di Piero Sanavio
Wailing I heard, but I also heard joy
Wreckage
I saw, but I also saw flowers.
Preludes
for Memnon.
Se parlavano della guerra era ancora quella
del ’15, quella vera, e gli
alpini che tornassero dalla licenza li spedivano ancora verso il Brennero o
passata Trieste, ragazzotti dal volto rubizzo insaccati in un grigioverde che grattava come le
ortiche. Si rintanavano in dieci-dodici in uno
scompartimento a succhiare tutti dallo stesso fiasco non appena il capotreno
fosse passato, ma a chi fosse d’impaccio con le valige erano pronti a dare una
mano.
“Qua, qua, signora, che pesa. Fin dov’è che
l’arriva, Calalzo? per Calalzo dovrà cambiare.”
Nerio s’era
spostato verso il finestrino, che la valigia della viaggiatrice fosse infilata
nella reticella.
Bevendo dal
fiasco, alzando il mento, portavano una
mano sulla cupola del cappello, la penna che ora sfiorava la schiena non sempre
era una penna d’aquila – come per i
pellerossa, bisognava aver fatto qualcosa.
Tutti curiosi
come scimmie, in ogni caso.
“E tu dove vai,
che viaggi da solo?”
“Badìa
Vendramìn.”
“E il bagaglio?”
Posò una mano
sullo zaino, sul pavimento.
“Quel tubo sulla
rete è tuo?“
“C’è la canna.
Vado a pesca con un amico.”
“Bravo ragasso.
Quanti anni hai?”
“Quasi venti.”
“E hai già preso
la ciucca?”
“No.”
Gli diede una
pacca sulle spalle, “Bravo, bravo.”
Scàino aspettava alla stazione su un Guzzi 14 messo
insieme da due rottami. “Tutto bene casa tua?”
“Tutto bene.
Com’è che non fischi?”
“Mi sono messo
la zeppa.”
“Perché reciti,
questa settimana?”
“Mi hanno
mandato la cartolina.”
“Cazzo. E per
quand’è che ti vogliono?”
“Non farmi
pensare. Fortunato che sei studente e non ancora di leva.”
“Se c’è la
guerra, la mandano anche a me, vedrai.”
“Che guerra?”
“Non li leggi i
giornali?”
“E per cosa?
Sali dietro, va.”
Era il ’40, fine
maggio.
In un’immagine
di molti anni dopo, Nerio è di spalle,
indossa un loden verde scuro, sul cranio un berretto dello stesso colore,
guarda oltre un cancello. La casa oltre il cancello ha il cortile divorato
dalle gramigne, l’intonaco dei muri ingrigito dalle piogge però indenne la
Sacra Famiglia sul volto del magazzino,
le immagini ritoccate da un transeunte come auspicio per la pace, il ’44.
Farà Nerio, alla
donna che ha appena scattato la fotografia, “Nella prima versione quel san Giuseppe era armato. E non era affatto un san
Giuseppe.”
Sul muro che
costeggia la roggia il rettangolo metallico di una società elettrica occhieggia
ancora tra l’intrico di canne che separano la costruzione dalla proprietà dei
Bergamo, i vicini. Sono scomparsi i campi, però, gli alberi, le vigne,
seppelliti sotto una giungla di villini a schiera e neppure i Bergamo ci sono
più.
La donna,
“Girati per un bel primo piano.”
Nerio,
“Preferisco di schiena, non è di me che
mi devo ricordare.”
Il cappello da
alpino Scàino lo aveva ereditato dal padre, scomparso in Fezzàn in una
scaramuccia, il ’21.
“La volontà
del Signore”, Amalia aveva commentato,
asciugandosi gli occhi, “almeno che mi ha lasciato un figlio.”
Lo aveva
cresciuto secondo le consuetudini tridentine, casa-chiesa-rispetto
dell’autorità e a
quindici anni, con una sberla di cui
nessuno ricordava la ragione, gli aveva fatto saltare un incisivo.
Nell’opinione del prevosto, che aveva Scàino nella
filodrammatica della parrocchia, non era il caso di pagare un dentista, ciò che
una famiglia riusciva a risparmiare meglio andasse nel fondo per la nuova prepositura. A evitare
che, quando recitava, il ragazzo fischiasse a pronunciare le esse bastava
inserire al posto del dente una zeppa di
legno: quando e se occorreva. Amalia, che aspettava ancora la pensione di guerra e non era in
grado di mettere un soldo da parte,
aveva annuito.
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Paolo Simonazzi, "Mondo piccolo", 2011
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Scàino era nato con il dono della meccanica, mani d’oro per
bulloni e cilindri, sputato suo padre, ma era la pesca la vera passione e
passato Vidor conosceva molti posti buoni.
Aveva insegnato a Nerio come usare le mosche e a cucinare il pesce con
mezza bottiglia di
birra e un rametto di rosmarino. Viveva con sua madre nella casa
lungo la roggia, due stanze per piano nel lato verso il ponte, l’intera
costruzione proprietà della zia di Nerio che ne occupava il corpo centrale.
Il
portico che conduceva al magazzino era sul
lato opposto, estremo, di fronte ai gelsi per i bachi da seta. A disporre le foglie
Scàino dava sempre una mano.
Quella
pre-estate del ’40, che la partita di pesca potesse essere l’ultima insieme
nessuno dei due lo aveva previsto.
Scàino, spedito subito sul fronte francese, nell’intervallo prima di
finire in Russia aveva trovato il tempo di sposare una Mazzolenis dell’impresa
trasporti in fondo a via Trevignano. Sandrina era la più giovane di una tribù
di donne, una biondina che la lingua le si infilava tra i denti a pronunciare
le esse come se a lei bisognasse toglierla una zeppa. Con Scàino si erano amati
in fretta, coscienti che aldilà della guerra c’era soltanto un vuoto e in effetti, all’ansa del
Don, ferito e intrasportabile, i compagni
lo avevano abbandonato.
“…
Il proiettile gli aveva trapassato un polmone e si lamentava per l’aria gelida che gli entrava nel buco. Lo
sistemammo su una slitta e tamponata alla meglio la ferita lo coprimmo con i cappotti rubati ai morti. Quando ce ne
siamo andati, però, lui già
non c’era più.”
Questo
era Claudio, il cognato, unico maschio della famiglia e ultimo nato: di ritorno
dal fronte, anche lui in Russia, e in attesa che lo spedissero in Albania. Il ’43,
in Epiro, metà settembre, lo avrebbero fucilato i tedeschi. Piangeva, adesso, davanti alle sorelle
schierate in cerchio, un tribunale di vergini tolta Sandrina che ascoltava a
occhi secchi, le mani sul ventre e aveva
da poco partorito ‒ appena un chilo, il bambino, battezzato in fretta che
non morisse, Natale perché era quel giorno che era nato.
Di
Sandrina quegli anni, Amalia conservava una fotografia: nel cortile di casa, in
vestaglia, le calze arrotolate sulle caviglie, e alzava in aria il figlio, in fasce. Si risposò due anni
che era finita la guerra, un medico venuto da fuori, e fu con molte esitazioni.
“… Scàino in tutto l’ho goduto tre notti” si
confidava con le sorelle. “L’ho
amato, certo che l’ho amato, l’amo ancora ma da sola come si fa?”
“E
questo che ti fa la corte?”
“Il
medico? pare un brav’uomo.”
“Non
gli farà gola la nostra impresa?”
“L’ho
pensato.”
“Contèntati
che la famiglia ti aiuta, per il resto
Dio provvede. E anche da sole si fa, si
fa.” Era la maggiore, il suo promesso
scomparso nella ritirata, l’altra guerra. “Se davvero ami qualcuno, non c’è chi
lo possa sostituire.”
Un’altra,
“Dio provvede, guarda Amalia. Tanti anni a aspettare una pensione e adesso,
anche se è vecchia, ha avuto un posto in ferrovia, a vita – il casello. Uscire
con la lampada e le bandiere se passa il treno tutto quello che gli si chiede.”
“Non
è un casello che mi serve.”
“Era
per dire.“
“Non
è un casello. Poi con i treni non riuscirei a dormire.”
“Basta il cotone nelle orecchie.”
“Non
è il rumore” e scuoteva il capo. “Il treno mi fa pensare a Scàino, quando
partì.”
Il ritorno di Nerio a Badia fu l’estate del ’51,
alloggiava da Amalia, al casello. Gli sarebbe parso, retrospettivamente, che a
giustificare quel viaggio più che liquidare ricordi fosse il desiderio di
metterli in prospettiva, del tutto estraneo al giudizio il piacere delle
giornate di pesca che fino alle soglie dell’autunno lo avevano trattenuto in
quei luoghi. Come se, nel santino della Sacra Famiglia sul volto del portico
della casa che era stata di sua zia, avesse inteso recuperare, da sotto i
ritocchi del transeunte, i personaggi originari ed erano san Giorgio a cavallo
che uccideva il drago.
“Sandrina
vuol vederti” lo informò Amalia, quando
seppe che tra qualche giorno sarebbe partito.
“…
è per cosa? praticamente non la
conosco, da ragazza l’avrò vista un paio di volte e non c’ero quando con Scàino
si sono sposati.”
“Per
cosa sarà lei a dirlo, se lo vorrà dire.”
“Tu
pensi che ci devo andare?”
“Direi
di sì.”
Così
c’era stato.
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Marcello Gallian, Amanti, 1962, olio su carta
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Nel
salotto che sapeva di chiuso, il sole d’ottobre aldilà delle tende e l’odore
del mosto perché era la stagione, Sandrina non era cambiata di molto, tolte due
rughe agli angoli della bocca.
“Vorrei presentarti qualcuno” disse subito. “In Russia, con Scàino, restò
con lui fino alla fine.” Stava in
piedi, sull’altro lato di un tavolo in
centro al quale il vaso d’ottone con un mazzo di fiori di campo era un bossolo del ’17. E, “Normalmente non vuol
vedere nessuno, non è stato facile…”
“Vive
qui, con te? perché è proprio a me che vuoi farlo incontrare?”
“Eri
amico di Scàino e vorrei sapere se faccio bene a tenerlo in casa. Le sorelle
dicono di sì però io non so. “ Una pausa e, “Non vuol vedere nessuno, passa le
giornate a occuparsi delle bestie, in stalla.”
“Però
la notte te lo porti a letto, giusto?”
“Sì.”
“E
il marito?”
“Appunto,
il marito, il medico: anche il marito. Vorrebbe che se ne andasse ma dal
momento che sposandomi ha accettato di vivere da noi, casa vecchia, con le
sorelle, pare a me che dovrebbe anche accettare quello che noi sorelle abbiamo
deciso tutte insieme.”
“Non
è che era già in casa quando ti sei risposata?”
“L’ospite,
il reduce? Arrivò dopo. Adesso come faccio a dirgli di andarsene? e un uomo in stalla ci serve, certi mestieri
non c’è più nessuno che li voglia o sappia fare.”
“C’è
soltanto il reduce a occuparsi delle bestie? I trasporti come li fate, ancora
con i cavalli?”
“Adesso
i camion li abbiamo anche noi, anche un trattore ma non è che un trattore puoi
mungerlo per il latte. Abbiamo anche uno slavo che aiuta però è senza
iniziativa ed lui a … .” Dopo, “Mio marito mi ha ordinato di
scegliere e gliel’ ho promesso, ma a quello di andarsene non glielo riesco a
dire.” Un silenzio e, “Vorrei che mi aiutassi a decidere, solo questo.”
Nerio
scosse il capo.
Insisté
lei, “Dovrei dire ci aiuti perché anche alle sorelle importa la tua opinione.”
Sospirò, “Quando è arrivato a Badia non è venuto a casa direttamente, l’ho
trovato alla stazione che andavo a Castelfranco. Stava accucciato in sala
d’aspetto e su un pettine avvolto in carta oleata suonava una canzone. Piaceva
anche a Scàino quella canzone, se si infilava in bocca il dente posticcio me la
cantava.”
Fece
Nerio, “Una bella storia, dovresti venderla che magari ne facessero un film ma
non sono in quel mestiere. Non mi
piacerebbe neppure avere una parte in quel film né posso decidere per nessuno.
Quell’uomo, poi, non credo proprio di volerlo incontrare.”
“Me
lo aspettavo” disse lei, alzandosi, “ci avevo proprio pensato” e andò alla
porta che dava in cucina e l’aprì.
L’ospite
sedeva al tavolo di cucina, i
capelli rasati ma portava la barba.
“Sei
tu quello legittimo” fece Nerio, subito, che lo aveva riconosciuto e, “fa un
po’ vedere la bocca. Chi ha pagato per il dente nuovo, l’esercito?” E, “Il
problema qual è? Che sei tu il legittimo può confermarlo qualsiasi avvocato.”
Si girò a Sandrina, “Non servivano questi sotterfugi.”
Lei,
“Non capisce, del tutto inutile che gli parli, di ciò che era non gli è rimasto
che il ricordo di quella canzone. Non sapevo se magari anche tu eri cambiato.”
“Cambiato per cosa? “
“Sono
daccapo incinta ma il padre non è il medico ‒ che lo sa e però non gli
importa, dice che se sei il padrone di una luja sono tuoi anche i lujotti, chi
l’ha montata non fa differenza. Poi lui…”
Accennò al reduce con un gesto della mano, “Inutile che gli parli”
ripeté, “non vedi? guardagli gli occhi. Ha anche perso la parola.”
“A
letto, però…”
“Come
i cani, i gatti, i maiali, se vuoi, ma sa anche lavorare in stalla. Ed è lui il
mio vero marito, il primo, anche ridotto com’è io gli voglio bene. ”
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Daniele Federico, Senza titolo
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“…
Ci fu un’inchiesta:” Nerio alla
fotografa che non voleva riprenderlo di schiena. “E il processo, i giornalisti scatenati – gente di Roma, Milano, convinti che qui fosse
come casa loro, interessi, denaro,
magari anche politica, il movente
dell’assassinio.”
Era
l’imbrunire e adesso i due sedevano in un’osteria.
“Non
lo era?”
“Avrebbero
dovuto tornare a scuola, studiare.”
“Studiare
cosa” fece lei, “Karl Marx?”
Le
rispose con deliberata volgarità, “Per poi ficcarselo in culo, nel caso, con il
dovuto rispetto, Karl Marx?”
“E
come finì?”
Non
rispose. Si rivolse alla sessantenne che
metteva in ordine i bicchieri, al banco, “La soppressa la fate ancora da queste parti?”
“Come
no? Gliene taglio per due piatti?”
Guardò
la fotografa che scosse il capo. “Basta uno. Anche un altro quartino.”
“E
pan biscottato?”
“Pan biscottato.”
Commentò
la fotografa “… Sicché anche tu, un sentimentale: il vino, l’insaccato,
l’osteria nel vecchio paese… ”
“Potrebbe
anche trattarsi di un omaggio alla
memoria.”
“…
Di cosa:
l’innocenza della gioventù? ”
“Un
crimine e al tempo stesso una lealtà.”
“Un
crimine” ripeté lei. E ironica, “Non t’è mai rimorsa la coscienza?”
“Per
una testimonianza in favore a due amici? Eravamo tutti e tre fuori del gioco,
lo eravamo sempre stati, ed era a loro,
quelli come loro, non a un morto che non conoscevo, che dovevo lealtà.”
[2012- sett]
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