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di Silvia Ciancimino [1]
Volendo recuperare alcune recenti considerazioni di Gabriele
Perretta sullo stato dell’arte a noi contemporanea, egli,
problematizzando l’irrimediabile metamorfosi e dell’opera
e dell’autore che la concretizza (come fenomeno endemico ai
complessi regimi di accumulazione di capitale immateriale e
monetario), sostiene: «l’artifex è più
vicino ad un esangue artigiano che si allena ad eseguire un mandato
progettuale e teorico ormai staccatosi dal contesto del singolo
soggetto […]. Nei tempi delle comunità virtuali la
diffusione e la distribuzione dell’arte cresce ogni giorno e
si è trasformata in una pratica dilagante […]. Di
fronte alla composizione [di un’opera] non si prova più
quel sacro timore che accompagna l’immagine del genio. Le
comunità, con una ironia ambiguamente nascosta da un’anonima
autodefinizione rimettono ancora una volta in discussione il senso
dell’arte. Esse, contro il timore di Platone, ci dicono che
l’arte è dappertutto e gli autori in ogni luogo […].
La filosofia sociale del ready made ha fatto il
suo lavoro definivo». Se sembra affermarsi, come cifra dello
statuto dell’arte contemporanea (nella sua estensione più
radicale), una persistente variazione che ridiscute lo status della
soggettività “singolare” (qualora questa sia mai
esistita, al di là delle speculazioni astratte di certe
vulgate concettuali), i vostri progetti sono collocabili all’interno
di una tendenza effettivamente in atto. Dunque,
posto che la scrittura collettiva, da un punto di vista formale, ha
avuto una occorrenza a intensità intermittente nella storia
della letteratura (quantomeno occidentale), a cosa risponde la
volontà di scardinare certi conservatorismi in difesa della
ragione “letteraria”?
R. Non è raro avvertire in molti (siano essi artisti, poeti,
letterati, critici o semplici uomini e cittadini del mondo) un senso
di sgomento e di nostalgia per le perdute qualità della
tradizione e delle sue divisioni funzionali tutte le volte che il
divenire storico-temporale sommuove datità naturali e
artificiali. Nulla rimane fermo. Le metamorfosi delle cose e delle
relazioni che riguardano il mondo (vecchio e nuovo) che abbiamo in
comune – che abitiamo e che ci abita – sono, però,
la condizione strutturale del suo essere come divenire. Se ad esso si
affianca anche un altro mondo in comune più artificiale, più
ibrido e plurale di prima – quello virtuale o della rete www
del cyberspazio (tanto per non divagare molto) –, che
impone revisioni e modifiche, non c’è da avere
nostalgia. Anche perché, paradossalmente, questo mondo
virtuale non ha meno realtà e relazionalità interattiva
con l’esistenza di ciascuno e di tutti, come è evidente
dagli effetti di realtà che ha nella vita di ogni giorno e nei
comportamenti sociali sia individuali che di gruppo. Così se
la vecchia soggettività singolare, in una contestualità
mondana infondata e sempre più complessa e della relazione
molteplice, mescolata e rizomatica (Gilles Deleuze), perde la
sua qualità di ipostatizzata sostanza individuale o di
identità monolitica e permanente, cui non sfuggiva neanche
quella dell’unicità sacrale dell’autore quale
“genio” – l’artista quale figura superiore e
creatore unico che riassume in sé tutte le capacità e
le competenze –, c’è solo da aprirsi dei varchi.
Il compito e l’impegno delle nuove soggettività,
soprattutto artistiche e poetiche, è quello di praticare dei
buchi attivi nella rete dell’interattività e
dell’interdipendenza rizomatica della rete; di muoversi dentro
le nuove figurazioni e decidere (come in un laboratorio sperimentale)
il da farsi del pensare, dell’immaginare e dell’agire
insieme (il mondo complessificato è sempre un mondo in comune
e relazionale comune). E ciò per non rimanere schiacciati dai
nuovi automatismi della società dell’immateriale del
capitalismo cognitivo e simbolico, tutto teso ad omologare,
sorvegliare e controllare entro un vivere e co-vivere mercantile e
toto corde mercificato e deresponsabilizzante, poiché
privilegia la trasmissione di stereotipie connettive subordinate ai
consumi passivi e passivizzanti.
Se è vero che nei tempi delle comunità tecno-virtuali
sofisticate l’arte è diventata una pratica più
diffusa, non per questo essa perde il suo senso, o che
l’artifex possa essere prefigurato solo quale «esangue
artigiano che si allena ad eseguire un mandato progettuale e teorico
ormai staccatosi dal contesto del singolo soggetto» (Gabriele
Perretta, art.comm. Collettivi, reti, gruppi diffusi, comunità
acefale nella pratica dell’arte: oltre la soggettività
singolare, 2002), in quanto parte senza parte di un mondo
completamente automa, e mosso da neutrali algoritmi
elettro-informazionali. Né il vecchio mondo né quello
nuovo perdono quella eccedenza d’essere di “mondo in
comune”, cui si abbevera ogni artista e poeta (figura singolare
plurale e/o collettiva), o soggettività singolare sociale non
estranea all’intrecciarsi del dinamismo relazionale
dell’interdipendenza interattiva; e tanto più se non è
sorda all’appello della libertà (Albert Camus ricordava
in L’uomo in rivolta del 1951 che «è l’arte
che ci costringe ad essere combattenti» e testimoni della
libertà) e alla cooperazione orizzontale dell’open
source. Un’arte cioè che faccia i conti con il mondo
plurale in cui vive e opera, e perciò capace di non perdere
l’iniziativa autonoma e dirompente, ribelle, politica e
unitamente ristrutturantesi in esperienza di soggettività
plurali e soggettivazioni singolari e collettive dall’identità
ibrido-meticcia. E l’arte che agisce in un mondo plurale –
scrivono Andrea Balzola e Paolo Rosa – non può non
lasciare la propria autoreferenzialità per farsi “politica”,
ovvero porsi e agire come arte “fuori di sé”
(Andrea Balzola e Paolo Rosa, L’arte fuori di sé. Un
manifesto per l’età post-tecnologica, 2001). Qui la
figura dell’artista è quella cioè capace di
uscire dalla propria chiusa identità
individual-individualistico-sostanzializzata e di rifarsi azione
comunitaria (costruirsi come un essere-gli-uni-con-gli-altri) o rete
relazionale e critica con altri artisti, nonché
collaboratori/cooperatori liberi lì dove la stessa azione
progettuale dell’opera richiede ideazione, progettazione e
realizzazione artistica impegnata. In tal senso, e in esergo alla
loro opera a due mani (L’arte fuori di sé. Un
manifesto per l’età post-tecnologica), Andrea
Balzola e Paolo Rosa pongono, e qui fa caso ricordarlo (seppur in
versione abbreviata), un pensiero alquanto significativo nella
direzione proposta: «Seppure involontariamente noi artisti
siamo impegnati. Non è la lotta a renderci artisti, ma è
l’arte che ci costringe a essere combattenti. […]. Per
la stessa funzione egli è impegnato nelle profondità
più inestricabili della storia, là dove soffoca la
carne stessa dell’uomo».
Oggi la rete favorisce tutto questo, e lo permette sempre più
estesamente (si parla del popolo della rete, circa due miliardi di
cybercittadini) anche sul piano delle resistenze
politico-conflittuali e di sabotaggio alla democrazia fascista della
ristrutturazione dell’ordine capitalistico. E qui (per ragioni
di spazio) basta il richiamo al fenomeno delle azioni di dissenso
erosivo esemplare dell’“hacktivismo”. Il mondo
della rete non è, oggi, solamente quello che può
riflettere unicamente una duplicazione simulativa della vita dei
naviganti o essere l’offerta passivizzante di un dimensione
“seconde life” isolante e ludico-estetizzante, che
bypassa in modo subliminale modelli di vita ed economico-consumistici
dominanti. La rete, con la sua struttura rizomatica e cooperativa
aperta, interagisce attivamente e sperimentalmente con la vita reale
e le identità dei soggetti individuali e sociali; e ciò
fino a fare emergere concretamente identità ibride e
collettive che sul piano dell’arte e delle scritture letterarie
e poetiche – limitando l’egoità dell’Io
sovrano e proprietario naturalizzata – sono sorgenti di opere
autoriali collettive.
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Nino Contiliano e Silvia Ciancimino
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Tocchiamo qui il piano della scrittura collettiva e, per quel che ci
riguarda (criticamente), la sperimentazione del soggetto collettivo e
anonimo “Noi Rebeldía”. Il nome che ormai
da alcuni anni gira in rete con testi sperimentali in edizione
elettronica prima e in edizione cartacea poi. Azione non certo nuova,
questa delle scritture a più mani e sine nomine, nella
storia delle scritture artistico-letterarie e poetiche, ma
tendenzialmente e tendenziosamente volta a mostrare che se il mondo
cambia anche le modalità scritturali e testuali del far
letteratura e poesia come pratica significante cambiano celermente
(pur conservandosi come tali o scrittura aseica), se la mano e
l’identità non sono più solamente quelle dell’ego
o dell’alter ego, ma quelle di un “noi” o
dell’“io noi” (Antonino Contiliano, “Fermenti”
per un manifesto della critica collettivo, in «Fermenti»,
n. 241/2014; L’avanguardia del collettivo anonimo “Noi
Rebeldía”, in «Fermenti», n. 242/2014).
Un noi che collabora senza perdere la propria distinzione di
genere o di stile, come scrive Francesca Medaglia (La scrittura a
quattro mani, 2014), o (sempre la stessa Medaglia, che si è
occupata delle scritture poetiche del soggetto “Noi Rebeldía”)
in forme di diversa sperimentazione in un mondo delle identità
sempre più ibride e meticciate o delle relazioni mescolate e
plurali, e su cui, per inciso, si è intrattenuta la ricerca
estetico-poetica di Édouard Glissant (Poetica del diverso,
1998; Poetica della relazione, 2007). Una metamorfosi, scrive
Francesca Medaglia (La scrittura a quattro mani, 2014), cui
non sfugge la stessa trasformazione dell’identità dei
soggetti protagonisti delle testualità po(i)etiche dell’arte
e delle lettere. L’“autore” ha perso i vecchi
connotati dell’individualità sostanzializzata e si
presenta con quelli di un molteplice ibridato. Un soggetto plurale.
Qui l’io si scioglie nel collettivo sociale del gruppo. Se la
scrittura ha perso in termini di stile ego-individualizzato, ha
sperimentato però quello del self della “Molteplicità”
e della semiosfera creola. Una categoria testuale, questa, che
permette di parlare propriamente dei fenomeni di ibridazione ormai in
itinere e diffusi. Un processo che tocca, ormai
irreversibilmente, le identità dei soggetti singoli e sociali
quanto gli stili e i linguaggi, e differenzia le scritture “a
quattro mani” in scritture di cooperazione (ogni autore
interviene per la competenza, rimanendo individuabile per specificità
tematica, stilistica, genere letterario o di gender (il genere
come identità maschile o femminile – uomo, donna)
e vere e proprie scritture di fusione creola (dove è
pressoché impossibile distinguere le identità
stilistiche, perché l’“empatia” giova a
omogeneizzare le parti). Il lavoro della nostra (Francesca Medaglia)
poi segue i passaggi di transito fino all’attualità del
contemporaneo laboratorio del soggetto plurale Wu Ming,
passando dal Futurismo e dal Surrealismo (movimenti che hanno
praticato la scrittura a quattro e più mani e intesi a
sperimentare il superamento del self personale e chiuso
dell’individualismo autoriale).
Nella strutturazione o adesione a un progetto di scrittura
collettiva ci sono stati pre-giudizi (culturali) da superare?
Esistono differenze di approccio alla scrittura, di metodo tra le
vostre composizioni “solistiche” e quelle di scrittura
comunitaria?
R. L’adesione alla proposta di scrittura collettiva e anonima
ha avuto risposte differenziate. Diciamo subito che non pochi sono
stati i casi che hanno declinato l’invito non rispondendo alla
domanda, o dichiarando semplicemente di non essere interessati, o non
partecipando perché non era presente la firma individuante il
contributo, o perché non credono nella sperimentazione
collettiva e rimangono ancorati al vecchio io individuale, l’unico
autorizzato a firmare l’opera realizzata. Anonimo però,
qui va detto, non necessariamente significa non rivelare il proprio
nome. Il nome, privo però delle decorazioni editoriali,
infatti, può essere reso pubblico solo come una delle parti
che ha costruito il testo. Nella scrittura collettiva di “Noi
Rebeldía” è il testo ultimato e finale che
conta, partendo dal presupposto di un’idea di fondo e del
motivo che l’articola in versi secondo alcune indicazioni di
fondo e generali. Ciò cui si mira è il linguaggio
poetico che lo contraddistingue come insieme testuale intrecciato
temperato (miscelato), il cui montaggio ibrido/meticcio, ai diversi
livelli, è teso soprattutto a qualificare semiopoeticamente il
linguaggio testuale stesso nel rispetto di alcune regole. Regole
preposte e proposte come condizione della partecipazione ad ogni
poeta che volesse prendere parte alla sperimentazione del soggetto
“Noi Rebeldía” (Lo schema di queste regole
minimali è stato reso noto sia nella versione in rete sia
nell’edizione cartacea – edizione CFR – che
accompagnò il progetto scritturale del 2010 e del 2014. Le due
esperienze si differenziano solo nella posizione dell’incipit
che dava l’avvio alla composizione. Ma per i dettagli rimando
al testo intero, pubblicato insieme al lavoro poetico editato).
Le differenze di scrittura e di metodo non sono state, per chi si è
cimentato con questo esperimento, un ostacolo insormontabile; così
come non è stato un altro ostacolo inaggirabile quello dello
stile e della libertà di espressione compositiva con cui ogni
partecipante contribuiva al montaggio del testo collettivo finale
stesso e anonimizzato. Non solo si concordava su un incipit (regolato
anche nel numero dei versi) che già annunciava l’idea
portante della com-posizione, ma anche sul fatto inoppugnabile
dell’esistenza di un comune e storico general intellect
po(i)etico. Un patrimonio di competenze e di tecnologia generale
pre-esistente e disponibile per tutti e ciascuno in quanto strutture
generiche elaborate nel corso temporale dalla capacità e dalla
potenza della poiesis (verbale e non verbale) degli uomini
(bene generale e comune, dunque). Un fondo comune che, come la lingua
che è sistema simbolico pre-individuale, avrebbe sostenuto la
possibilità concreta di lavorare open source a un testo
letterario e/o poetico collettivo e anonimo. Abbiamo chiamato, per
similarità e differenze, questa tecnologia (logica, retorica,
ritmica, fonosemantica, ecc.) poetic general intellect (in
analogia al general intellect di cui K. Marx ha anticipato
l’impiego produttivo nell’industria delle macchine: le
potenze della mente umana riconvertite come tecno-cervello macchina
che mima le capacità della forza lavoro reale degli uomini).
Il complesso cioè tecno-concettuale-immaginativo generico, che
oggi è la nuova forza produttiva incalzante e circolante
dell’economia immateriale-cognitiva del postfordismo. E questa
tecnologia non riguarda solamente la produzione dell’economia e
dell’economia politica tout court. C’è
infatti anche una produzione dell’economia poetica che non ha
meno bisogno di un comune general intellect poetico,
ovvero di un generico e generale bagaglio di bordo che consente di
parlare e scrivere per mano di un “noi” meticcio,
soggetto collettivo e anonimo. Un noi-pronome che appunto per essere
il punto di vista di un soggetto altro, o collettivo e generico
quanto capace di esteriorizzarsi e relazionarsi impersonalmente,
della natura simbolica e astratta non sostanzializzata può
godere di una schematicità eterologica mescolata. I pronomi
che accompagnano e presiedono l’azione dei verbi della nostra
grammatica (et alia) sono: io, tu, egli, noi, voi, loro.
Il “noi”, nell’accezione di cui sopra, si può
considerare inclusivo dell’“io” e del “tu”
miscelati. E, diversamente da come afferma E. Benveniste, crediamo,
gode della stessa impersonalità di cui gode l’egli.
Il pronome, questi, che pur estromettendo il soggetto personale (il
sovrano perché proprietario esclusivo del nome proprio e del
dominio che esercita sulle cose come privilegio sancito dalle
fondamenta della cultura e del diritto di origine romana) non
perderebbe però la possibilità della relazionalità
tra soggetti, pur non essendo più né io né tu.
Mentre il noi nel punto di vista di Benveniste conserverebbe
sia l’io che il tu come identità rovesciate
trascendentali, o immagini perfettamente speculari, simmetriche. E
stante così la questione, al noi, essendo visto come un
insieme di elementi immutabili e altrettanto trascendentale, è
impedito di qualificarsi con la stessa impersonalità
dell’egli. (Roberto Esposito, Terza persona. Politica
della vita e filosofia dell’impersonale, 2007). Ma il tu
anziché essere visto e formalizzato come il rovescio speculare
dell’alter ego può essere pensato come un ego
alter (eteros) e non un io rovesciato, in quanto identità
in divenire e variazione storica che meticciandosi si metamorfa, sì
che l’impersonale del noi non sarebbe più un sentiero
impensabile ma una miscela in cui il due (io-tu) non potrebbe più
mantenere fermo il self originario. Significherebbe piuttosto
un esserci o un essere-con una linea di confine che permette
criticamente di pensare e agire come una identità costituente
nuova e ibrida, o una potenza di divenire-essere disponibile pronta a
rapportarsi soggettività collettiva personale-impersonale, e
insieme inscindibilmente singolare plurale. Quel divenire-altro
(divenire-animale, divenire-albero, divenire-minerale, divenire-x, y,
z …) di cui parla G. Deleuze. Ma non è fuori luogo qui
ricordare, analogicamente, e per inciso, che esistono culture e
aggregazioni socio-politiche in cui il nome identificante l’individuo
e la sua singolarità è solo una differenza relazionale,
e questa priva di quei connettivi logici delle nostre grammatiche,
che sono funzionali alla radicale divisione dell’io e del tu.
In questi contesti l’individualità del singolo (l’io)
è niente al di fuori del noi collettivo del gruppo: “Giovanni
noi” recita infatti la cultura socio-politica Wintu! (America
Latina). Il “Giovanni noi” – io noi – è
il soggetto di una cultura politica che non conosce, come indicato,
il pronome io a sè stante; l’individualità
è solo una specificazione del noi, una sua variazione. Il
titolare di un enunciato e di un testo, crediamo, è sempre il
noi e l’individualità desovranizzata è l’“io
noi”. Presso il contesto di cui ci occupiamo, il titolare degli
enunciati poetici è il soggetto collettivo poetico anonimo Noi
Rebeldía (Noi Rebeldía 2010-2012, We are winning
wing; Noi Rebeldía 2014, L’ora zero). La sua
nascita e la possibilità di sperimentare la sua prima proposta
è stata accolta e lanciata dalla “Rivista Online del
Sindacato Scrittori Italiani”, http://www.retididedalus.it
. I nomi dei partecipanti sono la variazione differenziale del comune
del noi che, in certa maniera, si può dire, ne costituisce il
fondamento anonimo, in quanto generico e generale.
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Tano Festa, Coriandoli
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Quando diciamo e leggiamo (in copertina, cartacea e/o
digitale), tra gli altri: Wu Ming (e qui mi riferisco sia ai
progetti dell’intero “complesso”, sia ai progetti
di scrittura comunitaria condotti a mezzo web), SIC (Scrittura
Industriale Collettiva), Noi Rebeldía agisce lo scacco
dell’anonimia de-identificata sul lettore, sul mercato. Quale
senso ha, per il soggetto collettivo poetico Noi Rebeldìa,
l’anonimia, per l’appunto?
R. L’anonimia praticata nella scrittura collettiva mette sul
tappeto della discussione una problematica molto articolata,
variegata e sfumata. Tutto ciò richiederebbe altro tempo e
spazio per argomentare e legare, come richiederebbe non avere certi
limiti che chi scrive invece si riconosce e non vuole forzare oltre
il dovuto. Succintamente tuttavia si è già tentato di
dare qualche indicazione schematica di riflessione analitica e
propositiva circa l’identità autoriale non
individualizzata del soggetto collettivo anonimo, che, sotto la
designazione delle cifre simboliche citate (per esempio: Wu Ming,
SIC, Noi Rebeldía), si è sperimentato sia sul piano
della produzione artistica o letterario-poetica, che come offerta
all’ipotetico lettore tramite la distribuzione e circolazione
del mercato editoriale. Un mercato che, oggi, grazie anche al sistema
rete web, è cambiato profondamente consentendo le
iniziative in proprio o, come si dice, anche print on demand.
Certo il mercato editoriale che può garantire l’identità
dell’autore già individualizzata, riconosciuta e mediata
facilita il lettore nella richiesta di identificazione della persona
con il suo nome e cognome di proprietario specifico. Ma non per
questo necessariamente l’evitare lo scacco deidentificante
risolve tutti i problemi legati al riconoscimento del senso della
testualità artistica e del suo essere linguaggio simbolico
particolare. E ciò in specie se l’uno e l’altro si
pongono come impegno di comunicazione non consumistica e frattura del
consenso acritico nel tempo della società del neocapitalismo
espanso; quello della rimodernizzazione elettro-informazionale
cognitiva e degli automatismi algoritmici che della comunicazione e
dell’immateriale hanno fatto la propria forza produttiva,
sfruttando l’autovalorizzazione della potenza creativa propria
di ogni mente singolare e collettiva cooperativa. Un contesto
mescolato e ibrido in cui l’astrazione intellettiva e
immaginaria è confinata entro formule e combinatorie tali che
hanno assunto la veste di una materialità artificiale
onnipotente e sussunto il tempo della vita, come ha scritto
per esempio Toni Negri, interamente sotto il tempo del capitale,
mentre lo sfaldamento della società di massa dà vita
alla moltitudine delle singolarità e delle pluralità e
a nuove identità, ibride. Appunto. Il problema del lettore,
che si trova di fronte alla scrittura plurale e anonima e
all’interrogativo dell’identità autoriale, allora
si pone nei termini di chi deve percepire e comprendere schemi mobili
e molteplici – come quando si trova davanti all’identità
di un paesaggio, o di una superficie marina, o di un clima che varia
continuamente per delle dinamiche imprevedibili del sistema
relazionale in divenire – e deve decidere come reimpostarne il
configurarsi e riconfigurarsi della stessa identità. L’altro
punto, per quel che tocca uno degli aspetti peculiari del soggetto
collettivo e anonimo della scrittura poetica “Noi Rebeldía”,
è quello di far parlare il linguaggio stesso e complesso della
poesia; un linguaggio, questo, segnico-semantizzante già di
per sé non standardizzabile quanto irriducibile agli “automi”
algebrici che governano i vari software dei dispositivi
azionanti l’industria dell’informazione e della
comunicazione teleinformatica. L’industria cioè che
mette a lavoro il capitale simbolico, quello dell’immaginario e
delle immagini, producendo significati di consumo e di sudditanza, e
reificando i rapporti tra i soggetti come rapporti tra immagini e
viceversa (ieri erano i rapporti tra cose che venivano scambiati come
rapporti tra persone). Vero è anche che (in generale) il mondo
dell’arte e della “creatività” po(i)etica è
pure una fonte di approvvigionamento e appropriazione da parte del
nuovo modello industriale postfordista, ma è pur vero ancora
il fatto che il lavoro creativo può essere reificato e
mercificato solo quando i suoi valori formali (portatori in sé
simultaneamente di polisemia determinata-indeterminata: espressione
ed espresso sono inscindibilmente connessi nella loro simulazione di
secondo ordine, direbbe J.M. Lotman) diventano «valori positivi
d’uso» e naturalizzati come un marchio di fabbrica.
Perché «l’industria culturale non può
operare sulle strutture, o sugli archetipi, ma sui loro stereotipi
d’uso o sulle loro funzioni, come, per es., temi romanzeschi,
fabulazioni […] Essendo inalienabile, il lavoro creativo non
può mai divenire lavoro produttivo, strumento di
autovalorizzazione del capitale, produzione di plusvalore»
(Guido Guglielmi, Letteratura come sistema e come funzione,
1967). Tant’è che oggi il capitale finanziario
interviene e si propone come attore di attualizzazione solo dopo che
il processo creativo della forza intellettiva singolare o cooperativa
open source, sganciata dal vecchio rapporto tra valore d’uso
e valore di scambio (secondo i termini della legge del lavoro
valore), offre in indipendenza e autonomia (fuori la formula:
capitale costante e variabile dipendente, il lavoro vivo) il progetto
pronto per la realizzazione stessa.
Fuor di metafora e non, la “rete” è
divenuta probabilmente il paradigma emblematico di questi ultimi
anni. Le progettualità collocabili entro il piano della
scrittura comunitaria mostrano, in certa misura, una convergenza
con la “capacità reticolare” che informa, ad
esempio, oggi, lo scambio comunicativo (su vari livelli - contenuti,
piattaforme, utenza, etc. - ) nell’epoca dell’egemonia
della rete, sempre più innervata dalla sperimentazione di
prassi cooperative esercitate da soggettività enunciative
plurali. Tornando allo specifico delle scritture collettive, si è
talvolta assistito a una metamorfosi comunitaria strutturale e
mediale di testi (in)compiuti, mi riferisco ad esempio a La
ballata del corazza prima racconto, poi opera teatrale,
musical e, ancora, fumetto a partire da un racconto open
source di Wu Ming 2 liberamente modificabile e scaricabile
in rete. Rispetto ad altre discipline (teatro, cinema, musica, arte
visuale) sembrerebbe tuttavia che in “letteratura”
l’assunto secondo cui “l’arte è produzione
collettiva” incontri maggiori resistenze. Cosa ne pensa,
qualora confermi suddetta ipotesi?
R. Ieri, e solo per ricordarne una, la metafora egemone e propria in
funzione del dire, leggere e agire il mondo, è stata quella
dell’orologio. Dietro questa metafora pulsavano le esigenze del
modello deterministico e riduzionistico di ogni variabile e relazione
alle costanti comunque pensate come permanenti. Che i presupposti
fossero di ordine metafisico tradizionale o di altro paradigma (una
teleologia immanente e storicistica) non cambia di molto
l’orientamento preferito. Con l’orologio siamo in
presenza del paradigma delle scienze dure e meccaniche. Tale modello
o paradigma che, egemone nelle stanze della società, secondo
l’episteme del soggettivismo moderno, dettava leggi di
comando inappellabili al mondo naturale e a quello artificiale e
umano nelle sue varie componenti. Si dice che E. Kant avesse
sentenziato: basta prendere ordini dalla natura, ora i maestri siamo
noi e lei ubbidisce ai nostri comandi. Il meccanismo dell’orologio,
perfettamente programmato, ordinato nei minimi movimenti, prevedibile
e ordinato era allora il più confacente a imbrigliare le
contingenze, la casualità, l’imprevedibile e la
complessità delle relazioni in divenire instabile e aperto,
che comunque non venivano misconosciute ma solamente astratte, o
depotenziate di efficacia ed epurate. La metafora dell’orologio
era la più adeguata a spiegare il congegno lineare
causa-effetto naturalizzato. La metafora – meta-pherein
(il portare fuori in immagine le astrazioni concettuali e ipotetiche
del pensiero degli uomini per rendere visibile l’invisibile o
rappresentare simbolicamente il materiale e concreto delle molte
determinazioni) – è un ponte che non ha smesso di
funzionare per organizzare teorie, pratiche, estetiche.
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Carlo Iacomucci, Traccepiastre, 2014
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Oggi la metafora più confacente è quella della rete, la
ragnatela delle relazioni che si moltiplicano e complessificano a
vari livelli processuali e divenienti. È una metafora più
sintonica per il fatto che il mondo odierno (quello dell’essenziale
e ineliminabile interdipendenza degli eventi) ha consapevolezza piena
che i determinismi meccanicistici non reggono più di fronte a
una realtà caosmica, umana e artificiale che difende il suo
destino d’essere non uno e immobile ma un molteplice mescolato
e diveniente tra continuità e fratture (il suo essere è
il divenire e le forme storiche che si è in grado di
conferirgli!). Perché si ha consapevolezza di pensiero e di
azione che la costruzione e il con-essere-divenire delle cose, degli
uomini e del loro arte-facere è sempre più
stretto e ravvicinato intreccio ibrido di conoscenze, scienza,
tecnica, volontà di potenza poietica e inventiva. Così
che il lontano e il vicino dell’odierna contemporaneità,
per essere detto nella relazione di mutua interdipendenza dinamica
che li tiene, si è coniato il neologismo “glocal”;
e non è un azzardo immotivato poter pensare che accanto alla
metafora della rete, attingendo nel mondo della fisica
quanto-relativista e in quello degli “attrattori”, si
debba affiancare anche quella dell’azione reticolare a lunga
distanza dell’“effetto farfalla” (il battito d’ali
di una farfalla qui provoca – imprevedibilmente –
turbolenze altrove e catastrofiche, biforcanti). Nei sistemi dinamici
di alta complessità, infatti, e soggetti a più e
diversi “attrattori”, l’intreccio delle relazioni
può dare vita alla realtà dei fenomeni delle armonie
caotiche, o agli effetti farfalla del tipo dell’attrattore
di Lorenz (E. Lorenz aveva individuato delle traiettorie a
spirale che, altamente instabili, raggiunto un certo punto critico
d’instabilità, nel tempo cambiavano direzione –
biforcavano – e si aggrovigliavano senza intersecarsi mai. Il
risultato di questo processo si concretizzava nella forma delle ali
di una farfalla. Le traiettorie, terminando in posizioni radicalmente
diverse, finivano cioè, secondo le determinazioni del modello
in opera, con il raffigurare simultaneamente due ordini
diversi e coesistenti. Ciò che nell’aggrovigliamento
delle traiettorie appariva come un disordine era soltanto un ordine
diverso, altro).
Chiudendo questa breve escursione, ma non fuori luogo (crediamo),
sulla funzione logica e immaginativa della metafora e del suo
passaggio a quella della rete, può risultare comprensibile
perché la sua «capacità reticolare»
interessi e attraversa pure il mondo dell’arte, delle scritture
letterarie e poetiche nel mondo della contemporaneità
dell’artista e del poeta come soggetto plurale aperto e
cooperativo; la mano cioè che non interagisce più solo
in proprio e con il proprio self, o con il gruppo di
appartenenza chiuso, ma anche con altre soggettività
eterologhe (oggettivanti e desoggettivanti). Anche il pubblico
(spettatore, lettore, ascoltatore) è divenuto un soggetto
interattivo. Si è divenuti spett-attori: spettatori e attori
insieme. E poi, come ha notato B. Spinoza ne la sua “Etica”,
non sempre le passioni (come il piacere e la gioia, per esempio) sono
un esser-ci in passività.
G. Deleuze e F. Guattari, muovendosi all’interno-esterno di una
realtà rete-rizomatica, scrivono che nello specifico dell’arte
occorre distinguere la sfera soggettivo-personale delle percezioni e
delle affezioni «da quella desoggettivata e impersonale, che si
raggruma in percetti e affetti» (Cfr. Mario Perniola,
L’estetica contemporanea, 2011). In questo mondo in
comune (di tutti e di nessuno in particolare) c’è di
mezzo un’eccedenza d’essere e di con-esser-ci che
attraversa lo scambio comunicativo tale che lo scambio e l’arte,
dentro o fuori la metafora della rete, non può essere
rigidamente bloccato e ridotto alla comunicazione
informativo-informatica comandata e controllata, censurando o
impedendo al collettivo i prelievi culturali come beni comuni.
Per quel che qui si può testimoniare (chi scrive per
rispondere alle domande dell’intervista), riferendosi
all’esperimento della scrittura poetica collettiva open
source del soggetto collettivo anonimo Noi Rebeldía
(il sine nomine, per altri i Wu Ming = i senza nome), la
produzione letterario-poetica collettiva incontra le resistenze (di
cui si è già detto qualcosa in corso) anche perché
i vecchi schemi di pensiero e azione, che sono anche comportamenti
consolidati e riconosciuti come passaporto comunicativo
standardizzato, hanno difficoltà a cedere il posto o a
mescolarsi con le nuove procedure e le possibilità di
sviluppo, così come è non ancora un filtrato di massa
il fatto che il reale e il virtuale non sono più un puro gioco
sofisticato di intrattenimento o di altra allucinazione percettiva,
bensì un fattuale e concreto modo simbiotico in itinere.
Una nuova identità ibrido-meticcia, singolarità sociale
plurale e molteplice come potrebbe essere un ornitorinco di nuova
generazione. Nessuno dimentica quanto tempo è passato per
potere riuscire a credere e con-vincersi che l’esistenza
dell’ornitorinco, sintesi sim-biotica di classificazioni
(finora escludentesi) come oviparo e mammifero, volatile e acquatico,
non fosse più un impossibile. Ma fino agli anni Sessanta, per
le classificazioni della cultura e della civiltà logo-centrica
dell’Occidente, era così. Ma l’ornitorico esisteva
già e viveva presso i luoghi dell’Australia. Ora
l’identità dei cyborg della civiltà cyberspaziale
contemporanea, o quelle più in generale ibride di nuova
generazione e migranti, come l’identità paradossale
degli ornitorinco di ieri, sono in itinere e hanno bisogno di
tempo per essere accettate e praticate. Ma i cyborg, come corpi misti
di tecnica e di umano-animale, sempre più presenti nel nostro
contesto di mondo elettronificato, o altri tipi di identità
emergenti hanno bisogno di tempi di accoglienza e di assimilazione
culturali e politici che non sono né immediati né
brevi. Quindi, come dice il detto, dare tempo al tempo. Se le vecchie
generazioni di artisti, scrittori e poeti, rispetto alle punte
profetiche, o di avanguardia che si voglia dire, hanno maggiore
resistenze, minori saranno le resistenze dei soggetti non
assoggettati (specie al mercato) di domani. E poi non c’è
passo, nuoto o volo senza resistenza e conflitto. La rete è un
acceleratore e un propulsore di ibridazioni quantitative e
qualitative più di qualsiasi altro medium messo a punto
dagli uomini della scienza e della tecnica. La rete, mondo in comune,
genera mutue relazioni storico-dinamiche in progress tali che
la sim-biosi tra ideatori, linguaggi e fruitori sarà sempre
una realtà dis-piegata. Da qualche parte B. Brecht ha
detto e scritto che il reale e la realtà hanno più
forme e modelli di quanti ne possa immaginare e suggerirne l’arte
e la scienza degli uomini stessi.
Se il processo di reificazione (finanche) del bios
pare definitivamente compiuto – e già Leopardi, nel XIX
secolo, criticamente intercettava, ai suoi prodromi, la tendenza in
divenire di un mondo “statistico” – e, dunque, i
flussi rappresentativi sono irrimediabilmente (e immediatamente)
flussi produttivi risulta effettivamente possibile praticare uno
squarcio tattico che, nel collettivo, garantisca anche produzione di
soggettività “altra”? Se la letteratura
contribuisce alla costruzione di “immaginario”
sembrerebbe che l’invito alla cooperazione dei vostri progetti
segni nelle sue premesse una possibilità resistenziale che fa
capolino “nell’umana realtà”, come avrebbe
a dire Negri ne Sul lavoro collettivo (in Arte
e Multitudo).
R. Crediamo sia impensabile e improponibile porre il problema della
reificazione come completamente e definitivamente solvibile e
risolvibile, finché storia e tempo, tra continuità e
fratture, hanno corso. Altresì non è possibile,
crediamo, né ipotizzare né certificare, dove è
sempre visibile un’eccedenza d’essere e divenire (arte,
poesia e ricerche a vario ventaglio testimoniano!), che appaia
«definitivamente compiuto» il processo della
«reificazione del bios». I processi hanno un’intrinseca
temporalizzazione che ne impedisce l’attualizzazione
definitiva.
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Vettor Pisani, installazione ambient
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Non esiste formalizzazione e sua traduzione in tecnica applicativa
che possa raggiungere lo scopo. La tendenza statistica del mondo
moderno borghese capitalistico e liberale, di cui alla giustificata
preoccupazione del nostro Leopardi, da un altro punto di vista,
quello dell’eccedenza di una totalità-mondo
pre-statistica, può solo dire (e non farci dimenticare) che
c’è un reale e una realtà naturale e socio-umana
sì artificiale, ma anche fuori e mai riducibile agli schemi
dei modelli dei linguaggi astratti e formali, costruibili possibili
sia per rappresentare o inventare. Basterebbe, solo per rimanere
fermi alle più recenti riduzioni delle manipolazioni del DNA
della materia, dell’energia, della chimica, delle fornaci
nucleari, della biologia molecolare o delle neuroscienze, per
convincersi che le mappature del cervello e l’individuazione
delle zone cerebrali preposte ai differenti compiti del vivere, agire
insieme e con-essere-divenire forme e variazioni di forme mai
radiografano e scannerizzano un modo di com-prendere, di desiderare,
di amare, di fantasticare, di immaginare, di sognare, ecc.
E ciò, per stare al linguaggio della cultura greca di cui
ancora siamo eredi e operai, perché la vita del bios
non coincide con quella della semplice nuda vita (come direbbe M.
Foucault) animale, zoé. Il bios è quello
degli uomini come zoon politikon, logon echon e teoretikos.
Un essere dotato di logos (logica e linguaggio) capace sia di
poesis (arte/fare/fabbricare) che di praxis (agire in
presenza d’altri e con la parola, lexis) servendosi
dell’arte e della parola con libertà creativa e
interattiva con/dentro la polis, il comune e la comunità
degli uomini. Il comune relazionale. L’essere in comune e
plurale degli-uni-con-gli-altri che, per struttura relazionale e
mescolata interattività, ha/processa relazioni e reazioni
sempre instabili, imprevedibili e sempre irriducibili, nonostante le
varie tendenze a cosificare o reificare i rapporti tra gli uomini
come rapporti tra cose e viceversa. La tendenza a reificare non è
mai compiuta neanche nell’oggi dell’IA (l’Intelligenza
Artificiale del software dei computer). Il mondo cibernetico e
della società postfordista teleinformatizzata ed elettronica,
che mima e materializza in flussi algoritmici automatizzati il sapere
sociale del general intellect (topoi comuni, o
archetipi, o dogmata come li chiamava Gianbattista
Vico), non può essere immediatamente produttiva se non quando
l’ideazione è diventata marchio, brevetto di fabbrica e
sottoposto al copyright.
Come abbiamo visto con Guido Guglielmi (La letteratura come
sistema e come funzione), i processi creativi archetipici delle
singolarità autovalorizzanti sfuggono alla cattura della
valorizzazione del capitale, oggi digitale. E ciò anche se ha
raggiunto la capacità di trattare il mondo della praxis
(della lexis/parola, del cognitivo, dell’immateriale,
dei bisogni, dei desideri, dell’informazione, della
comunicazione, ecc.) – come forza produttiva dell’industria
dell’immateriale del nuovo millennio in corso. Il plusvalore
della poesia (individuale o collettiva che sia), la dimensione della
sua polisemia aseica (autoreferenzialità semio-simbolica
specifica), quella testuale della sua polisignificanza in
versi e del tempo esponenziale che li anima come simultaneità
di istanti eterologici – impedisce e frattura l’eventuale
flusso della produzione standardizzata. Significanza
determinata-indeterminata e tempo esponenziale dell’arte-poesia,
anche se la combinatoria algoritmica dei flussi informatici
dell’odierna nanotecnologia è governata da velocità
sempre più elevate e prossime a quelle della luce, non sono
ritmica reificabile neanche in questa fase storica in cui il tempo
della vita (bios), grazie alla rivoluzione industriale
computerizzata (per dirla con la preveggenza del “frammento
delle macchine” dei Grundrisse di K. Marx e con Toni
Negri della “moltitudine” come singolarità
plurali), è stato interamente sussunto nel tempo del capitale.
Se fra le altre cose c’è un punto su cui contare per non
perdere la soggettività e la soggettivazione rinnovate, e
nella direzione sia dell’immaginario che del lavoro
artistico-poetico cooperativo collettivo-rizomatico, è appunto
quello del campo dove taglia e staglia sia la componente del tempo
esponenziale, sia la complessa bellezza informazionale della poesia,
sia quella della sua significanza (variamente sperimentata nel
mondo dell’arte de della poesia) che, in genere, quell’altra
della demistificazione e della criticità dell’arte e
della poesia stesse. La complessità cioè che,
determina-indeterminata al tempo stesso, attraversa e vitalizza la
scrittura poetico-letteraria, ovvero i prodotti dell’arte e
l’attività dell’artista e del poeta plurale e
collettivo, facendone possibilità reale di resistenza e
contro-tendenza ribelle.
Il richiamo esplicito che questa quinta domanda pone nominando il
testo di Negri Sul lavoro collettivo (Arte e Moltitudine,
2004) – che poi è un insieme di lettere sulla funzione
dell’arte scritte a diversi intellettuali (Sul lavoro
collettivo è indirizzata a Manfredo Massironi) – è
un precipitato sintetico di tutto questo universo in ebollizione e in
eccedenza eversiva. L’arte, vi scrive Negri, tra decostruzione
non mitradizzante il mercato, recupero dei resti e
riconfigurazioni ricostruttive, caro Manfredo, è uno «dei
prodotti del lavoro collettivo». Ma la decostruzione non basta.
Distrutto il reale, bisogna ritessere. Il lavoro continua e con
l’immaginazione che libera, insieme alle propulsioni delle
spinte del conatus (sforzo o tendenza di ogni essere a
conservare e aumentare il proprio stato di essere e piacere; se
riferito alla sola mente si chiama volontà), dell’appetitus
(sforzo riferito insieme al corpo e alla mente) e del
desiderio/cupiditas (il desiderio dell’appetito unito
alla sua consapevolezza) spinoziani, si approssimano soggettività,
azioni e sintesi co-operative nuove. Perché l’arte, in
questo nostro tempo così mercificato e dell’insorgenza
della moltitudine, non finisca di essere produzione
collettiva. La produzione è sempre collettiva e azione di
conflitto e fuga, così come la potenza immaginativa della sua
astrazione si fa nuovo soggetto.
E qui, per dar forza alla proposizione, ci piace ricordare, seppure
brevemente, il saggio sul tema dello studioso Ubaldo Fadini (Arte,
cyberspazio. Alcune osservazioni, in «Iride», XVIII,
n. 46, Dicembre 2006. Un lavoro, questo, richiamato anche nel nostro
saggio L’avanguardia del collettivo anonimo “Noi
Rebeldía” – edito in «Fermenti»,
XLII, n. 242/2014).
Il mondo della moltitudine singolare, in quanto soggettività
creativa autonoma e indipendente dell’essere potenziale, comune
e proprio a ciascuno e a tutti (che è diventato il capitale
fisso della produzione e riproduzione capitalistica – direbbe
Antonio Negri), allora non è solo una forza viva di resistenza
e conflitto antagonista che si innesta sul piano dell’opposizione
economico-sociale e politica. La sussunzione capitalistica è
totalizzante e va combattuta anche su altri versanti. Il rifiuto e la
ribellione dell’intelligenza collettiva, che muove la
rete informatica e telematica e qui l’economia e la
mercificazione della comunicazione, deve coinvolgere anche la
dimensione dell’arte, in genere. Antonio Negri, scrive Ubaldo
Fadini, sviluppò un ragionamento sul carattere
intimamente contestativo dell’arte; e ciò sulla base
della presa d’atto della realizzazione piena della marxiana
sussunzione reale, quale domino di tutte le categorie della
vita funzionali alla ri-produzione capitalistica della società.
Così (Ubaldo Fadini): l’arte «“non può
accettare il comando capitalistico [...] quando il dominio del
capitale non era ancora sviluppato sull’intera società,
vi potevano essere spazi nei quali l’autovalorizzazione poetica
si ritagliava una nicchia di libertà. [...]. Ma quando la
sussunzione reale e totale del capitale sulla società è
cosa compiuta, allora l’autovalorizzazione artistica si
ribella. La sua condizione metafisica è quella della
ribellione e del rifiuto”. [...]. L’arte, soprattutto nel
momento in cui il lavoro si fa sempre più “immateriale”,
è forse il valore costruito per eccellenza, [...] lavoro
artistico come lavoro liberato [...] lavoro non
assoggettato/asservito/alienato/sfruttato, espressione dunque di
desiderio, di libertà, che innerva il lavoro accumulato,
astratto, nel senso di stimolarlo ad eccedere, “a sviluppare
nuovi significati, sovrappiù dell’essere”. [...].
L’arte è [...] meccanismo produttivo democratico [...]
che produce linguaggio, parole, colori, suoni che si stringono in
comunità, in nuove comunità. Per sfuggire all’illusione
estetica [...] bisogna costruire liberazione nella sua figura
collettiva. [...] Nell’artista il collettivo libera
un’eccedenza d’essere e la singolarizza [...] è un
richiamo [...] al tema deleuziano dell’“aver fiducia nel
mondo”, cioè all’impegno necessario implicito nel
rispondere criticamente allo “smarrimento” del mondo
stesso, all’esserne stati “spossessati”».
Così Ubaldo Fadini (Arte, cyberspazio. Alcune osservazioni,
in «Iride», XVIII, n. 46, dicembre 2006).
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Luisa Rabbia, Senza titolo (part.), 2014
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Ma, in stralcio, e per dare risposta alla quinta domanda, ci piace
riportare qualche passo (nostro) da Il plusvalore della
poesia, il significante non mercificabile né digitalizzabile
vs i clominimedia (Cfr. Antonino Contiliano, in
www.retididedalus.it,
www.retroguardia2.wordpress.com,
www.lapoesiaelospirito.wordpress.com,
2013). E ciò per sostenere ancora che il discorso della
significanza e del tempo esponenziale dell’arte-poesia,
egualmente presente in una scrittura collettiva e anonima, sebbene in
un tempo in cui l’intelligenza collettiva e il general
intellect sono diventati il motore produttivo e riproduttivo del
neocapitalismo della creatività e della comunicazione
digitalizzate, non è affatto scomparso sotto i colpi del
reificabile, e che le tensioni di controtendenza non sono affatto
depotenziate. Soprattutto perché è la stessa dimensione
contraddittoria del tempo capitalizzato che spinge alla ribellione lì
dove il “tempo superfluo” è in funzione del “tempo
minimo” necessario alla valorizzazione capitalistica anziché
al potenziamento delle facoltà generali e creative di tutti; e
ciò nonostante il lavoro postfordista, tendenzialmente, avesse
liberato dal lavoro salariato senza tuttavia, però, desistere
dal mercificare la creazione e la comunicazione.
L’area semantica del linguaggio poetico non è infatti
quella degli algoritmi monologici dell’immateriale del
capitalismo elettronico, e il segno non è solo immagine di se
stesso, e la sua significatività non è, biunivocamente,
subordinata alla piazza del mercato trascendentale
(spoliticizzazione) che naturalizza il profitto di classe; ma è
quella della plurisignificanza che tiene conto delle coalescenze di
confine, degli sfumati, delle distanze e delle fughe diversamente
inafferrabili dal/nel linguaggio di primo o secondo ordine.
Nell’agorà dell’occupazione capitalistica
dell’immaginario sociale, le soggettivazioni della poesia delle
singolarità sociali e del “noi” plurale, che nelle
loro costruzioni/interpretazioni fanno circolare pure pensieri e
saperi non concettualizzabili, non perdono la libertà
conflittuale degli attriti e delle resistenze. Il “comune”
della dis-misura plurilogica e del senso degli “affectus”,
che la logica del valore di scambio, nonostante la sua messa in
crisi, cerca di aggirare facendosi biopotere, qui reagisce e agisce
in contro-tendenza, in quanto il linguaggio della poesia è una
forza-lavoro viva che il produttore (non prosumer) singolo
attualizza nella cooperazione inter-extratestualità
temporalizzata e nel comune del poetic general intellect
politico e sociale che si relaziona e nel contesto genera sviluppi
rizomatici, orizzontali. Il poetic general intellect che, al
linguaggio, come anche ai suoi strumenti retorici quali, per esempio,
la similitudine, la metafora e l’allegoria, non ha sottratto il
loro essere natura di segno artificiale quanto materiale; e non si
sovrappone alla realtà fino a vaporizzarla così come,
invece, strumentalizza il capitalismo dell’immateriale e delle
sue equivalenze monetarie/finanziarie previa traduzione-riduzione ai
suoi algoritmi informatizzati e bit di luce.
Il tempo della poesia è invece il controfattuale conflittuale,
e l’esponenzialità del suo divenire non trova alcuna
chiusura algoritmica, sì che il suo futuro è un
contro-futuro o un conseguente che dall’antecedente non
scorpora l’impegno e la sfida politica come giudizio e azione
conflittuale alternativi. Del resto la codificazione estetico-critica
della poesia, se la poesia, senza tagliare i legami con le relazioni
etico-politiche e sociali e il linguaggio letterale materiale che la
informa, simula il mondo e la vita non può rapportarvisi priva
di sospetti e utopia progettante. La codificazione non può
rimanere un modello solo mentale consensuale e consolatorio, senza
opposizione e proposizione. Una sfida e un conflitto. Un conflitto,
quello della poesia e del suo modus temporale, che nel suo
consumo significante non cerca e produce i profitti del valore di
scambio con il significato ridotto a fantasmagoria della merce, ma
intreccia i diversi fili coinvolti nel rapporto tra le cose, i
linguaggi e i soggetti per invertire la direzione
sequenziale-algoritmica univoca della comunicazione (cui mira invece
il capitalismo della parola e dei linguaggi) e per attivare il
polemos dell’espressione. E dove c’è
un’espressione non possono mancare i segni e l’uso
simbolico che se ne fa. Gli elementi dell’insieme poetico sono
un utensile linguistico sociale ribelle. Già di per sé
sono un insieme di inversione e destabilizzazione rispetto alla
combinazione usuale della catena lineare che guida la comunicazione
non artistica (standard). E l’inversione non tocca solo la
grammatica e la sintassi. Riguarda anche il tempo e le sue
temporalizzazioni, le con-tingenze che popolano il campo di istanti
non linearizzati o di intervalli che durano e non durano. Un
intervallo processuale di frammenti che, come le frasi-immagini o le
strofe-immagini o i versi-immagini, si richiama per mutue
contrapposizioni di equivalenze ritmiche e conflittuali su
biforcazioni che vivono dove c’è il “tra”
della soglia, il passaggio temperato che distanzia quanto lega ciò
che, mescolato, vi si processa e incrocia.
È il tempo come rete di attimi e di ritmi in movimento (non
necessariamente causalmente concatenati o lineari) che,
simultaneamente e parallelamente, lavora con la verticalità,
l’orizzontalità, la circolarità, la convergenza,
la divergenza, i vortici orari e antiorario del mondo e delle
esistenze, i passaggi, le spire del fare poetico. È il tempus
del ritmo cardiaco (circolare); quello biologico e dell’età
(irreversibile); quello psicologico (vario e incostante); quello
culturale, sociale e storico; un intreccio piuttosto complesso di
intersecazioni eterogenee. Una mescolanza di tempi che popolano,
egualmente e in maniera consona al ritmo scelto, qualunque testo. Un
altro “giardino dei sentieri che si biforcano” (Jorge
Luis Borges) o le biforcazioni narrative del viaggiatore di/in una
“notte d’inverno” (Italo Calvino). La complessità
che si ribella e sabota la volontà di semplificare la
contraddizione in una misura astratta e uguale per tutti; è
come se si volesse lisciare l’asperità semantica della
verità dell’ossimoro po(i)etico – l’acuta
follia – che la misura invece vorrebbe imprigionarne. La
comunicazione simbolica del linguaggio poetico, per la sua interna
struttura non lineare e multilivello, quanto espressione di un
general intellect poetico comune in divenire, e da
questo processo inseparabile, rimane però un conflitto e un
sabotaggio. Si pone, si può dire, come un dispendio
sovversivo. È la potenza di un vuoto “quantistico”
che si sottrae alla valorizzazione del capitale e delle sue finte
metamorfosi.
Le metamorfosi del capitale, infatti, sono solo delle
tras-formazioni. La sua forma permane. Ieri come oggi. Le vesti della
modernizzazione elettronico-telematica non hanno fatto cambiare
freccia alla logica della valorizzazione capitalistica e dello
sfruttamento del comune: l’individualismo e il profitto
(privati) rimangono. Di concerto con la pubblicità mainstream
complice e l’intelligenza manageriale, quel tipo di logica di
esproprio-appropriazione e profitto/rendita privata si fa sentire
ideologico diffuso e pubblico comportamento in esercizio. Un sguardo
pur distratto alle mostre d’arte organizzate dal mercato dei
mercanti d’arte sarebbe di per sé sufficiente a non
smentire il proposito.
Il plusvalore del dispendio poetico, però, nel suo intreccio
semantico-significante plurale e di segni mescolati/ibridati,
sconvolge i significati del senso comune omologati (specie quelli
dell’ordine dei mercati finanziari che dominano la scena). Il
linguaggio poetico rimane una forza d’uso non automatizzata; e
la pratica comportamentale che richiede è quella della
deautomatizzazione del dire e dell’agire. E poi il significante
e il significato, essendo la produzione poetica una pratica
significante in processo, non coincidono. Sono una relazione e una
ristrutturazione continua del senso che la temporalità storica
avanza.
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Emilio Vedova, Senza titolo, 1943
|
Parliamo di copyleft. Come e quando è
avvenuta la scelta di allontanarsi dal copyright? O più in
generale, qual è l’approccio a questo mondo, quali i
limiti, se ne possiede, e quali le poste in gioco, politiche e
simboliche?
R. Credo che la lotta per il copyleft – revisione della
gestione giuridica dei diritti d’autore oltre le garanzie del
vecchio diritto di proprietà esclusiva (copyright)
dell’autore sulla circolazione dei propri prodotti
artistico-letterari, o culturali in generale – si possa fare
risalire a quel clima di contestazione incandescente e rivoluzionario
che ha caratterizzato la fine del secolo scorso. Il tempo in cui cioè
i prodotti della cultura, dell’intelligenza e della creatività
sono stati visti e considerati beni comuni (“commons”) ed
essenzialmente sociali, nonostante un singolo individuo potesse anche
vantarne l’autorialità individuale. Era anche il tempo
in cui la riconversione economico-industriale del mondo
capitalistico, ferme rimanendo le leggi della produzione
capitalistica, metteva a lavoro e valore la cultura, l’arte, la
creatività singola e sociale-cooperativa orizzontale e aperta
(open source), riservandosi il dominio e il controllo della
finanziarizzazione della progettualità singolare-sociale. Per
cui rimettere mano ad una riforma giuridica del diritto d’autore,
in un mercato capitalistico, finora difensore estremo del diritto di
proprietà esclusivo, era un compito cui non ci si poteva
sottrarre o ritardare più di tanto. L’autore (la
singolarità) in fondo non perde il diritto e la paternità
autoriale, dà il permesso (left) entro la
salvaguardia di alcuni limiti che poi vengono indicati dalle licenze
“creative commons”, o dal GPL (General Public License).
Tuttavia non è irrilevante, in questa sede, sebbene per cenno,
dire che il termine left sta ad indicare anche una svolta
politica di “sinistra” e di erosione del diritto di
proprietà soggettivo vecchia maniera, ovvero un diritto di
proprietà che si coniuga anche con il possesso diretto ed
esclusivo di beni, mentre il modo di produzione teleinformatico e
della rete, mediante l’interattività e la clonazione,
erode l’aspetto del possesso unilaterale delle idee e dei
prodotti artistici o di consumo che siano, e che nascono in rete
collaborativamente e/o co-operativamente. In fondo è del tutto
evidente che è il consumo stesso, come è avvenuto per
lo stesso sapere sociale (knowledge, general intellect),
ad essere stato impiegato come forza produttiva nel mondo
dell’industria dell’immateriale.
In fondo, ancora, il mondo capitalistico non esita affatto a cambiare
i vecchi assetti, se lo scopo è quello della conservazione e
riproduzione (sotto altre forme) del proprio modello di produzione e
riproduzione. E ciò nonostante, poi, come hanno giustamente
fatto notare Alberto De Nicola e Gigi Roggero, «la proprietà
intellettuale rischia di diventare un blocco per l’innovazione
e la produzione dei saperi, risorsa centrale del capitalismo
contemporaneo. Se vuole sopravvivere, allora, è necessaria una
“produzione orizzontale basata sui beni comuni”, mettendo
a valore proprio quelle caratteristiche esaltate nei movimenti
mediattivisti: condivisione, centralità delle strategie non
proprietarie, eccedenza della cooperazione rispetto al mercato»
(Cfr. a cura di Marco Baravalle, L’arte della sovversione,
2009). I limiti di questo approccio sono di diversa natura, e non
ultimo è certamente il conflitto tra conservazione, reazione,
innovazioni e rivoluzione. La lotta per il controllo non è
solo sul piano del potere politico. La partita si gioca anche su
quello simbolico della formazione delle identità individuali e
sociali tramite le modifiche dell’immaginario e il
disciplinamento dei comportamenti; non è un caso che le
istituzioni pubbliche e private codificano, decodificano e
controllano l’insieme delle relazioni che innervano il mondo
della rete e dell’arte in rete.
Il copyleft è anche e soprattutto, allora, una
battaglia di sinistra che si gioca sul piano simbolico e
sull’immaginario sociale che gravita attorno ai beni comuni,
dalla cui concretizzazione (occorre non dimenticare) non può
più essere emendata la componente dell’azione
cooperativa delle identità artistiche e poetiche ibride
condivisa e al tempo critiche e sovversive, mentre è lo stesso
sviluppo del mondo web in comune che ne è stato
concausa e stimolazione attiva. Nel mondo della rete, infatti, si
genera un “ambiente” vitale tale in cui «situazioni
e identità si generano, interagiscono, si modificano; i
prolungamenti tecnologici della nostra natura assumono aspetti di
presenza e di performance remote […] una creazione condivisa
[…] fatta di una specie nuova di “materia” […]
di cui anche l’identità dell’autore in rete si
contamina e consta, in cui si sfrangia e confonde» (Cfr.
Caterina Davinio, Tecno-poesia e realtà virtuali,
2002). Occorre altresì non dimenticare neppure l’azione
vigile che il potere ora esercita come concentrazione del dominio
politico e asservimento ideologico e culturale in movimento.
|
Virginia Ryan, Topographies of the Dark, 2009
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Un potere che, non meno di quello economico e dei conflitti di
classe, è finalizzato soprattutto a orientare, formare,
disciplinare e formattare i comportamenti, i consumi individuali e
sociali. L’ordine costituito e costituente non si priva di
nessun stratagemma. Non bisogna infatti sottovalutare come
giornalmente il sistema-mondo, servendosi degli “esperti”,
investe in campagne di pubblicità e propaganda, che, intrise
di richiami e suasioni estetico-culturali, transitano simbolicamente
i loro controlli facendo incorporare soggettivamente, alle persone,
certe differenze gerarchiche di classe come organizzazioni di squadre
lavorative oggettive nell’economia della creatività
artistica piegata al capitalismo. Un’economia simbolica della
differenziazione – direbbe Pierre Bourdieu –
che permette e consente «di riconoscere tutte quelle differenze
attribuendo ad esse un valore […]. Il capitale simbolico è
un capitale a base cognitiva, fondato sulla conoscenza e sul
riconoscimento» però del modello capitalistico che si
ristruttura senza nulla perdere della sua essenza antidemocratica
protetta (Pierre Bourdieu, Ragioni pratiche, 1994). Ma anche
su questo fronte, fortunatamente, c’è un’azione di
antagonismo simbolico collettivo. Le pubbliche manifestazioni
dell’odierno dissenso politico e sociale – si può
dire –, infatti, riciclano sempre più l’agire
degli artisti di strada, dell’ironia e della satira della
parola e dell’arte.
[1]
Questa intervista si trova in appendice a Scritture collettive.
Reti, anonimia, autoralità diffusa, tesi di laurea (di
Silvia Ciancimino) non pubblicata, relatore Prof.ssa Laura
Restuccia, Università degli Studi di Palermo, a.a. 2013-2014.
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