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di Marzio Pieri

Mi
alzo, decispo gli occhi col solito cattivo caffè d’ogni mattina (accidenti alle
macchinette), alla televisione mi aspettano le consuete facce (un poco
stazzonate) dall’inespressivo al furbetto, le ambagi e i naufragi. La rima può
anticipare il nome della rosa di un possibile titolo libresco. Se Renzi è
Renzo, chi sarà Lucia? Il finale dei Promessi sposi non ci ha mai convinto.
Solo la battuta di don Abbondio, quello che non muore: “Ah! è morto dunque; è
proprio andato”. La verità nascosta fu che Renzo divenne segretario del
cardinal Borromeo, si ebbe i suoi latinucci che tanto lo intimorivano, fece
figli bellilli con Lucia (e qualcuno con altre, per distrazione) e Lucia, visto
che per quella cosa lì non era mai morto nessuno, imparò a darsi un poco di
tinta sulle gote e di belletto sulle ciglia, scoprì il taiùr, come dicono a Pärma, per non staccarsene più. Il libro di
Walter Pedullà, il nostro maggiore e solitario, superstite maestro della
critica letteraria, sul fantasma di Giacomino, ci immette al mondo dell’invisibile.
Giacomino, ma chi vuoi fra chi mi legge possa esserci uno che non lo sappia, è
Giacomo Debenedetti, la più magnifica stella fra chi visse la scrittura come un
destino e un rito. Per questo è una stella che resta in gran parte enigmatica,
l’enigma Debenedetti sta in questo, che getta luce a intermittenza (negli
intervalli sparisce) e si sposta di sito in sito. Pare, ad esempio, che pei
padroni dell’università d’allora, dico degli anni di vita terrestre dell’irripetibile
maestro torinese (oggi, non molto è cambiato, tranne che università è nome abusivo
de ningun provecho), la stella dovesse
essere in sonno. Non basta dire ch’ebbero gli occhi chiusi per non vederla. Già
il titolo scelto e dichiarato da Pedullà per questa epopea debenedettiana (Giacomo Debenedetti, interprete
dell’invisibile) mi si va, nella mente, declinando in abusivo ma non
infondato (e fondamento può essere proprio questo libro ammirevole di Pedullà) infratitolo:
Debenedetti interprete invisibile.
Una decina d’anni fa il libro cordiale del figliolo, Antonio, (dico cordiale
per uso dei lettori, da parte di un giornalista e narratore comunicativo e
fluviale) aveva riportato la sinopia di un padre la cui parte di divino era
data per presupposta e stabilita (maldestro, da parte strettissimamente
familiare, da parte d’uno del medesimo sangue, sarebbe riuscito esteriorizzarla
magnificandola) e la cui parte quotidiana ingombrava la vista con ticchî,
ripicchî, suffumigî, dandismi, bizzarrie, furie per un colletto malstirato,
collere per un soldino perduto, melancolìe
devastanti, detti citabili e schegge di buona novella per IS (‘infelici
sempre’). Se Antonio confessò d’esser partito da Sàlgari, potremmo
assomigliarlo a un Tom Antongini che illustra un Ariele/Gabriel in ciabatte. Un
libro che ho ripreso in mano tante volte, a cercare di là dalla sinopia; il cui
colore sanguigno sa farsi, alla bisogna, vindice e vendicativo dei nemici. Quel
disgraziato che corre a curiosare per le scale di casa Debenedetti appena
sparsasi la novella della colui scomparsa e, senza averlo ravvisato, deversa
una malignità nelle orecchie del figliolo, si fa di bragia nell’accorgersi
della gaffe e si fionda lontano, lontano. Era il 20 gennaio del 1967, un
compleanno triste per me. Il libro di Pedullà non ci offre la statua del
Maestro (statua vs foto è una indicazione viaria esemplare del figlio
giornalista) che forse non voleva ammettere di esserlo nemmeno con se stesso
(e, per micidiale gusto del castigo di sé, lo negava a se stesso bramandone una
conferma da chi non gli sarebbe stato mai pari). Antonio, visibile per
invisibile, non deve essersi accorto che il ‘quotidiano’ del padre da lui
amorosamente e non candidamente esibito ha valore (e solo per questo ha un
valore) di correlativo oggettivo. Ci arriva appresso (‘fochin fochino..’)
quando narra del medico del padre che, venuto per fargli la quotidiana
iniezione, butta d’un tratto a terra la siringa, con rabbiosa disperazione. Jack dies… Giacomino wills to die.
Per
Pedullà la storia di Debenedetti è insieme sostanza e pretesto. Giova
all’interezza del discorso perfino il fatto d’essere in buona parte non inerte
incollaggio di scritture già lette in passato (un libro, Il Novecento proibito di Giacomo Debenedetti, saggi esibiti in
diverse altre raccolte, a partire dalla marcia d’avvicinamento e di congedo che
fin dal 1983 metteva in scena ludica i Miti,
[le] finzioni e [le] buone maniere di fine millennio; un
mirabile inedito su Savinio) le travi vibrano come in una soffitta
scricchiolante e lavata dai vènti. Oggi il passato tutto intero scricchiola, a
partir dal risveglio di dio. Pedullà è un poco il figlio della mente (della ‘buona
novella’, quando nemmeno più la si attendeva) di Giacomo, ma la lettura (NON
l’Autore del libro) inoltra ai punti giusti il sospetto che Debenedetti, quello
che oggi onoriamo come guida e compagno di via (il più eletto, l’inimitabile,
eppure compagno su improbabili strade) sia figlio del figliolo, a dirla in modo
diretto: che l’Allievo siasi fatto Maestro del proprio Maestro, e Padre del
Giacomo di cui si sentiva Ri-nato. Mettiamola alla bruta: ci sono almeno tre
Debenedetti (il terzo ma cronologicamente primo è stato l’ultimo a essere
meglio noto, prima semplicemente si stava a una bipartizione), quello appena
toccato va dalla breve esperienza di “Primo tempo” (con Sergio Solmi e il
futuro maestro di critica cinematografica, Mario Gromo) all’incontro con
Gobetti
e
trova il suo culmine insperato nel romanzetto autobiografico Amedeo (un poco rileccato ma, dai
critici, in genere venerato, come ogni cosa un poco ovviamente bella) ma quello
proprio, e forse insospettato, nelle conferenze uscite postume col titolo Profeti (Mondadori 1998, a cura di
Giuliana Citton, con bella prefazione di Segre). Unico paragone che mi soccorre
è quello con lo straordinario Lukács saggista de L’anima e le forme (Berlin 1911). Era ancora un Debenedetti (come
il filosofo ungherese) solidamente benestante (ho vago ricordo di un volo, ma
può essere?, in aeroplano a Trieste, con Bazlen, mi pare, e, possibile?,
Montale se qualcuno gli abbia coperto la quota da spartire all’affitto del
velivolo, per incontrare o Svevo o Saba o tutti e due? non certo Benco, che
portava la barba dei rabbini, e godeva di una leggera zoppìa, le diable boiteux!… ma forse me lo sono
sognato [~ NO! non fu sogno… ritrovo a
pag. 121 la fonte perduta, rimossa: “[Debenedetti, a proposito di Saba] …. Mi
raccontò di una lunga, tenace, amicizia. Fu una bella sorpresa per il poeta
raggiunto con un aereo affittato da Debenedetti e Noventa (forse c’era Bobi
Bazlen: o forse ve lo trovarono). Umberto Saba naturalmente fece grandi feste
ai suoi fanatici, geniali e molto ricchi lettori”~] solo superficialmente (ma
molto fondatamente) legato alle origini ebraiche, poco crociano ma non
deliberatamente anticrociano, naturalmente aperto a quanto accadendo fuori
d’Italia non doveva necessariamente passare dal colino vociano o bocesco (il
titolo “Dalla Voce al Duce” ha mai tentato nessuno?) e tuttavia di quel clima
altrettanto naturalmente accostandosi ai ‘valori’ meno ideologizzanti, Serra
Boine il tragico Michelstaedter. Fino a Gobetti. Lo dipingono, a partir da
Montale, come uno zuppo di letteratura, buttando via il bambino (geniale) con
l’acqua marcia. In realtà Debenedetti, fin da principio, ha occhi solo per il
reale; dei comportamenti dell’uomo (o dello scrittore) fa teste di moro per
giungere a ferire, dilà dalla maschera, il nucleo reale, la malattia non detta.
Se Svevo non gli piace, è anche perché tutti e due, in maniere diverse, con
‘cuore’ ebraico diverso, s’interrogano soprattutto sulla ‘cosa’ (anche l’anima,
in quanto creata, lo è) come prodotto e fòmite di malattia. L’esterno è la
parte del riso. Proprio su questo, forse, le loro vie divergono. “Non ho mai
sentito una risata di Debenedetti”, testimonia di nuovo Pedullà. “… In
principio c’è il riso, ma alla fine c’è sempre la tragedia. Giovanile è la
commedia, senile la tragedia? Potrebbe essere vero il contrario, ma né da
giovane, né da vecchio Debenedetti si concesse una risata, che, secondo il suo
Freud, è la dimostrazione clamorosa che è finita la paura”. “Il futuro sarà
comico o non sarà” (Baudelaire). Posso qui (non mi accadrebbe con alcun altro
critico o professore, almeno italiano, di letteratura) insinuare un discorso su
Verdi? Mi ha sempre disturbato, nel Falstaff,
quella idea più boitiana (o boitian-ricordesca) di un Verdi che finisce tutto è
burla. Essa presume una distanziazione netta fra la tragedia e la commedia, lascito
classicistico battuto in breccia settant’anni prima da Victor Hugo e in fondo
piuttosto improbabile già per Stendhal, per Manzoni. Solo Bellini, forse, legge
la storia al nero (La Straniera) o
alterna la tragedia (Norma) con lo
spirito del balletto (la Sonnambula,
i Puritani). Dietro a questi, un
Walter Scott chopiniano; diretro a quella, un ballet-pantomime o una comédie-vaudeville
di Scribe. Donizetti è formidabile empirico e sperimentatore come certi registi
di cinema, da noi, tipo Lucio Fulci ‘terrorista dei generi’, o il grande Mario
Bava. Nel primissimo, seriosissimo Verdi (la serietà impositiva del provinciale
che teme non si sappia ‘chi son io’, e anche dipiù teme che lo si sappia bene)
scatta una poetica (nemmeno oggi da tutti riconosciuta) che maschera le fonti
del riso nella meccanicità dei movimenti. Ernani
(per allora una bandiera romantica, sia pure un po’ strapazzata nel
decennio intercorso, ma già per un realista come Balzac, fonte inesausta di
formidabili, dico Hernani, risate), e
poi i byroniani Due Foscari, la
schilleriana Giovanna d’Arco, la
bellobrutta Alzira, forse perfino il
primo Macbeth 1847, hanno movenze
insieme fantozzanti e teorematiche, làsciati andare e ne godi centinaia di
sapidi dettagli, prendili di rigore e scappi dal teatro prima dell’ultimo atto.
“Il
nostro tragico Verdi”, si legge in una pagina di Debenedetti, quando al massimo
un italiano cólto si sarebbe lasciato acchiappare alla funzione
“rinascimentale” (De Sanctis) del “Va’ pensiero”, all’“Orma dei passi spietati”
primamente difesa da un Flora (tre misure di Croce e sette di d’Annunzio botanizzante),
e al ‘miracolo’ senile del Falstaff. Oggi
va anche, o appena ha smesso, per fortuna, di andar troppo di moda la lettura
autunnale del commedione windsoriano, Toscanini puntava sulla dizione limpida,
sull’intreccio ravelianamente perfetto di una favola ad orologeria. Per capire
di quanto le lancette si sono spostate, in Pedullà quella del melodramma (non
‘più modesto romanzo’, nemmeno nei libretti, ma la parte romanzo della civiltà
italiana) è figura perpetua e ricorrente senza bisogno di strizzate d’occhio, è
possesso reale e ben domestico, è memoria che allaccia altre memorie e diverse
culture, a partire da quella wagneriana. Una volta che ne tratta appena più
distesamente, scrive pagine fra le più belle del libro e le più veritiere nella
considerazione estetica e sociologica più generale del rapporto teatro di
scrittura/teatro di musica. Confermando e amplificando la lezione di Giacomo
‘tifoso del melodramma’: “Noi studenti calabresi e siciliani eravamo tutti
tifosi di melodramma ma quasi digiuni di musica contemporanea. […] Insomma
dischi e bande municipali: tutta qui la nostra musica, invero assai poco
moderna. Non erano suoni per noi, bensì rumori: Pierrot lunaire, che ammaliava le altre orecchie [si riferisce qui
alla prima lezione di storia della musica di Salvatore Pugliatti, l’insigne
giurista messinese, e musicologo ferratissimo, amico di Giorgio La Pira, e di
Vann’Antò, e promotore originario del poeta Quasimodo, uomo, e rettore a
Messina per 20 anni, di quelli che non scomunicano i dissidenti, e non invocano
il braccio secolare, ossia per ogni verso pressoché incomparabile], non
arrivava al cervello. Non capivamo, ci mancava troppo il libretto del
melodramma […] Debenedetti era divertito all’idea che questi ignoranti di
musica conoscessero a memoria tanti brani di melodrammi, magari prediligendo
l’opera buffa, il compromesso di chi teme d’essere ridicolo a parlare d’amore in
versi altisonanti. Eravamo in ritardo ma intanto eravamo anche la prova vivente
che il melodramma è una forma di romanzo cantato che non muore mai in Italia”.
Leggo e non so più se chi vado leggendo sia il
Maestro o il Discepolo, il Padre od il Figlio; posso azzardarlo? V’è
nell’Allievo un ‘basso continuo’ vitale che nel Maestro Raro è tante volte una
aspirazione; il ‘giovane’, lo juniore farebbe musica con due sassi rotondi e
una pentola arrugginita. Debenedetti: “Con l’opera lirica gli italiani hanno
raccontato la vita e il mondo, con una potenza non inferiore a quella dei
narratori francesi, inglesi e russi dell’Ottocento”. Pedullà: “Fatti salvi
Manzoni, Nievo, Verga e De Roberto, che di
fatto sono eccezioni, sta nel melodramma il vero grande romanzo italiano
nel secolo del romanzo. A Balzac, Dickens e Gogol’ abbiamo risposto con Verdi,
Donizetti e Rossini”. Salverebbe l’Autore anche i romanzi apertamente
melodrammatici del Verga catanese? Io ci provai ma il petardo rimase senza eco.
Avran rimesso il disco che son matto.
II
Il
punto nodale del libro a me pare quando Pedullà cerca di indurre Debenedetti a
raccogliere in libro i suoi saggi sparsi novecenteschi, le sue applaudite (e,
dai colleghi, invidiate) lezioni sui valori dell’arte e come giungerli a discriminare.
Critica non è descrizione. Torno a ripetere la mia convinzione che il primo,
nemmen da lui compreso, o forse troppo
inteso per spartirlo con altri, capolavoro del grande interprete torinese è il
libro sui Profeti, aria per polmoni
vasti, roba da Spartacus di Kubrick,
da Intolerance di Griffith pioniere
della cinematografia (“Il fiuto di Serra, il fiato di Borgese: […] A fiuto [la
grandezza di Tozzi] non l’aveva sentita nemmeno Debenedetti […] Ma il suo
fiato, il senso della storia, lo fa arrivare alla verità ‘inconsapevole’ della
struttura di Tozzi. E ora anche il fiuto avverte la bellezza di un linguaggio
che deriva la propria qualità dalla capacità di dire una cosa mai detta e che
gli uomini avevano necessità di sentirsi dire ora e qui”): “[…] Da tanta degradazione
morale e desolazione [di Israele], [il profeta] Amos esce titanicamente, con un
balzo di passione creatrice: da critico sociale, diventa riformatore sociale:
uno di quei riformatori che segnano una tappa: dopo la loro apparizione, il
mondo non è più quello di prima. Questo rivoluzionario che, forse ─ anzi,
senza forse ─ si proponeva semplicemente di far la rivoluzione in
Israele: una rivoluzione per la riforma dei costumi: si trova, ad un tratto,
avere sconvolta tutta l’umanità, avere fatto la rivoluzione per la riforma
dell’idea di Dio”. Si sente che costui si era letto il suo De Sanctis, ma senza
nocergli quanto al ministro napolitano, napolitan-zurighese (eh sì), quella che
Lukács, per la Germania, avrebbe certamente bollato come “la miseria italiana”,
il caravanserraglio gesuita-massonico-savoiardo che aveva appena fatto
“l’Italia e non gl’italiani”. Aspettando God-Ot. “Debenedetti è un eretico,
avanza obiezioni, ma è pur sempre un credente. Ammiratore di Puccini, egli si
ripassa sempre mentalmente l’Un bel dì
vedremo con cui si celebra il ritorno, oltre che dell’uomo amato, di colui
che è storicamente delegato a dire la verità universale. O la verità è che non
tornerà e che d’ora in poi bisognerà accontentarsi del ‘come se’, cioè della
maschera?” Diciamola tutta, ci eravamo disavvezzi a partiture mosse e, nei
punti giusti, o granbuffe o patetiche come questa sinfonia giacomiana di
Pedullà. L’impressione vincente è che abbia scalpellato giù il monumento
fattosi ora consensuale e pacioso e l’abbia rimontato come una scultura
avvenirista e, insieme, polimorfa, polifonica, polinesia. La “forma
dell’informe, cara a Savinio”.
Insomma,
tirando un po’ di reti sulla spiaggia, a un primo Debenedetti innamedato (un
torsoletto di Proust) e, quasi insospettatamente, profetico (delle lezioni
giovanili scritte e non pubblicate Giacomo aveva taciuto l’esistenza perfino al
prediletto dei suoi allievi) segue lo scrittore perfetto e chiuso non tanto in
sé, quanto in questa perfezione, dei saggi critici, almeno quanto tocca alle
due prime raccolte. Fece scandalo, postumo, lo scritto sulla prosa di
Mussolini, eternamente rimproveratogli da tanti che nel fascismo avevan trovato
ben altre panchine d’appoggio e nell’antifascismo a cose fatte s’eran scovati
una professione politicamente e professionalmente redditizia. Io l’ho letto tardi,
quando fu ripubblicato da Gàrboli e Duranti su “Paragone”; e mi pare del tutto
in linea col Debenedetti che, senza unzione, e nel suo imprescindibile
conflitto interiore, si era più d’una volta interrogato (in anni di “Solaria” e
di telefoni bianchi, una letteratura da “Casabella”, poi tutto degradando, e fu
repubblica, sulle foto di “Grazia”, bagni di decenza come cappelle medicee e
abiti da sposa come cristalli di rocca alla babà) su come allargare,
dall’interno, l’amore delle lettere a quella “sartina” che per lui significava
“il popolo”. L’aneddoto della sartina è quasi sabiano. L’intellettuale e la
sartina vanno insieme in un cinema e quello, piuttosto che stupirla ammaestrandola,
o dominandola, vorrebbe entrare nel cervello di lei.
“Un
giorno l’intellettuale andò al cinema con la sartina. Fu lei a esprimergli la
propria opinione su quanto avevano visto. Ci pensò molto l’intellettuale ma,
pensandoci sopra a lungo, capì che ad avere ragione era lei: la sartina, cioè
fuori di metafora, il popolo che nel Novecento è diventato massa. La massa che
al cinema avrebbe creato un proprio canale di comunicazione culturale mai visto
prima di pari dimensioni”.
Naturalmente
una favola. Debenedetti avrà visto in vita sua tante sartine quanti mufloni o
ocapi. Io vengo da un mondo meno specchiato e dorato, di sartine ne ho viste.
Avrei potuto rassicurarlo: non avevano molto da insegnare (tranne, ma ero
casto, in quella cosa lì).
La
sartina andava all’Opera, poi, declinando, al cinèma (così dicevano allora le
donne del popolo, alternandolo con cinemà), amava Mussolini e avrebbe amato
Togliatti o il frigido Degasperi. Impossibile “andare verso il popolo”, ma
percepirne almeno la presenza, avvertirne il soffio di belva che, dopo noi,
vivrà. “La gran questione è sempre una: credere ed essere di animo grande”.
Pedullà
riuscì a inventare, o inverare, il Giacomo Debenedetti rincelato nel nocciolo
delle lezioni. Io, che ormai disperavo della critica, insensibile al mito già
nato stantìo di Gramsci, deluso in poco volgere di lune dalla novissima arcadia
degli “strumenti critici”, mi ero quasi rassegnato a non tentare più la
scrittura. Anche dipiù del mitico Romanzo
del Novecento (1971) (naturalmente avevo fra i miei libri, sudatissimi
allora, Intermezzo (1963) e Il personaggio uomo (1970), ma non
sapevo ad esempio che le bandelle editoriali delle amate “Silerchie”, che
cercavo di collezionare più che potevo, eran tutte di mano del direttore
letterario del “Saggiatore”, Lui, e che sentivano forse, perfino, dello stile
dell’antico estensore di testi per la odiatissima, da ogni pubblico
cinematografico, almeno al livello sartine e studentelli, “Settimana Incom”,
puntualmente accolta da fischi, rutti e madonne di vera essenza prepasolinesca)
la mia breccia per Porta Pia fu fatta esplodere dal libro di Debenedetti su
Tommaseo.
Tommaseo
era per me, insieme, uno scrittore arcaico e sottovalutato e un personaggio
estremo, sgarbato, poco lavato, punto amato (“non rompetemi i tommasei”, parola
di Leopardi; gloria tibi domine), fragile e gigantesco. Rividi in lui, un poco,
un Giambattista Marino dell’Ottocento. E “il personaggio uomo” riscalava la
ribalta. Apposi in bozze del mio Per
Marino (1976) ─ il titolo, magari oggi sfugge, era una parodia del Pour Gramsci della Macciocchi (“la
Chinoise”) ─ una dedica a Debenedetti, che mi salvava, e al gran De
Lollis, che mi aveva consolato nella mia solitudine, dio ringraziai, li
benedissi e scesi.
III
V’è
in Giacomino, è grossolano dirlo, qualche cosa di Amleto. E molto della ‘forza
del destino’, l’auto sacramental di
Verdi, che non vuol dir la bmw battezzata con l’acqua benedetta ad depellenda infortunia in itinere. Ề
l’avere il coraggio “di issare le maiuscole che squillano nei melodrammi e
nella più ingenua fede popolare”, per quanto sembri cose in contraddizione con
questo iniziato ad ogni cabala della scrittura e della psiche. Amleto coincide,
in lui, con Orfeo: ecco qui sotto, con un lievissimo espediente grafico, il to be or not to be che gli spetta.
Se il mito che s’era scelto è quello
di Orfeo,
ebbene Debenedetti morì dilaniato,
anche fisicamente ma di sicuro
psicologicamente.
Un corpo fatto a pezzi dall’enfisema
e dalle sue asfissie
dai dolori lancinanti dell’herpes
dai collassi dell’astenia
e del precoce invecchiamento.
E nella mente? La guerra
degli esaurimenti storici e
fallimenti privati
le inimmaginabili tragedie
collettive del suo tempo
e le commedie senza alcun lieto fine
della mediocrità trionfante
l’ostilità dell’ambiente
culturale la solitudine
dell’onestà intellettuale la vergogna
d’essere condannato senza prove
l’insulto
del licenziamento quando già era
iniziata l’agonia.
Chiederò
al mio nuovo amico musicista, Osvaldo Coluccino, se se la sentirebbe di farne
un monologo in musica.
Altri
libri, meno epocali, dicerto inconsueti ─ ho tardato a dire che la forza
di Debenedetti, dopo di lui anche di Pedullà, la loro capacità di cambiare la
vita della sartina, di pompar sangue in studenti sbalorditi e, per istituzione,
sbalestrati, sta soprattutto nello squadernare correndo i rischi dell’oscenità,
della ‘crudeltà mentale’, i termini radicali e originarî d’una lettura tutta
rimessa a novo? (la chiameremo, quella che contrastarono, l’“èra del manuale”? sempre
più spesso e pesante, spensierato e grossier,
incubo ancora in me di quei sapegni, che invece di offrirmi ragioni per
inoltrarmi al passo, e. g., delle Operette
morali, riassumevano pedissequamente e senza alcuna gioia di scrittura, per
pagine e pagine fusche, quelle insigni Operette
calandovi nel mezzo doppia saracinesca di quell’ignobile rimasticaticcio). Tre
giorni fa si era messa sù la presentazione, in una botteghina musicale piena
all’orlo di spartiti e di libri, di un mio (in sostanza) ‘poemetto in prosa’
dedicato ai Tenori, al loro mito di novelli Orfei. Una idea di Velio Carratoni.
(Ne escono male soltanto i Tre Tenori della Poca Lisse). Venuto graziosamente a
spendervi il tardo pomeriggio (d’improvviso Bologna era precipitata in una vera
bufera di vento gelido e pioggia crosciante, è la seconda volta che mi càpita,
anni fa fu per la presentazione che avrei fatto nella sua Vescovato, a non
molti chilometri da Cremona, del libro più recente di Luisito Bianchi, prete,
operaio ─ si rispetti la virgola ! ─ e scrittore: lampi tuoni
saette come nel finale del Rigoletto,
all’uscita il borgo era semialluvionato) uno dei migliori, a mio avviso il migliore tenore italiano della
generazione ch’era giovane venticinque anni fa. Dove e chi altri trovereste,
come William Matteuzzi, che oggi prosegue la sua carriera naturalmente venuta a
termine come insegnante di canto di fondata reputazione, il quale vi dicesse:
in un’opera, dir bene un recitativo può riuscir più difficile, e più
artisticamente lucroso, che dar fiato e vigore d’accenti sempre i soliti a una
‘romanza’? “Se un allievo viene da me per studiare l’addio alla vita di
Cavaradossi (‘E lucevan le stelle… stridea l’uscio dell’orto…’) io gli chiedo
se ha mai pensato, prima, a Monteverdi”. Bene, pochi ma buoni, ci volarono
addosso tre ore. All’atto del congedo (“Poi che le separanze oneste e liete | furo
iterate sette o nove volte…”) l’ospite, ossia ospitante, della singolare
libreria, che rischia d’esser l’unica rimasta in Italia (né maestri né allievi
di conservatorio spenderebbero un euro scagazzato per procurarsi un libro di
musica, fanno le fotocopie tutte nere e lo stesso amore riserbano a legger
quelle note, ad impararle e ad eseguirle alla meno peggio), mi riserba una
sorpresa. La bottega (“Ut Orpheus”, senza Ambleto); e il gestore, “Antonello”,
carissimo a mio figlio che a Bologna lavora, pendolando, e che quasi ogni
giorno che mette in terra la Musa, va a fare quattro chiacchiere e ad
aggiungere qualche spartito alla sua personale musicoteca. Beato lui, cui
latina è la musica notata. Per me resta, in sostanza, chinese. Bene, non sapevo
o m’ero scordato il cognome di questo Antonello, che fa Lombardi. E di
Antonello Lombardi (lui) era il bel libro offertomi con titubanza, 250 pagine in buona carta e distinti
caratteri, certo non s’usa più, legato in tela orrevole con attraente
sopracoperta (riproducente un dipinto viennese di Reinhold Völkel), frutto di
venti (venti!) anni di studio su
Elias Canetti: La scuola dell’ascolto.
Oralità, suono e musica nell’opera di E. C.
Ignoravo
del tutto l’esistenza di questo lavoro, uscito ormai più di tre anni fa e
(temo) nel silenzio universale; né sapevo che il competentissimo musicopola
fosse ai bei dì laureatosi in Lettere moderne. Non è cosa da dilettante,
scritto in lingua nobile senza cernecchi, sto a dire, manieristico-bacchelleschi
(non si sa mai, Bologna…), e una quasi sterminata auscultazione delle minime
particelle canettiane lo rende duttile non meno che prezioso. E io che credevo
di aver letto bene il mio Canetti. Lombardi si è fatto competenze sterminate,
con scrupolo gaudente, seguendo le bulimìe dello scrittore prediletto, i suoi
segreti e le sue deviazioni: trenta fitte pagine di bibliografia in molte aree
linguistiche, con discografia e filmografia relative ai miti musicali
canettiani o alla traduzione radiofonica di originali di lui. Mi attirò, di
prima apertura, un paragrafo che s’intitola Voci
di [Karl] Kraus, Stendhal, Platone.
Nemico
d’ogni eloquenza anche minimale, Lombardi, educato all’arte dell’ascolto (apre
la via di salute) non fa più che estrapolare, qui, alcuni passi di un autore,
come Canetti, dei più limpidi che mai la gloria di scrittura abbia prodotto:
*Voci: voci
che suonano ovvie, come se restassero sempre uguali. Voci pungenti. Voci
carezzevoli.
Voci
ferite.
**Voci che turbano il
cielo.
*** Il suo [di Kraus] non appare
in nessun caso un pathos a vuoto […] è sempre pervaso di una passione
senza eguali e può apparire teatrale solamente a coloro che non hanno udito
Karl Kraus con le proprie orecchie.
(Viene in mente l’insofferenza di Canetti per
le traduzioni).
*[…] Stendhal è piuttosto italiano,
attraverso Ariosto e Rossini. Perfino in Napoleone ha visto un italiano. | Mi
sarebbe piaciuto molto sentir parlare Stendhal in italiano.
(E qui vien fuori, in
tempi non sospetti, altra insofferenza, stavolta di Stendhal, per la lingua
fiorentina, abusivamente celebrata (la ‘c’ aspirata lo fa pensare all’arabo).
Oggi non uno fra i buoni, nemmeno chi sventuratamente l’apprese
insopprimibilmente da bambino, riesce più a non stuccarsene).
Di
séguito (da un libro di Franz Rosenthal):
**Al
termine della biografia islamica di Platone
si trova il seguente passo, inaspettato, sul suo modo di piangere: | “Amava star solo in solitari luoghi campestri. Dove
fosse, il più delle volte lo si poteva capire udendolo piangere. Quando
piangeva lo si poteva udire in deserte contrade di campagna a due miglia di
distanza. Piangeva a dirotto”.
Vorrei
saper se Antonello sarebbe d’accordo con me che questi excerpta sono già il “libretto” per un musicista, oggi, mancatoci
Pennisi, impareggiabile, lo spagnuolo Luis de Pablo. Uno del ’30, come Pedullà.
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