di Anna Santoliquido
La Lucania ha
nutrito generazioni di autori tanti dei quali si sono affermati soprattutto in
poesia. Bisognerebbe setacciare i secoli per scoprire pagine intrise di lirismo
e di passione, ma anche di sottile ironia come nel caso di Vito Riviello.
Orazio e Isabella Morra resistono ai secoli. Sinisgalli, Pierro e Scotellaro
sono considerati i pilastri del Novecento. Del secolo trascorso altri nomi
andrebbero rilanciati, tra essi Giuliana Brescia e Mimmo Cervellino.
Se l’ossatura
della creatività lucana è la poesia, è innegabile che pure la narrativa ha dato
i suoi frutti. Si pensi allo stesso Scotellaro, a Carolina Rispoli, a Pasquale
Festa Campanile, a Vincenzo Buccino e via dicendo. Sul finire del secondo
millennio Raffaele Nigro ha calamitato l’interesse della critica nazionale con
il best-seller I fuochi del Basento (1987), seguito da una miriade
di fortunati romanzi come La baronessa dell’Olivento (1990), fino
a Fernanda e gli elefanti bianchi di Hemingway (2010), Il
custode del museo delle cere (2013). Tra i prosatori degli anni che
viviamo si distinguono Mariolina Venezia, Gaetano Cappelli, Giuseppe Lupo,
Mimmo Sammartino, Claudio Elliott. Ottime pagine hanno scritto Mario Trufelli e
Franco Tilena e l’elenco potrebbe continuare.
La saggistica
e il teatro meriterebbero maggiore considerazione. Nel campo della saggistica
letteraria lavorano da tempo Franco Vitelli, Giovanni Caserta, Pasquale Totaro
Ziella e, in anni più recenti, Franca Amendola. Raffaele Nigro ha scavato negli
archivi prima ancora di assurgere a narratore di successo.
La
drammaturgia attuale mi incuriosisce. Validi autori sono Sammartino e Antonio
De Rosa. Del secondo ho assistito a Oppido Lucano (PZ), nell’aprile del 2015,
alla rappresentazione della pièce: Se le bambole potessero parlare,
prodotta da Aviapervia. Sulla scena gli attori Eva Immediato e Angelo del Pizzo
rendevano appieno la violenza contro le donne.
La regione
del falco e delle ginestre, dei boschi e dei calanchi ha alimentato
l’emigrazione e la resistenza. Chi è rimasto lotta per dare visibilità all’arte
e alla scrittura. Spesso nei piccoli centri si annidano autentici talenti. La
provincia italiana rivendica originalità di idee e maturità di pensiero. Se
solo le grandi editrici facessero ricerca!

Antonio De Rosa
(ph. Antoski)
Antonio De
Rosa, nato a Potenza nel 1962, risiede a Oppido Lucano. Laureatosi in Lettere
Moderne all’Università Federico II di Napoli, insegna italiano e latino nei
licei. Ha collaborato con la cattedra di Storia Medioevale della Facoltà di
Magistero di Bari. È direttore artistico di Aviapervia, società di produzione
multimediale operante innanzitutto nel campo teatrale, ma anche musicale e
librario. Ha tenuto laboratori di scrittura a Venosa e Oppido, occupandosi
della regia delle rappresentazioni finali. Ha ideato e organizzato premi
letterari, convegni e festival. Dal 2011 è direttore artistico del Teatro
Obadiah della città in cui vive.
Dei testi per
lo spettacolo, di cui per parecchi è stato anche regista, si menzionano Flumina,
Per la via dei canti, Tradimenti del 2003, Esercizi
di profondità, 2004, Musicante, 2005, Ritorni,
2010, Istruzioni per l’uso della donna, 2011, Rifiuti,
2011, Terra e vento, 2013, e il già citato Se le bambole
potessero parlare.
Il format Terra
e vento ha avuto una location d’eccezione, il castello
medievale di Monteserico situato su una collina a circa 15 km da Genzano di
Lucania. Il maniero, restaurato di recente, è sede di mostre ed eventi. Tra le
sue mura si aggirarono donne fatali: la feudataria spagnola Aquilina Sancia, Signora
di Genzano e, dopo la Grande Guerra, l’attrice del cinema muto Lyda Borelli
(1887-1959) che vi trascorse due settimane.
De Rosa ha
collaborato con intellettuali e artisti raffinati, tra i quali i poeti Roberto
Roversi, Mimmo Cervellino e il regista Francesco Giuffré. Ha pubblicato poesie,
testi teatrali, racconti, saggi e romanzi. Del 1995 è la breve silloge In
punta di luna. 10 poesie, ispirata a un antico gioco popolare. Altri
componimenti poetici sono apparsi nelle antologie di scrittori e poeti visivi: Parole
dello sport, 1992, e Storie di calcio e di calci, 1995.
Alcuni suoi
saggi e racconti sono stati accolti nelle riviste “Rendiconti” di Bologna,
diretta e animata da Roversi (il bimestrale di letteratura fondato nel 1961 da
un gruppo di intellettuali provenienti da “Officina” e attivo fino ai primi
anni 2000) e “Leukanikà”, il trimestrale di cultura e di varia umanità, edita
dal Circolo Spaventa Filippi di Potenza. Il racconto “Bis” è inserito
nell’antologia Nulla è per sempre. 59 ultimi respiri, a cura di
Flavia Piccinni (Giulio Perrone Editore, Roma 2006).
Nel 1999, con
L’Autore Libri di Firenze, è uscito il saggio Leonardo Sinisgalli.
Umanista italiano del XX secolo. Il romanzo Musicante
(Osanna Edizioni, Venosa 2005) si è aggiudicato la XI edizione del Premio Carlo
Levi. Alle opere in prosa appartiene il racconto Istruzioni
(Aviapervia, Oppido 2009).
Ha curato
l’antologia di racconti Microstorie di fuoco e vento. Laboratorio di
scrittura creativa (Osanna Edizioni, Venosa 2004) e, con il prof. Mauro
Perani dell’Università di Bologna, Giovanni-Obadiah da Oppido: proselito,
viaggiatore e musicista dell’età normanna, Atti del Convegno
internazionale di studi (La Giuntina, Firenze 2005).
Giacciono in
attesa di pubblicazione: la raccolta di racconti Freaks, il
saggio La Lucania, tra tempi lirici e tempi moderni, numerosi
testi teatrali, mentre è in corso di ultimazione il romanzo Occidente.

Il 13 giugno
2015 è stato presentato a Bari, per iniziativa del P.E.N. Club Italia Onlus, in
collaborazione con il Movimento Internazionale “Donne e Poesia”, il romanzo Inferni
fragili dell’autore lucano (Aviapervia, Oppido 2013), con la relazione
critica della saggista Franca Amendola e gli interventi degli scrittori Franco
Garramone, De Rosa e della sottoscritta.
Siamo di
fronte a un lavoro che pone domande e scarnifica l’animo. Il narratore agisce
su piani diversi: l’onirico e il sociale. Si serve di armi potentissime:
l’ironia, la satira, la metafora, il ribaltamento dei ruoli. Riesce persino a
far sembrare vera la fantasia. Utilizza uno specchio che non è
deformante, ma mette a fuoco i pensieri e la carne.
Il libro è
ambientato nella Lucania del 2008, con delle aperture a Napoli dove il
protagonista Vito ha studiato, pertanto attira l’attenzione sulla cultura e sui
comportamenti della gente del Sud. Le vicende si svolgono in sette giorni, con
finale a coda di rondine. Elementi che ripropongono la creazione e la scienza.
Il mistero, il vitalismo, l’elogio dell’ombra, l’attrazione per la diversità,
la babele del linguaggio, gli intrighi del labirinto sono solo alcuni dei
motivi che permeano il testo.
Nella casa-famiglia,
detta il Bronx di Potenza, dove l’azione si svolge principalmente, si
verificano accadimenti che fanno affiorare i vizi e le virtù dei soggetti
coinvolti. La storia d’amore tra Vito e Splendore ha la dolcezza del
miele, ma graffia più delle spine dei rovi.
Vito è un
aspirante scrittore. Splendore è un manichino di plastica, ma potrebbe
simboleggiare la proiezione di un desiderio. Gli altri personaggi con cui il
protagonista interagisce potrebbero rappresentare le sfaccettature della sua
psiche. Il racconto avvincente e terrificante di Vito ci appartiene. Tutto
avviene in quello che con termini brutali chiamiamo manicomio. Il convivio dei matti
è una metafora della società caotica postmoderna.
Mi sono
chiesta se il volume fosse più vicino alla letteratura fantastica o alla
favola. Ci sono visioni, svolazzi poetici e dialoghi da palcoscenico. Il cinema
e la pubblicità sono compresi. Il riferimento a Tempi moderni è
sottolineato particolarmente.
Nello
scenario della Lucania, dalle radici magno greche, l’orgoglio e la rabbia
disputano partite agguerrite. Il narratore esalta il paesaggio, le trovate, i
detti e i proverbi, ma denuncia l’immobilità, l’attesa, la rassegnazione.
Rimarca lo sfruttamento del petrolio e dell’acqua, la presenza della Fiat e
delle pale eoliche, la cattiva politica.
L’essere
alato e la biscia, i pesci, i fiori, le erbe, gli alberi, i gusci delle lumache
attestano che la bellezza “è un segreto”. Spider, l’angelo di Vito, dimora su
di un pioppo, ma sniffa, sferra ganci. Forse cerca “il suo punto giusto”. Cosimo, il personaggio del romanzo Il
barone rampante di Calvino vive anche lui su un albero.
La tecnica
del flashback e la memoria hanno peso in questa fatica. Il
passato ritorna e condiziona le scelte. I ricordi delle vertigini, delle
bravate, dell’uccisione del maiale, degli innamoramenti segnano un vissuto che
è reale e fantastico.
L’immaginazione
è la grande sfida della scrittura. I simboli e gli archetipi si intrufolano tra
le sillabe. Splendida è l’icona della Madonna Nera di Viggiano evocata nelle
pagine.
De Rosa
appare contemplativo e scettico. In certi tratti rammenta Montale e Nietzsche.
Neppure la magia lucana è assente: “E a volte sento le voci dei morti. Siamo
qui sussurrano, e siamo vivi. Abitiamo nella pagina bianca delle foglie di
questo albero. In the light. Dentro la luce”. La luce e la bellezza sono temi
del romanzo. I matti si definiscono “girasoli in cerca di calore, di una luce”.
Il biglietto
da visita dell’opera è il linguaggio: essenziale, lieve, funambolico.
L’Autore passa da un registro all’altro con la precisione dello speziale e la
competenza di un consumato attore. Il diario, le lettere, i dialoghi, le
descrizioni sono condotti con mano ferma.
La filosofia,
gli spasimi mistici, l’erotismo, l’inclinazione all’arte e alla scrittura, la
lotta tra la pienezza e il nulla sono resi con linguaggio efficace che
riproduce, di frequente, enunciati in lingue straniere o del parlato, compreso
il dialetto locale. Dei lucani De Rosa delinea il carattere, gli “strappi” e i ritorni.
Alla
leggerezza calviniana si intrecciano i rimandi ad Ariosto e Tasso (Garramone),
laddove l’attesa richiama Il deserto dei Tartari di Buzzati
(Amendola).

La lentezza
non ha sempre connotazioni negative. Lo scrittore vuole farci riscoprire il
gusto del proprio tempo pure se lo spettro della malinconia incombe alla
stregua di una minaccia. Il brivido, la ricerca dell’equilibrio tra “la luce e
il buio”, la rappresentazione della speranza, della libertà, del desiderio di
fuga sfociano, non di rado, in un lirismo soffuso. Splendore dice a Vito: “Io
ti amo perché sei come questa terra, hai una tristezza lieve che sconfina nella
grazia”. La terra dove “fioriscono il cardo, la malva, il finocchio selvatico”
ha sussulti di ribellione ai nuovi padroni. La lotta passa attraverso il
delirio delle parole. Le pecore si ribellano al petrolio, alle malattie
respiratorie e all’incremento dei tumori. Il futuro diventa un gioco
dell’immaginazione.
Le ombre e
l’inganno del reale si scontrano con la fedeltà ai sentimenti (a Miriam, la
ragazza che Vito ha incontrato a Napoli e non ha più dimenticato, e alla
regione di appartenenza che ha il cielo più azzurro del mondo).
Metafore
straordinarie del romanzo sono la biscia e il nibbio:
“Io dice la
biscia amo la polvere e i sassi. Io invece dice il nibbio amo il vento.
Io dice la biscia conosco i buchi della terra, i nascondigli in cui
marciscono i
semi, le fessure attraverso le quali vengono al mondo i fiori. Io invece
dice il
nibbio so dove comincia e finisce l’orizzonte, da dove arrivano e dove tornano
i semi. Io dice la biscia ho imparato la fine e il risveglio, tutti i
profumi della
terra. Io invece dice il nibbio ho imparato i
segreti della leggerezza, ho fatto
della vita un volo”.
L’immersione
nei succhi della terra e nell’aria è essenziale per guadagnarsi lo spazio
vitale. Anche nella Lucania che “è ancora babba”. Gli slanci danno colore
all’esistenza. I desideri e la speranza resistono alle impennate del
nichilismo.
Vito,
prostrato dalla pena per la perdita di Splendore, capisce che oltre alla “luce
o il buio, la terra o il mare” vi sono “la penombra e la riva, quella
dimensione più umana in cui ci si scambia un sorriso, ci si prende per mano, si
cammina in silenzio, fianco a fianco nella melma o sulla sabbia”. C’è un ordine naturale delle cose che
bisogna rispettare. Ed è così che riscopre la preziosità del corpo
(tabernacolo, altare, tempio), indispensabile per custodire i fantasmi e le
reliquie.
Al pari di Calvino,
De Rosa ci fa capire che da sola la parola muore e che è meglio aggregarla e
aggregarsi. Lo specchio diventa l’anello di congiunzione all’altro.
Il diluvio è
preceduto da una analisi lucida della realtà lucana e del Mezzogiorno: “Prima
il Sud diventa un mercato per i prodotti del Nord, poi la pattumiera d’Italia e
forse d’Europa”. Dopo Vito aggiunge: “Nel nostro dna c’è la terra, tutt’al più
la bottega, non la fabbrica”. Concetti che spingono alla presa di coscienza e
all’impegno, sulla scia di Levi, Scotellaro, Verga.
La pagina di
De Rosa ha la calma apparente di un lago vulcanico. I mulinelli sono domande:
“perché ci sono i poveri? (…) perché ci sono i pazzi?”. Principia – la regola,
la legge – soccombe all’inventiva. Vito ne contempla il cadavere.
Il finale è
doppio come è ambigua la realtà. Sarà il lettore a ricomporre le storie, a
destreggiarsi sotto il sole e le ombre. In una poesia Vito ha scritto:
“l’uscita di un labirinto è sempre l’ingresso di un altro labirinto ma che
forse ci sono labirinti in cui si può sperare di essere felici. Titolo: Fuga.
No, meglio Fragili Inferni”.
La prosa
fresca e scattante, i dialoghi onirici e assurdi (con echi di Beckett, Pinter,
Joyce) avvalorano la tematica dell’incertezza che aromatizza i fogli.
Inferni
fragili è un romanzo
attualissimo, in quanto il disagio è in continuo aumento nella comunità
odierna. Tra le piante più belle che vi allignano vi è la speranza alla quale
il lettore si aggrappa.
L’amore tra
Vito e Splendore travalica i confini del reale e prende corpo nel fantastico.
Antonio De Rosa ci ha fornito una prova importante, dando un ottimo contributo
alla letteratura lucana e del Sud d’Italia.
Bari, 13 giugno 2015

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