conferiscono il tipico tono di genere al film, non ha quindi
l'autore un'idea. Come già prima di lui Leone (che però era regista di più
solido mestiere, sia pure grossolano nelle sue burle grevi e ammiccanti),
Placido confida troppo nell'effetto di realtà della macchina da presa.
Nel fondo di Romanzo criminale si avverte la
mancanza di una dialettica tra la cultura dell'autore (che è cosa di poco
conto, solvibile come abilità professionale) e il materiale narrativo; ne
risulta quell'arte senz'arte, senza costrutto, che è il marchio degli autori
mancati, dei meri professionisti di settore. Non è da cercarne ragione in
fondamenti estetici, quanto piuttosto nella mancanza di un fine che non sia il
semplice sensazionalismo di cronaca.
L'effetto di bruto realismo è la più primitiva delle
risorse del cinema, fatto che nell'evoluzione pareva ormai condannato a
sparire. Da noi perdura e dilaga oltre che per una rozzezza civile di fondo,
anche perché il genere non ha riserve di realtà (culturali, morali, storiche) a
cui attingere. A quale idea positiva di Stato rifarci, ad esempio? Su quale
fondo, sia pure sedimentato e distante, poggiare una durevole mitologia delle
istituzioni, quando le più edificanti esperienze individuali rimandano in
Italia a virtù in conflitto con il contesto, quasi perpetuandosi nel tempo gli
stessi casi, con poche significative varianti? Il Mori silurato dal fascismo ne
Il prefetto di ferro, vale i giudici che combatterono la mafia a prezzo
della chiorba nella Sicilia del recente passato. In
queste immolazioni in serie, i servitori dello Stato non sono eroi sfolgoranti
o capipopolo, paiono piuttosto santi e martiri crepuscolari chiusi nella
lugubre solitudine astratta di una sconfitta certa. Vale per tutti allora il Cadaveri
eccellenti di Rosi, con il suo senso di mistero grottesco aleggiante e inafferrabile.
Non c'è insomma alle spalle della storia patria quel
vissuto comune che garantisce l'identificarsi di una collettività in un qualche
passato glorioso che è la premessa di ogni epos.
Il poliziesco resta non a caso spazio elettivo di
cinematografie che hanno alle spalle una tradizione storica temprata anche
sotto l'aspetto simbolico. Come gli Stati Uniti e la Francia, che sul mito
dello stato moderno, illuminista e laico, poggiano le fondamenta di istituzioni
aggregate da fatti memorabili. Lo Stato è garante delle lotte e delle scelte
che i personaggi compiono nei film, definendosi come proiezioni simboliche di
una verifica itinerante di un problema morale (il cinema USA) o di un modello
culturale (il cinema francese). I film migliori di queste nazioni, in cui pure
s'avanza la percezione crepuscolareggiante del
declino della comunità, trasmettono sempre un senso di realtà che nasce dalla
tensione delle forze in lotta nei sistemi sociali.
L'immoralità tribale, il torbidume degli ammicchi e
delle connivenze, che vanificano slanci e contrasti, condannano la storia a
perpetuarsi in una immobilità in cui i personaggi sono costretti al grottesco
di una storia tragicomica. Copia scandalosa e surrettizia della società
illuminista, l'Italia eleggerà a suoi campioni simboli minori, per lo più
comici o sentimentali, cui mai si è perdonato l'oltraggio di essere a volte più
veri del vero, fino a mostrare il re nudo nelle viscere.
Ecco allora l'Otello Celletti de Il vigile di
Luigi Zampa, strepitoso trattato di realismo caustico anti-democristiano in cui
non va sprecata battuta: un condensato di atrocità piccolo-borghesi, tra
ignobiltà e viltà che ne sono il corollario. È l'altra faccia del popolino
cantato e preso in carico dal neorealismo e poi dalle sue filiazioni: tra
l'oscenità in filigrana pornografica del Roma città aperta e il più
veritiero epos romanzesco di Rocco e i suoi fratelli, il solo, di
tutti i ritratti sul popolo fatti dal nostro cinematografo, degno di figurare
al fianco di quelli di un Kazan, pur con tutti i suoi nobili limiti di realismo
letterario (ma anche con mirabili segni di perfidia che tralignano qua e là:
vedi quell'"Arrivano i Parondi!", quasi uno
squillo caricaturale, che dagli anni '60 risale sino al nord dei raduni
confederali più tardi, nella Padania in fiamme di un proletariato nordico che
non è più disposto a condividere i frutti del suo agiato benessere). Quello de Il
vigile fu il risvolto realistico, senza il freno di pedagogie retoriche (il
mito del bel popolo) obliose, troppo presto dimentiche degli anni in cui le
adunate in piazza erano quelle della plebe fascista.
Seppure la potente stilizzazione dei polizieschi dia
lustro a tutta una cinematografia, essa non esaurisce la storia intera del
cinema francese. Pure se la cinematografia dei lumi intellettuali non è più.
Tra i cineasti colti brillano oggi le firme non laiche dei fratelli Dardenne e dell'esistenziale (ed ex-professore di filosofia) Bruno Dumont[1];
oppure come opposto perfetto, il socialista Guédiguian.
Resta poi il cumulo dei non catalogati e degli inediti in Italia, con cui tra
qualche anno si rischia di dover fare i conti severamente per tracciare bilanci
meno provvisori di quel che non risulta questo mio abbozzo.
Tra gli eredi confessi della tradizione colta, e da
noi inedito, è Eugène Green, newyorkese di nascita e parigino per adozione.
Questo paladino del cinema scelto, oltre che cineasta, regista di teatro e
romanziere, è l'autore di un breve libello tra il teorico e il pratico
pubblicato qualche anno fa: Poétique du cinématographe. Il cinema
vi è disegnato come estremo erede, in ordine temporale, di quella cultura
barocca ampiamente passata in rassegna negli ultimi anni, dalla letteratura
alla pittura attraverso la musica; forma atta, per la sua natura insieme
tangibile e illusoria di miraggio, a unire in sintesi l'elemento razionale
cartesiano con quello più eminentemente onirico e sfuggente del Calderón de La vita è sogno: "Des nos jours, la seule forme d'expression qui retrouve intégralement l'oxymore baroque est le cinématographe: il enregistre le
monde comme une réalité, et
le fait apparaître comme un rêve, en nous y dévoilant un monde caché, plus solide que l'autre"[2].
Nulla di che scuotersi, ma poi monta la polemica
contro il materialismo e l'illuminismo: "Dans un
effort frénétique d'achever l'oeuvre du siècle dit des
lumières, le XXe siècle
a voulu que rien ne demeurât caché: la psychanlyse a cherché à remplacer le mystère de l'être par un flux rationnel de comportement, et le marxisme voyait la matière comme une finalité, avec sa propre logique et son propre sens. Cela a abouti enfin au marché
mondial, déplacement de masses de matière qui se vendent et qui s'achètent, en récusant tout sens. La trouvaille pour rendre apparente cette visibilité universelle, c'est la télévision,
à laquelle rien ne s'oppose
davantage que le cinématographe"[3].
È evidentemente una 'caccia' alla grazia, compiuta per contrasto ecologico con il mondo
odierno e le sue tradizioni materialiste e anti-spiritualiste. Green è in questo
l'erede per eccellenza di un Bresson, dal quale lo
separa però la concezione più austera della trascendenza del regista francese.
È l'altra faccia di una critica alla modernità borghese che anziché aggredire
il sistema alle sue radici economico-culturali (vedi la critica della
separazione di un Debord), lo aggira, rifacendosi al
mito di una semplicità originaria e spirituale.
Ecco allora film come Toutes
les nuits (2001),
liberamente ispirato all'intreccio della prima versione de L'educazione
sentimentale di Flaubert. La Francia del '68 vi fa da sfondo storico e
riferimento polemico: per il regista è l'età in cui la ragione inizia il suo
declino, evidente tanto nell'odio per l'arte (come manifestazione borghese[4]),
quanto nell'esibizione di un fanatismo vacuo[5].
I protagonisti sono due amici le cui vicende scorrono parallele tra il '67 e il
'79, a partire da quando un giorno scorgono, quasi ninfa pagana, la silhouette
nuda di una donna al bagno in un torrente. È l'epifania simbolica di un tema
(il femminile, la notte, l'oscurità, la poesia, la musica) che attraversa
modulandolo il film come un leitmotiv. Alla fine del film, è
un'invocazione misterica al
risolversi entro un ordine superiore in cui "tutto si dissolve e dove tutto diventa
possibile".
Il lungometraggio successivo, Le Pont des Arts (2004), riprende gli
stessi motivi, appuntando una critica più circoscritta al mondo degli esperti
del barocco musicale e dell'accademia in generale. Anche qui la storia è un
circuito di spiriti lontani, che finiscono per convergere in un metafisico
slancio di grazia. I protagonisti sono uno studente parigino deluso che ha in
uggia un insegnamento della poesia ridotto a grottesche recite vocaliche, e una
sublime cantante barocca vessata da un arcigno maestro di musica che ha il solo
merito delle giuste conoscenze. Quasi un mito di Orfeo a rovescio, percorso da
struggenti arie monteverdiane: il giovane studente sarà salvato dal suicidio in
atto dall'ascolto di un disco della cantante, che nel frattempo si è suicidata,
vittima dell'ennesima vessazione del maestro. I due si ritroveranno di là della
morte 'sul ponte dell'arte' che dà il titolo al film,
sciolti dal conformismo imperante.
A Religiosa Portuguesa (2009)
mi pare tra tutti il film più stanco. È la storia di un'attrice cinematografica
vittima di uno sdoppiamento di personalità tra le vie di Lisbona. Attratta da
più uomini nel suo girovagare tra le strade della capitale portoghese, la
protagonista subisce il fascino di una monachella devota, usa a trascorre le
sue serate in compunta preghiera. L'amore da voluttuoso si tramuta in mistico
schiudendo nuovi orizzonti, che dal laicismo dubbioso paiono adire a una sorta
di più tenace e fremente spiritualità.
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Un fotogramma di Le monde vivant (2003), regia di Eugène Green
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Una sorta di manifesti d'intenti si trova allora nel
secondo film in ordine temporale, Le monde vivant (2003), che precede Le
Pont des Arts e
rappresenta una bizzarra e letteraria evocazione stilizzata, a metà tra il
fiabesco e il poema classico. La storia racconta di due bambini che un orco
rapisce per divorarli. Saranno salvati dal duplice intervento di due cavalieri
erranti. La storia è esilissima, la scommessa è tutta formale. In una scena
ridotta a pochi scorci naturali, è la parola che si sobbarca l'incombenza di
restituire il mondo vivente, dando corpo alla pluralità delle sue voci in una
recitazione teatrale: dall'orco di cui non vediamo mai il volto, alla pianta
incantatrice, giù fino al cane-leone, fido compagno di uno dei cavalieri. Gli
attori recitano fissati iconicamente al centro dell'inquadratura, sempre ripresa
frontalmente. Tutto esiste per tramite di una lingua creatrice, fuori di essa è
il nulla. È un principio teologico e il regista lo addita in apertura del film
come ispiratore: "Si Dieu manquait à
sa parole, sa vérité, il manquerait
à sa divinité, il ne serait
pas Dieu car il est sa
parole et sa vérité". Sono parole di Meister
Eckhart, il mistico tedesco. Nel cinema di Green
hanno valore quasi di programma ingenuo e regressivo, nel senso di un ritorno a
purezza originaria: a quel modo immaginario che è degli incantamenti infantili,
dove il mondo si costruisce per volontà di illusione partecipe.
È anche, volendo, il principio del cinema stesso, sia
pure ridotto ai suoi minimi termini. Rifuggendo le razionalizzazioni dello
spirituale operate nel tempo ora dal gesuitismo, ora dalla psicanalisi[6],
è come se nel cinema di Green il cinema di realtà documentaria (Lumière) e
quello di fantasmagoria frenetica (Méliès) trovassero
un accordo per sottrazione; quasi che, seguendo il filo di una teologia
negativa, la rinuncia al mondo esteriore e la negazione dell'iperbole inventiva
congiurassero per l'incanto di un'epifania: proposta divagante dal
chiacchiericcio dell'intellettualismo chic, ma anche rispetto al più bolso e
Può essere; ma resta una soluzione giocata sul primitivismo e sul naif, al
riparo dal rischio di un grande cinema.
Ne riesce una sorta di arcadica e lirica evocazione
del pulsare intenso di una forma estetica cui si affida il riscatto di un mondo
inemendabile. Più le astrazioni coloristiche e temperate di uno Hou Hsiao-Hsien che non le
rituali forme di trascendenza di uno Yasujirô Ozu o del succitato Bresson.
Oppure, stando all'ambito letterario, più Flaubert che Balzac[7],
in un culto evocativo dell'inazione che nel suo anti-wagnerismo, o meglio anti-hollywoodianesimo, figura una battaglia di Roncisvalle alla
Ocelot, tra silhouettes di pupi, spade di
latta e elmi di cartone.
L'azione cinematografica come verità e violenza, o
come turbamento e trasalimento tenue: son le due diverse vie battute da Marchal
e Green, registi che in comune hanno solo l'avversione compatta dell'establishment.
Il disamore (chiamiamolo così) per Marchal, somiglia a quello tributato al Luc Besson degli anni '90, inemendabile regista di cassetta
agli occhi della più contegnosa intellighenzia; Green paga invece un
certo anti-intellettualismo di marca spiritualeggiante,
sospetto agli epigoni della kultur
cinematografara - ma anche, come pare di intuire da Le Pont des Arts, una serie di
attriti coi circuiti salottieri parigini.
Il tempo cambia: quel cinema che fu un tempo rifugio
d'elezione per reietti, avventurieri e stravaganti fuori registro, non è
davvero più. Oggi vale un metro museale e accomodante, senza impennate
furibonde. E chi stempera acconsente.