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di Francesco Aprile
Se
il lettore vorrà ingabbiare il costrutto poetico di Cristiano Caggiula in hekátē atto II (Lecce, Unconventional Press, febbraio 2015) sotto l’orbita
di una concezione spazio-temporale o ancor peggio nell’alcova disonesta e
gerarchica di un dogma, ecco, allora il lettore uscirà sconfitto e perso e
tradito nella caducità delle parole, laddove è l’orbita semantico-lessicale
della rivolta la preponderanza dell’eccesso che invade e travalica e unisce i
termini della poetica.
Rivolta.
Perché in un tempo della parola celata nell’immondizia ed essa stessa rifiuto,
malalingua di potere e coercizione, affibbiata ad un uso che si vorrebbe
veloce, ma invece appare superficiale e modesto per bagaglio di scelta e
vastità, poca, di lingua, la proposta di Caggiula è
una sfida. Una sfida alla consumazione del linguaggio ordinario.
Una
matrice poetica che accresce il piano dell’opera sotto la spinta di una
ricchezza lessicale che sfregia l’ordinarietà del contesto, sbrecciandolo,
snervandolo, accusandolo di tradimento nei confronti della lingua, qui da
intendere come bagaglio di una umanizzazione ormai dispersa che oggi, appunto,
latita e dimentica la concatenazione dell’uomo col mondo in quanto esperienza
primaria che nell’uomo allatta la travalicazione.
È
questa ricchezza semantica, concettuale, della parola che in Caggiula gioca coi piani sfalzati
di un tempo, propriamente umano, che sconfina e non conosce alito di passato o
futuro, ma si sostanzia in un continuum paradossale di irripetibilità, dunque
di presente, coerente con un tempo che sfonda il quadrante dell’orologio,
spezza le catene dell’ordine preconfezionato, consapevole che l’esperienza pregressa
dell’uomo è linfa e sostanza e bagaglio prezioso che tiene insieme le fila dei
tempi delle generazioni, per l’appunto in un ambito di continuità, circolare, uroborica, che funge da humus all’irripetibilità della
vita, in quanto parte importante di quel costrutto che rende umana l’esistenza.
Il
testo, orizzontale, rizomatico, ha l’andamento naturale del lasciare tracce,
impronte, segni, segmenti di un passaggio umano, di un pensamento che
similmente all’animale che percorre la natura, percorso da essa, lascia lungo
il suo attraversamento, così l’uomo, umanizzato il mondo, è dal mondo percorso.
Ogni parola è il seme di una o più possibilità. Vie di fuga. Travalicamenti
della proposta poetica e della lingua dell’uso comune, qui affrontata col
piglio dello sdegno, della rivolta, del non rassegnarsi ad una morte impietosa
del linguaggio, avvilito nello svalutamento.
Dunque
l’andamento rizomatico, non verticistico, riconsegna la proposta alla
dimensione umana di una primavera di Giove, dove l’epicentro di una
mediterraneità ritrovata, greco/romana e figlia del fulmine, torna nella
convinzione del parlare da pari a pari, nell’eco della rivolta come
quotidianità esistenziale, modalità del mettere e mettersi in discussione, col
pensiero e con le tracce dell’azione.
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