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di Desirée Massaroni
Un amore con due braccia è un magma erotico scandito come una sorta di diario
poetico in cui il punto di vista risulta fondamentale laddove l'autrice, a
differenza della comune poesia femminile sull'argomento, invece di proiettare
all’esterno il suo interlocutore (l’uomo per l'appunto) lo immette nelle sue
intimità con implacabili effetti auto-proiettivi. Donatella Bisutti pur
inserendosi in un andamento che definiremmo lirico non si acquieta mai nella
sua scrittura arrovellata da un inesausto e lucidissimo flusso dubitativo sulla
sua amabilità. “Come posso amare me stessa in te? / Certo hai preso un
abbaglio / si tratta di uno scambio di persona / Certo hai preso un abbaglio /
si tratta di uno scambio di persona / certo stiamo parlando di due persone
diverse / dentro e fuori capovolto / un abbaglio / un’invenzione tua / che hai
scambiato per me”. E ancora: “Non posso credere / che mi ami / davvero
non posso / che ami proprio me / (…) / Ma se ti vedo solo un po’ distratto / se
mi ami un po’ meno / (…) / mi stupisco, mi offendo /come se tu mi avessi
sottratto / ciò che mi è dovuto / la prendo male, ti chiedo / col pianto nella
voce: / amore mio, ma come, tu / che mi amavi tanto, e / adesso non più?”.
Così l’autrice senza scadere nel
puro autocompiacimento, volge all’interrogativo salendo continuamente di tono,
torturando il pensiero medesimo in versi minimalisti quanto spiazzanti,
lanciati all’esterno, quasi a doversene liberare. Non sono dunque solo poesie
d’amore o di eros quelle della Bisutti, ma una poetica erotica piuttosto rara
se non che il costante, sofferto, ironico tendere verso l’Altro è una messa in
discussione, sovente in chiave autoironica, del suo stesso Sé. “Conosco questo gioco / meccanico ottuso /
che illude il cuore / eppure / non posso farne a meno / più ti amo / più devo
vederti di meno”. Nella vocazione a una scrittura semplice il procedere per
ricordi arbitrari prende forma in versi forniti di uno statuto relazionale dove
l’eros procede per autentica estasi, funghisce su sé, e poi fluisce in passione
salutare. “Non è tanto fare l’amore, sai, / ma stare vicini, toccarsi,
fiutarsi, percepire / il fiato, l’odore, il calore, come due animali / a una
stessa greppia, legati / a uno stesso palo in una stessa stalla, / ma dormire
ravvolti l’uno nell’altro, conoscersi nella pelle / palmo a palmo ritrovando i
nei, le macchie in rilievo / i peli, le pieghe e le infossature, la frescura e
il bollente, / il sudore, il peso di una gamba o di un braccio, / il fiato,
l’umidore, il secco il ruvido e il morbido, il peloso e il glabro. / Non è
tanto far l’amore, sai, o forse è questo?”.
Più che un pianto per una passione amorosa conclusasi Un
amore con due braccia parrebbe piuttosto un erotico sguardo sull’Altro la
cui riconoscibilità sembra tuttavia inafferrabile; l’estremo contatto col corpo
dell’amato non sazia mai, a tal punto che l’Io, pur sempre mantenuto, si
tramuta in tu, per consentire al lettore di ‘vedere’ il corpo dell’uomo
narrato, e poi infine in un noi totalizzante.
“(...) Perché dovrei essere gelosa? / Sono solo i nostri
corpi / che devono disfarsi / di tutte / quelle cellule morte / farsi / nuova
pelle”.
Ecco dunque, al di là della fine di un amore, la
realizzazione dell’Eros come comunione con l’altro. Per metà Io e per l’altra
Tu Donatella Bisutti sposa un’identità doppia stremata, euforica come
confliggente in quelle piccole e grandi sofferenze d’amore. L’autrice non
rinuncia a priori all’Io, come vorrebbe un certo diktat poetico vigente (dove
il desiderio dell’Io viene meno), ma lo mantiene in vita, se non che è solo
abitando il suo Io che lei può abitare nell’altro Io, nel suo amore; un amore per
l’appunto che è bataillamente erotico
proprio nel vivere in comune con l’Altro. Ed è in questo che la Bisutti
realizza, forse in maniera inconsapevole, una vera e propria rivolta poetico-politica,
dunque erotica. Difatti è nell’amore come tentativo di essere in relazione con
l’altro che gli amanti si fanno vessilliferi del sovvertimento della propria
maschera sociale, avvertiti dunque dai più come inopportuni, ridicoli,
pericolosi. La tua pelle era il mio confine / La mia pelle il tuo / ma lo
passavamo di notte clandestini / attraverso i reticolati / evitando gli spari
dei cecchini”.
E quando l’Eros si immerge a due
braccia nella peripezia e nella delusione della passione l’autrice si domanda
dove abbia sbagliato. Forse nell’essersi inoltrata troppo con la lampada di
Psiche? Nell’aver incespicato nel desiderio iperdipendente dell’Altro, o
all’opposto, di aver optato per il chiuso di un’individualità narcisistica?
Ecco che nell’epilogo la poetessa, pur riprendendo le briglie della propria
persona, non trova pace, non trova ragione, né sollievo
dall’autocolpevolizzazione, per la fine dell’amore che si traduce dunque in un j’accuse ingannevole.
E tuttavia in questa mirabile
quanto riuscita trascendenza da sé, seppur nel fallimento, l’autrice è pervenuta
a quella preziosa acquisizione dell’essere che è e resta per gli amanti la sola
ragione d’esistere. Così che nel domandarsi dove abbia sbagliato potremmo
dedurre, se di sbaglio si tratta, che è nell’aver vissuto il paradosso
dell’annullamento e, al contempo, dell’inveramento dell’Io. “Mentre ti
dormivo accanto ti sognavo / la testa posata sul cuscino / come due buoni
animali / nel sogno mettevi le ali / in groppa a te salivo sulla luna / neanche nel sonno ti lasciavo / in mezzo
alle costellazioni / insieme a te lo abitavo”.
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