LUOGO COMUNE
DIBATTITO POLITICO
Sinistra senza popolo e popolo senza sinistra


      
Una riflessione sullo stato della nostra democrazia, a partire dalle severe considerazioni critiche di Scalfari sulla riforma elettorale dell’Italicum. La mutazione genetica indotta dal ‘renzismo’ rampante non riesce a nascondere il crescente astensionismo e la massiccia disaffezione delle masse verso i partiti politici. Da ciò discende che la rinascita di una grande forza popolare progressista e di sinistra è una impellente necessità nazionale.
      



      

di Aldo Pirone

 

 

Domenica 12 aprile u. s. Eugenio Scalfari avvertiva nel suo consueto articolo di fondo su “la Repubblica” che “Senza appoggio popolare la sinistra diventa un inutile club”. Questo nel titolo. Nel seguito del suo scritto il grande vecchio del giornalismo italiano ha messo nel suo mirino, tra le altre cose, il famoso “combinato disposto” che l’azione del Capo del governo e segretario del PD Renzi sta portando avanti in Parlamento. In pratica, egli dice, ci troviamo di fronte all’abolizione della democrazia parlamentare in quanto “un Parlamento di ‘nominati’ in un sistema monocamerale è una ‘dependance’ del potere esecutivo che fa e disfà senza più alcun controllo salvo quello della magistratura se dovesse trovare un reato contemplato dal codice penale”. 

 “Resta naturalmente la Corte costituzionale – prosegue – ma anch’essa può finire con l’essere una Corte nominata dall’esecutivo se desse troppa noia all’autoritarismo d’un governo a sua volta sottomesso alla decisione d’un autocrate e del suo cerchio magico. Gli interessati si sono assai doluti perché avevamo usato il termine di democratura per descrivere l’essenza di quanto rischia di accadere. Ma quale altra parola lo descriverebbe in modo più appropriato? Aggiungeteci la ciliegina che riguarda la dipendenza della Rai dal governo che sta per essere decisa tra poche settimane e avrete una gustosissima torta che saranno in pochi a gustare”.

Giudizi pesanti che poi diventano personali e senza appello quando l’illustre giornalista, in vena di paragoni storici, aggiunge che Renzi sostiene che si tratta di una sinistra nuova (la sua n.d.r.), moderna, cambiata e forse è vero. Però a me ricorda alcuni personaggi che provenivano tutti dal socialismo e che instaurarono qualche cosa che somiglia molto alla democratura. Si tratta di Crispi, Mussolini, Craxi. E chiedendo scusa ai tre precedenti (come ho già detto tutti e tre provenienti dal socialismo) mi viene anche da aggiungere Berlusconi che ai tempi del suo sodalizio con Bettino si proclamava socialista anche lui”.





Eugenio Scalfari


Nell’articolo scalfariano c’è anche una stroncatura delle politiche economiche e del lavoro, in particolare lo jobs act, di Renzi.

Osservazioni così perentorie, ma autorevoli, debbono aver spaventato l’altro grande vecchio, questa volta della politica istituzionale, il Presidente emerito Giorgio Napolitano che si è affrettato a dare il suo ennesimo endorcement al giovane fiorentino con la singolare argomentazione che sì, fu un grave errore aver liquidato il “mattarellum” per il “porcellum”, ma ormai “L’unica cosa che posso dire è che non si può tornare indietro e disfare quello che è stato faticosamente costruito, elaborato e discusso in tutti questi mesi. Guai se si piomba in un ricominciamo da capo”. Insomma non importa se dirigiamo la Repubblica verso un precipizio, perché quel che conta è che abbiamo fatto tanta strada per portarcela e tornare sui propri passi, falsi, non si può.

La cosa che più dovrebbe preoccupare è che la destrutturazione dell’equilibrio democratico-istituzionale della Costituzione repubblicana in atto avviene nel quadro di un’ulteriore perdita di credibilità del sistema politico travolto dal trasformismo imperante (ben 200 tra deputati e senatori hanno cambiato casacca politica, alcuni più volte per un totale di 250 passaggi di squadra) e dallo sgretolamento delle gracilissime, benché fameliche e autoreferenziali, forze politiche sorte con la seconda Repubblica 23 anni fa. Lo stesso PD che sul piano elettorale mantiene ancora un qualche appeal e una qualche struttura organizzativa territoriale, mostra la corda sotto il peso di una “questione morale” intessuta di scandali e del rapido stravolgimento dello strumento delle primarie divenute il terreno di scontro di consorterie locali che ha consentito ampie infiltrazioni alla destra. Avanza così una mutazione genetica, già evidente all’atto della sua fondazione, rispetto alla sua principale radice di sinistra. Mutazione spinta celermente in avanti dal renzismo rampante.

Due dati dicono quanto sia preoccupante il quadro fondamentale della tenuta democratica e progressista del Paese: il crescente astensionismo elettorale – è il primo partito in assoluto – che ha ormai toccato territori tradizionalmente ad alta partecipazione politica come l’Emilia, e il finanziamento dei partiti tramite il 2 per mille dopo l’abolizione, sebbene a rate, di quello pubblico. Solo 4 contribuenti su 10mila hanno sostenuto con il 2 per mille dell’Irpef il loro partito politico: 16.518 cittadini su circa 41 milioni che hanno dato in tutto 325mila euro o poco più. Una sentenza senza appello che la dice lunga sulla stima che circonda le forze politiche e sul grado di disaffezione dei cittadini verso di loro.

La sinistra ne esce a brandelli. E sempre più urgente appare la necessità di avviare nel Paese un processo di ricostruzione sociale, politica, culturale e morale di una forza progressista che superi la divaricazione allargatasi a dismisura fra una sinistra politica senza popolo e un popolo senza sinistra.





L'attuale premier Matteo Renzi


Le contorsioni in atto nel PD, le battaglie che la sinistra interna a quel partito, anche se molto frammentata, cerca di opporre al renzismo sono il segno di una resistenza alla mutazione genetica cui si aggiungono i tentativi di convergenza alla “greca” delle forze minori della sinistra prive però di quella capacità di mobilitazione popolare che hanno spagnoli e greci. E così dicasi dei tentativi, politicamente incerti, per non dire confusi, sulla prospettiva, ma giusti nell’idea ispiratrice, di smuovere un qualche movimento sociale che vada oltre le nomenclature politiche dell’attuale sinistra. Non si sfugge all’impressione che siano tutti movimenti e sommovimenti parziali, senza un chiaro ed esplicito obiettivo strategico che possa farli, anche se gradualmente, coagulare.

Quale dovrebbe essere quest’obiettivo, lo si può ricavare solo partendo da ciò che necessiterebbe a questo Paese per uscire dal declino politico, economico e morale in cui lo ha immerso la cosiddetta seconda Repubblica.

 

Antonio Labriola ebbe a dire, sul finire dell’Ottocento, che rispetto all’allora nascente Partito socialista più che un’immediata e palingenetica rivoluzione proletaria auspicava che quel partito divenisse nel concreto frangente storico italiano quella compagine popolare incorrotta che mettesse fine al trasformismo, allora, come oggi, imperante, immettendo nelle istituzioni regie, per trasformarle in senso democratico, il sangue nuovo delle classi popolari, operaie e contadine.

Non è fuori luogo, oggi, auspicarsi sostanzialmente la stessa cosa, pur in un contesto sociopolitico profondamente mutato. Solo che qui non c’è un nascente Partito socialista, ci sono, a sinistra, una frantumazione e una dispersione politica, un discredito e una sfiducia innanzitutto morale, che hanno ridotto, e di molto, il peso delle classi popolari e medie nella vita politica e nelle Istituzioni.  Il percorso della rivoluzione democratica iniziato settant’anni fa con la Resistenza e la Guerra di Liberazione non è stato solo interrotto, ma, in questi ultimi lustri, respinto indietro; la democrazia “progressiva” è diventata “regrediente”, spesso con l’attiva collaborazione di una sinistra post comunista subalterna ai miti della globalizzazione neoliberista e al ceto padronale.

Quel che occorre all’Italia è che rinasca in forme organizzative nuove e con forze nuove e giovani una compagine progressista innervata nelle classi lavoratrici – in quelle in carne ed ossa di oggi non nel loro mito di ieri –, nel lavoro sia esso dipendente che autonomo, nell’intellettualità, nell’imprenditorialità dedita alla produzione innovativa e non alla rendita speculativa, nell’ambientalismo ecologista propugnatore di un nuovo modello di sviluppo economico sostenibile. Dedicarsi a questo compito sarebbe atto di sommo realismo politico.

Nel secolo scorso a muovere la formazione dei partiti operai e popolari della sinistra furono grandi miti: il socialismo inteso come “sol dell’avvenire” e la “rivoluzione d’ottobre” che parve inverarlo.

Quelle utopie, come spesso è accaduto nella storia alle grandi ideologie o religioni palingenetiche, illuminarono e mossero al sacrificio milioni di persone che pensarono con essi di riscattare la condizione non solo degli operai nelle società industriali dell’Occidente ma anche i “dannati della terra” in Asia, in Africa e in America latina. Quei miti rinnovatisi nella grande lotta antifascista da cui trassero nuova linfa produssero non solo innegabili conquiste sociali e civili democratiche ma anche “mostri”, regimi tirannici e autoritari finiti nella polvere.





Oggi non è più tempo di utopie o di miti, ma di valori sì, quelli sempre attuali della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà da inverare nel contesto sociale. La tavola italiana di questi valori è la Carta costituzionale che può ben essere alla base della formazione di una rinnovata forza popolare di sinistra e progressista di orientamento socialista. C’è in essa quanto basta d’ispirazione ideale e motivazione etica per perseguire la “riforma intellettuale e morale” dell’Italia. Più che un Partito della Nazione essa reclama la formazione di un Partito della Costituzione.

L’altro corno del problema è che gli affanni e le regressioni della sinistra italiana sono un aspetto specifico della perdita di peso politico ed egemonico della sinistra e del socialismo europeo e mondiale (che fine ha fatto l’Internazionale socialista?). La globalizzazione neoliberista richiederebbe che, almeno su scala europea, si avviasse un processo di ricostruzione sovranazionale della sinistra progressista.

Il motto del nascente movimento operaio e socialista, “proletari di tutti i paesi unitevi!”, è stato fatto proprio nel trentennio trascorso, e spietatamente praticato, dalla borghesia finanziaria internazionale che si è unita nelle grandi multinazionali e concentrazioni finanziarie coltivando e diffondendo il cosiddetto pensiero unico sulle magnifiche sorti e progressive, nonché salvifiche, del mercato da loro dominato. Un’operazione egemonica che ha dato a quel pensiero la “forza delle credenze popolari”. I lavoratori, lasciati sostanzialmente soli da chi li doveva organizzare e rappresentare, sono rimasti a difendersi dal capitale finanziario dentro confini nazionali, abbandonati a competere fra loro, contendendosi, a suon di ribassi salariali ed erosione dei diritti, il lavoro che viene spostato da un paese all’altro seguendo esclusivamente gli interessi del capitale. La stessa Unione europea, dominata dal neoliberismo compassionevole e nazionalista tedesco (ma dove sta la Spd?), con la sua arcigna difesa dei parametri di Maastricht, fa da baluardo protettivo agli interessi finanziari che hanno prodotto la crisi economica, in atto da più di sette anni. E per questo produce populismi e xenofobie.

Uscire da questa condizione non sarà facile. Movimenti che accennano alla nascita di una nuova sinistra con ”appoggio popolare” in Europa, ci sono. Podemos in Spagna e Syriza in Grecia dicono che qualcosa si muove.

Ma la via sarà lunga e dolorosa. Essenziale è che si cominci a camminare, perché, come si dice, la strada più lunga inizia sempre con un primo passo. L’importante è che sia in una direzione giusta, quella dell’unità, del radicamento sociale e della rigenerazione morale.

 

 

 

17 aprile 2015

 




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