di Simona Cigliana
Pochi
mesi prima dell’uscita nelle sale di American
sniper, l’ultima e assai discussa fatica di Clint Eastwood, veniva
presentato a Roma, alla Casa delle Letterature, da Furio Colombo e Ugo
Fracassa, un libro che la stampa francese non ha esitato a definire “insostenibile”
(“Livres Hebdo”), “allucinato” (“Le Monde”), “terribile” (Ph. Sollers) e che,
con il film di Eastwood, ha in comune il
tema e, in parte, anche il titolo. Si tratta di Sniper, appunto, intenso e agghiacciante romanzo di Pavel Hak (trad.it.
di Silvia Contarini, Transeuropa Edizioni, collana Narratori delle riserva,
Massa 2014, pp. 100, € 9,90), romanziere ceco esiliato a Parigi per motivi
politici fin dal 1986, che, dopo aver pubblicato in Francia un testo teatrale (Lutte à mort, Tristram
2004) e altri quattro romanzi (Safari, Tristram
2001; Trans, Seuil 2006; Warax, Seuil 2009; Vomito negro,
Verdier 2011), ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi, come il Prix
Wepler (2006), la borsa Cnl (2010), il Prix Littéraire des Jeunes Européens
(2013). Tradotto
in inglese, tedesco, finlandese, ceco, questo autore comincia ora ad essere
noto anche in Italia (Transeuropa ha recentemente pubblicato la versione
italiana di Trans).
È
un uomo straordinariamente mite, Pavel Hak, e ancora conserva la figura dinoccolata
e lo sguardo disarmato di un adolescente. Ciò che scrive è però
straordinariamente robusto e quasi sempre non è adatto a stomaci delicati. I
suoi libri sondano infatti con scandalosa obiettività il confine (sottilissimo,
quasi inesistente) che separa la natura umana da quella ferina e non arretrano
davanti ad alcun abominio né si lasciano corrompere da pietà o sentimentalismo.
Con frasi secche, brusche interiezioni, impartendo alla narrazione un ritmo
serrato e a tratti convulso, egli va
descrivendo, romanzo dopo romanzo, una sua personale geografia dell’orrore
contemporaneo. Ha tuttavia una tale forza di sguardo, una tale passione per la
verità che la finzione romanzesca diviene per lui un “semplice” strumento di sovradeterminazione
del reale: tale da fare assumere al dettato la risonanza di una necessaria
denuncia, di una testimonianza à contrecoeur resa al genere umano: a
come tutti vorremmo che fosse, a dispetto di tutto ciò che di male se ne possa
pensare.
Da
questa presa di posizione scevra da ogni compromesso deriva probabilmente il
fatto che il protagonista di Pavel Hak, anonimo cecchino che, insensibile e occulto come il destino, miete una dopo l’altra le
sue vittime, poco o nulla abbia in comune con l’hollywoodiano Chris Kyle. Molte
attenuanti possono essere addotte per
mitigare il giudizio su quest’ultimo, che opera protetto da un alibi a stelle e
strisce: il dovere, la patria, i codici militari, l’obbedienza gerarchica. Tutto
questo non lo mette al riparo da incertezze e crisi di coscienza – tuttavia è
sufficiente a nascondergli che la caccia ai cervi della giovinezza e la
mattanza degli iracheni della maturità sono legate da un filo rosso che non è fatto
solo di sangue versato ma si alimenta anche di una oscura pulsione delle viscere,
come il riflesso condizionato di una sinapsi primordiale che ancora reclama segretamente
il suo tributo. Che poi il fato si
incarichi di far la parte della giustizia divina operando di contrappasso con
precisione da contabile non è cosa che possa significare alcunché – a meno che
non si voglia accantonare per assurdo la prospettiva neoilluminista che fa
aggio alla odierna civiltà occidentale. Non
sarebbe la prima volta che Eastwood si compiace di flirtare con il mistero – ma
ci sembra che in questo caso si
attenga soprattutto allo scacco attestato
da una singolare biografia, limitandosi a sottolineare l’aspetto beffardo di
una cieca casualità.
In
tutt’altro contesto si aggira l’ignoto assassino in divisa di Sniper, soldato di un innominato regime
che ha deciso di legittimarsi con il terrore e il genocidio, nella convinzione
che “uno Stato forte resta impunito quali che
siano i crimini commessi”. La
storia si sviluppa in tempo di guerra, in un paese indefinito, probabilmente
balcanico, che ricorda la Bosnia dilaniata dall’odio interetnico. C’è la
guerra, certo, ma il nemico parla la stessa lingua del popolo contro cui si
accanisce e non servono interpreti per tradurre le minacce e le ingiurie che gli
uomini in uniforme latrano all’indirizzo delle donne, dei vecchi, dei bambini
mentre li seviziano, li oltraggiano e li uccidono con insaziabile ferocia. Il regime ha deciso di piegare la
resistenza degli stolti con il terrore organizzato: bisognerà creare incertezza
e confusione, convincere le popolazioni a non abbandonare le case – per non far
cadere il Paese nella desolazione e nell’incuria – e poi, a sorpresa, saccheggiare
le abitazioni, devastare le campagne, massacrare i contadini assieme al
bestiame, avvelenare i pozzi, sterminare villaggi interi. Le donne saranno
detenute in sotterranei, sottomesse a umiliazioni e a sevizie sessuali, tali da
segnarle nel corpo e annientarle nella mente affinché non possano più raccontare
quello che hanno subito. Tutte le armi saranno lecite per piegare la ribellione
– sbarre, coltelli, pali acuminati, mazze da baseball, scariche elettriche,
celle frigorifere, olio da motore, ferri arroventati – : rimedi tutti somministrati
da militari infoiati dal delirio di onnipotenza che la stessa inermità dei
soccombenti ha scatenato in loro.
Nulla
ci risparmia la registrazione nitida, ferma, imparziale della prosa di Pavel
Hak. Sotto un cielo reso plumbeo dall’inverno, dal fumo degli incendi e
dall’odio fratricida, si dipanano storie atroci di violenza e tortura: storie
che sembrerebbero frutto di fosca iperbole romanzesca se non ci fossero ancor
oggi tanti sopravvissuti, nel mondo, che possono testimoniare di aver assistito a simili orrori.
Proprio a questo mandato sente di dover
obbedire il nostro cecchino: poiché la paura spesso non basta a far tacere gli
uomini, ci penserà lui col suo fucile a chiudere le bocche. La sua missione è al di sopra dei
qualificativi morali: egli serve lo Stato, e “lo Stato è al di là
dell’abiezione”, perché “Lo Stato deve difendersi e la Storia lo prova”. “Tutti fanno del resto appello a Dio
per benedirli nella loro guerra”: “Le promesse delle potenze straniere si
riassumono nel trittico pace-amore-Dio; le minacce dei fanatici poggiano sullo
stesso trittico, appena differente: Dio-odio-guerra.” Il potere ovunque si
arroga il diritto di sovrintendere alla sofferenza e alla morte, dissimulando
la sua violenza sotto la ragion di stato. Più diretta e più sincera è la franca
aggressività di un proiettile che ti perfora il cranio: più vera e più leale la
brutalità del cecchino, braccio armato di un assassino più autorevole.
Il
monologo del solitario amministratore di morte guida il lettore di Sniper per molte pagine, attraverso un
intreccio di narrazioni che gli fanno da contraltare e raccontano l’infamia dal
punto di vista opposto, quello dei perseguitati. C’è una donna, divenuta muta
dopo aver assistito all’eccidio del suo
compagno e allo sterminio di quasi tutto il suo villaggio, che guida uno
sparuto gruppo di superstiti fuggiaschi verso la frontiera, per campagne
crivellate dalle bombe e disseminate di cadaveri, attraverso forre ed
acquitrini, sotto la minaccia degli aerei e dei rastrellamenti; c’è una
ragazzina dodicenne, sua figlia, che scampa di stretta misura agli artigli di un libidinoso ufficiale; c’è un manipolo di
donne che, nel mezzo di una obbrobriosa e orgiastica mattanza, trova la forza
di reagire e improvvisa una fuga rocambolesca; c’è un figlio che rischia la
vita per strappare dalla terra gelata di una anonima fossa comune i corpi dei
genitori e dei fratelli e se li trascina via su uno sgangherato carretto, in
mezzo al fango, per dare loro degna sepoltura, così che al regime non sia data
la possibilità di farli del tutto scomparire. Saranno quei cadaveri smembrati a
“condurre la rivolta dei morti contro la morte, contro l’ignoranza della morte,
e contro la volontà più ignobile che ci sia: la volontà di cancellare gli
assassinii perpetrati nella cecità criminale di un’ingiustizia senza
limiti”.
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Pavel Hak
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Proprio
su quei corpi e sulla loro rivolta Pavel Hak termina il suo viaggio in fondo
alla notte. Lascia però l’ultima parola al cecchino: a quel “mostro
dell’inumanità” che, rimasto isolato senza munizioni, è finalmente preso dallo
sgomento e per la prima volta assalito dalle immagini agonizzanti delle sue
vittime. Non sarà tuttavia qualche esangue fantasma a ridurlo al pentimento:
questo sniper si ride della
colpevolezza e del giudizio, certo che “la voglia di uccidere è un desiderio
primario”, che l’umanità tutta, in fondo in fondo, si nutra di violenza e stia velocemente correndo
verso l’autodistruzione.
È
un epilogo che non piacerà ai buonisti e che lascia la bocca amara. Crediamo
però che l’autore sarebbe soddisfatto se ogni lettore includesse quest’ultima ipotesi
tra le possibili eventualità del suo orizzonte d’attesa: solo guardando francamente
alla verità effettuale possiamo sperare di trovare rimedio o soluzione allo
stato effettivo delle cose.