PRIMO PIANO
RICERCA MUSICALE CONTEMPORANEA
Forme, ‘veridicità’ e utopie
del suono


      
Pubblichiamo alcuni, assai significativi estratti dal volume “Universi sonori – Dialoghi sulla musica dei nostri tempi” (Nuove Tendenze Edizioni, 2015, a cura di Oriana Rispoli). Si snocciolano qui delle interessanti conversazioni in cui nove musicisti e compositori di varia fama cercano di mettere a fuoco le linee portanti dei loro percorsi creativi, e i molti affascinanti problemi storici e strutturali concernenti la materia del comporre. Operando fra tradizione e innovazione, e tentando di gettare un ponte tra chi suona e chi ascolta.
      



      

 

 

di Anna Laura Longo e Federica Nardacci

 

 

di A. L. Longo :

 

 Quando ascoltare vuol dire “farsi capienti”: colloquio con Federico Costanza

 

Consideriamo come presupposto il fatto che ascoltare voglia dire “farsi capienti”. È a partire difatti da una condizione di capienza (e di viva accoglienza) che si può innescare un presupposto di vicinanza con il materiale sonoro o con uno specifico “tessuto” musicale. Da questa considerazione preliminare vorrei si dipanasse la tua personale posizione inerente la dimensione dell’ascolto.

 

La dimensione, o meglio “lo stato” di ascolto è per me essenzialmente un processo di scoperta nel quale l’ascoltatore partecipa alla vita del suono, e se vuoi, egli è come un “testimone” che entra in contatto e in reazione a questa vibrazione.

Certamente questo “stato” investe chiunque (chi compone, chi suona e chi ascolta), ma è importante aprirsi a questo ascolto, essere in viva accoglienza come tu dici. Siamo senza dubbio corpi (per intero) che reagiscono, e questa esperienza del suono può metterci in contatto con i nostri limiti. Ecco, credo bisogna vivere questo contatto come un tentativo di aprire delle porte o quantomeno essere consapevoli di sentire queste porte chiuse per iniziare poi un percorso di cambiamento. Ovviamente quando mi riferisco al suono non lo intendo separato in parametri, bensì lo considero una materia che tocco e che mi tocca, che ascolto e attraverso la quale ho esperienza delle cose del mondo. E che, attraverso una pratica quotidiana (sia come compositore sia come esecutore) mi permette di avvicinarmi a qualcosa.

 

Epicentro, acme, forma compiuta. Ruotano attorno a questi termini anche i concetti di controllo e/o libertà del gesto compositivo. Vorrei sapere se secondo il tuo parere i livelli di fusione (o di mera prossimità) col suono possono venir condizionati da una precisa scelta di direzione di scrittura o, in altri termini, dall’assunzione di un particolareggiato progetto organizzativo della pagina musicale.

 

Credo di aver sempre pensato, più che a forme compiute, a come inventare o immaginare un suono (suono come materia che ha la sua necessaria durata e le sue relazioni interne) e successivamente lavorare a uno spazio, plasticamente chiaro, nel quale farlo agire. Certamente il lavoro consiste nella traduzione di questo suono in questioni pratiche e tecniche, e in scrittura nel caso di opere scritte. In codice che possa manifestare l’energia del suono immaginato. Posso dirti che il lavoro e la sperimentazione fatta di persona o a stretto contatto con i musicisti su uno strumento, per esempio, mi rivela le questioni tecniche e i processi che il suono richiede. E da qui mi concentro sulla costruzione dello spazio che dovrà accogliere il suono come anche degli ostacoli e delle gabbie al suono stesso e che hanno funzione di dare movimento e vibrazione. Quindi uno sviluppo di un processo che conduca (esecutore ed ascoltatore) a momenti di forte intensità

 

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Tra impronte di modernità e nuove responsabilità del comporre:

colloquio con Silvia Lanzalone

 

 

Mi piace pensare che esista per ciascun compositore e/o musicista la possibilità di lavorare per ottenere non soltanto un (il) proprio suono, quanto piuttosto una veridicità del suono stesso. Pensi di poter condividere tale idea e a che punto nell’organizzazione delle tue fasi di sviluppo ti trovi?

 

La mia risposta dipende da cosa decidiamo di intendere per “veridicità del suono”. Il suono generalmente non può, di per sé, esprimere una “verità” come la parola. Tranne il caso in cui sia adoperato convenzionalmente come “segno”, il suono non può trasmettere concetti e significati, ma solo senso espressivo, che diviene tanto più definito quanto più è prodotta e riconosciuta una relazione con gli altri suoni all’interno di un determinato codice culturale. Possiamo considerare un suono come “vero” nel senso di “reale” o “naturale”, ossia prodotto da elementi non adoperati o costruiti dall’uomo, o da utensili che non sono stati creati per fare musica, almeno in origine. Nel corso dei secoli gli strumenti musicali “acustici”, definiti così perché emettono suono attraverso la trasmissione di vibrazioni ottenute con mezzi meccanici, sono stati progettati e perfezionati allo scopo di produrre suoni sempre più raffinati e “artificiali”, perché prodotti attraverso procedimenti complessi, facendo anche riferimento alle tecniche esecutive che vanno sviluppate durante molti anni di studio. Eppure oggi sembrano, anche a me, del tutto “naturali”. Come possiamo considerare inoltre tutti i suoni prodotti con sistemi elettroacustici? Sono forse meno realistici una volta diffusi correttamente nell’ambiente? Sono forse meno coinvolgenti? 

Preferisco quindi, riferirmi alla parola “veridicità” considerandone i significati più vicini ai concetti di “sincerità” e di “autenticità”. Posso così dire di aver sempre voluto e cercato “il suono vero”, cioè veramente intimo e personale, non indotto da un condizionamento esterno e non avulso da me. La ricerca del mio suono, ma forse è più corretto dire della mia musica, è per me profondamente connessa con la ricerca del mezzo utile a produrlo e, parallelamente, con la ricerca di un metodo adeguato a una sempre più profonda conoscenza del mio essere. 

Considero il mezzo tecnico o tecnologico non solo come elemento utile a realizzare un prodotto, ma anche e soprattutto come risultato del percorso di ricerca che è precedente alla sua stessa progettazione. Se il “vero” verso cui voglio tendere è tale poiché aderente alla mia più intima condizione interiore, la produzione finalizzata verso un risultato già noto, non può offrirmi soddisfazione sufficiente dato che ricerco, di volta in volta, un modo per afferrare l’ignoto. Il nucleo interiore del mio essere mi è ignoto anche perché non statico, ma in continua evoluzione, non preesistente, ma in costante condizione di adattamento con l’ambiente e la società, non lineare o semplice ma organizzato secondo un sistema complesso di leggi. La scelta del mezzo, quindi, non può essere condizionata dal presupposto che il risultato sia stato da me già conosciuto in precedenza, o che sia prevedibile, se non per qualche tratto, per alcuni spunti, riferimenti parziali resi possibili da intuizioni fortuite…

Per questo, il problema della “veridicità del suono” – ammesso che una veridicità in questo senso possa essere davvero ottenuta, o che non sia meglio cercare piuttosto, sin dal principio, un’approssimazione sempre più infinitamente precisa verso una possibile veridicità –, mi riporta al problema della “veridicità del mezzo di produzione del suono”, o della “veridicità del processo creativo”, o a molti altri possibili derivati di questo concetto.

Non penso di poter conoscere anticipatamente le fasi di un mio sviluppo artistico in tal senso, proprio per le caratteristiche di trasformazione che continuamente si propongono in me e che mi spingono a ritenere che non sia onesto da parte mia imporre una pianificazione al mio percorso di produzione musicale. Mi sembra però di poter dire con una certa approssimazione, che alcune tappe di evoluzione siano state progressivamente raggiunte nei due percorsi che parallelamente porto avanti da diversi anni ormai, ossia la relativa padronanza dei mezzi tecnici che di volta in volta metto in gioco per produrre il “mio suono” e la presunta conoscenza dei metodi di osservazione del mio mondo interiore cui cerco di dare la voce attraverso la “mia musica”. Forse sono a metà del cammino.

 

Passando da un discorso di ricerca propriamente personale ad un’ipotesi ben più allargata, trovi che a seconda delle epoche possa configurarsi (e tornare di volta in volta ad esistere) una nuova UTOPIA del suono? L’eventuale formulazione di un suono utopico ritieni possa riguardare eminentemente i percorsi mentali o di altro tipo?

 

Il suono è elemento fisico e misurabile, anche tangibile. Le persone prive del senso dell’udito percepiscono più degli altri il suono attraverso il loro corpo, riescono a sentirlo proporzionalmente alle lunghezze d’onda e alle pressioni sonore coinvolte, facendosi pervadere da esso. Il suono però è anche non visibile, immateriale. Come tutti gli oggetti della percezione, possiamo ricostruire il suono nella nostra mente in modo astratto, possiamo concepirlo e progettarlo ricomponendo e modificando virtualmente le immagini acustiche che sono già presenti nella nostra memoria. Comporre implica, quasi sempre, anche un simile approccio, almeno per quanto mi riguarda. Io credo che una società evoluta e, in generale, l’uomo evoluto di qualsiasi epoca, non possa fare a meno di produrre utopie verso le quali tendere, verso cui direzionare i propri sforzi, le proprie aspirazioni, attraverso le quali stimolare la fantasia, la creatività, l’entusiasmo per il vivere. Nel 1996, quando ero ancora studente in Conservatorio, ho adoperato le parole francesi “utopie souillée” come titolo di un mio brano per clarinetto ed elettronica, perché volevo indicare una sorta di utopia “sporcata”, contaminata e quindi non più idealisticamente pura, perché volevo dare il senso di un dolore e di un vuoto dovuto alla perdita di idealità, di aspirazioni interiori. Oggi invece la parola “utopia”, se inserita nel contesto a cui ci stiamo riferendo, assume per me una connotazione opposta, quasi negativa, e preferisco quindi utilizzare un altro termine per determinarne diversamente il senso, un termine che non includa necessariamente la possibilità della sconfitta o, se preferisci, l’impossibilità della sua realizzazione. Preferisco parlare di una “nuova idea del suono”, anziché di “suono utopico” o di “suono ideale”. Preferisco anche parlare di una “nuova idea della musica” e, in senso più ampio, di una “nuova idea dell’arte”. I percorsi mentali di cui mi chiedi sono per me assolutamente implicati nel processo di generazione della “nuova idea”, ma sono anche continuamente foraggiati dalle nuove possibilità che il progresso scientifico e tecnologico riesce a farci intravedere come concretamente realizzabili, secondo un meccanismo di reciprocità, di feedback tra interno ed esterno. Ho spesso in mente le parole che Edgard Varèse dice nel 1936, durante una conferenza tenuta a Santa : «Quando strumenti nuovi mi permetteranno di scrivere la musica così come la concepisco, nella mia opera si potranno percepire chiaramente i movimenti delle masse sonore, dei piani mobili che prenderanno il posto del contrappunto lineare. Penetrazione e repulsione risulteranno evidenti, allora, nella collisione di quelle masse sonore. Le mutazioni che si verificano su certi piani sembreranno proiettarsi su altri piani, muovendosi a velocità differenti e con diversi orientamenti. Il vecchio concetto di melodia o di interazione tra melodie sarà scomparso: l’opera intera sarà una totalità melodica, e scorrerà come un fiume.» Sono parole che ogni volta mi emozionano, l’immaginario che descrivono è oggi tecnicamente realizzabile, e possiamo spingerci oltre… lo stiamo facendo…

 

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Denis Schuler


La musica tra forma e immagine sonora – Conversazione con Denis Schuler

 

 

Situandosi all’interno del tuo corpus di opere recenti, vorrei provare a stabilire un confronto diretto tra ‘Haiku11’ (2009) e ‘In-between (2010). In entrambi i casi il quartetto viene visto come blocco compatto e tuttavia impegnato in forma dialogica con la voce – nel primo caso – e con orchestra da camera – nel secondo –.

Come ti sei trovato a gestire questi rapporti? E più in generale quali vicissitudini e dinamiche prospettive possono svilupparsi intorno ad un organico (il quartetto per l’appunto), così carico di retroterra storico-musicale?

 

La maniera di pensare il quartetto è stata diversa per questi due brani, anche se certi modi di suonare o certe forme ritmiche si assomigliano. La ragione principale di questa differenza proviene dal fatto che il loro rapporto verso l’“altro” – improvvisatore o orchestra – è difficilmente paragonabile. La voce (e il contrabasso) in ‘Haiku11’ è completamente  improvvisata. Non vi è alcuna indicazione per quanto riguarda i modi di suonare (neanche quando l’improvvisatore deve suonare, parlare e cantare). Egli riceve solamente una lista di 11 haiku scritti dal poeta giapponese Ryokan. È specificato nella partitura che l’improvvisatore può, per ogni poesia, recitarla sia in giapponese, sia in francese, oppure non recitarla, utilizzandola come vettore d’idee o di sensazioni. Ho scelto di estraniarmi il più possibile dall’idea del risultato potenziale della combinazione, probabilmente per evitare di stabilire una forma troppo completa, con sonorità precise che magari non avrei sentito.

La scrittura di ‘Haiku11’ si muove intorno al concetto di apparizioni/sparizioni, che lasciano spazio a una voce supplementare. Una scrittura (e questo è in rapporto diretto con la poesia giapponese) che descrive piuttosto uno stato, una situazione che si sviluppa poco.

Al contrario, il quartetto di ‘In-between è solo una parte del tutto ed è pensato come un’eco, uno specchio o un doppio dell’orchestra. Ogni nota è scritta in un rapporto preciso, congiungendosi nel tutto. Inizialmente il quartetto è pensato fuori dell’orchestra (cioè nel mezzo o dietro il pubblico), però è rapidamente reintegrato; deve funzionare come uno zoom, una lente d’ingrandimento permettendo degli allargamenti e restringimenti della massa sonora. A tutto ciò si aggiunge il fatto che non è un concerto per quartetto bensì una composizione per orchestra e quartetto: così quest’ultimo è messo in risalto solo in alcuni momenti ma sempre in presenza di altri strumenti.

Essendo percussionista, la scrittura del quartetto non rientra per me nelle competenze dell’esercizio, quasi obbligato, di mostrare – rispetto all’immenso repertorio – che potrei portare qualcosa di nuovo alla formazione. Il Quartetto Bela, infatti, mi ha chiesto di comporre per 4 + 1, perché ognuno di noi conosceva Fantazio (l’improvvisatore) e tutti sapevano che sarebbe potuta essere un’esperienza unica.

 

Parliamo ora di come il protagonismo della voce possa conoscere strade diversificate. Questa volta il riferimento è a ‘The linesPerpetual Sense of Being Out, far Out to Sea’ (2011) ed a ‘Oscura luce  (2007).

 

La Divina Commedia di Dante ci propone un’esperienza e ci invita, attraversando una selva oscura, a mollare la presa: “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. Ho cercato tre estratti che potrebbero simbolizzare i tre mondi attraversati e ho scelto l’ingresso nell’Inferno quando la porta parla (“Per me si va nella città dolente”); poi quando Virgilio e Dante arrivano nel Purgatorio, respirando finalmente l’aria libera; e alla fine l’unione sacra simbolizzata dalla luce “eternamente una” del Paradiso. Il trattamento musicale è incominciato con una limitazione, imposta dal concorso per cui ho scritto il brano e precisando che la scrittura doveva essere a quattro voci non divisibili. Ho quindi scelto di comporre sfruttando rapporti armonici semplici e optando per una ricerca sui possibili rapporti tra orizzontalità e verticalità, con l’idea di uno sviluppo: dal nero al bianco, dall’ombra alla luce.

Nella scrittura di Virginia Woolf, la temporalità occupa uno spazio preponderante e la scelta dei testi ha coinvolto due livelli: l’espressione di un momento, come quando « l’orologio suonava. I cerchi di piombo si scioglievano nell’aria» e l’espressione di una sensazione come: «Lei aveva sempre l’impressione […] che era molto, molto pericoloso vivere anche un giorno solo». Con questa materia testuale, ho cercato di lavorare piuttosto su degli stati sonori che su uno sviluppo della forma. Ne risultano dei momenti in cui il soffio, i battiti e le vibrazioni tra due note, le sequenze ritmiche o ancora le melodie vengono gestiti/utilizzati in modo indipendente. Il tutto è relativamente statico e non c’è la volontà – rispetto all’immagine dei cerchi di piombo che si  sciolgono nell’aria – di guidare l’ascolto verso qualcosa attraverso lo sviluppo della forma. Si tratterebbe piuttosto di una proposizione e un’espressione di essere, qui, adesso, dove ci troviamo.

 

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Dall’arricchimento culturale-estetico alla creazione di enigmi e momenti incisivi.

Dialogo con Carla Magnan

 

 

Può esistere – a tutt’oggi – un pregio nella lentezza? Non riferiamoci tuttavia ad una lentezza esclusivamente di stampo musicale. Prendiamo propriamente in considerazione anche quelli che sono gli andamenti (e dunque l’intrinseca musicalità) dei tragitti mentali ed esperienziali, dei processi di sviluppo, avviluppo e compimento di esperienze o opere, delle morfologie del pensiero, delle complesse vicende esistenziali.

 

Ecco, questo è un aspetto concreto a cui si può applicare, credo, quella attenzione ai problemi di comunicazione che proponevi. Il rapporto con il tempo della fruizione, la capacità di percepire o almeno di intuire quali possano essere le esigenze di un ascoltatore per “rimanere attaccato” a una nostra idea musicale impone di considerare e mettere in gioco strategie di ripetizione e di distribuzione nel tempo delle nostre idee musicali. In questo senso, confesso che a volte mi rivolgo ad ascoltatori non “addetti ai lavori”, per mantenere un contatto con una qualche afferrabilità media dell’ascolto, partendo da lì per poi decidere di volta in volta se ribadire o rendere meno marcata un’idea musicale. A livello compositivo la gestione del tempo è diventata per me fondamentale. E più vado avanti, più mi rendo conto della necessità di rallentare il mio pensiero musicale, o forse di gestirlo in maniera differente. Di respirare nel ritmo, come si fa nella prassi esecutiva della musica antica.





Carla Magnan


«Non v’è esempio più trionfante della duttilità di un’idea nel piegarsi alla forma che le si propone». Sono parole facenti riferimento alla musica sinfonica beethoveniana, che portano la firma di Claude Debussy, il quale prosegue scrivendo: «...la vera lezione di Beethoven non consisteva dunque nella conservazione dell’antica forma, né tanto meno nell’obbligo di seguire le orme dei suoi primi passi. Bisognava saper guardare il libero cielo attraverso le finestre aperte». Muovendo da tali citazioni chiederei una, se possibile, breve riflessione, innanzitutto di carattere generale, intorno alla questione della Forma, specificando quanto e come essa continui, oggi, ad esser necessitante, passando poi a descrivere se e come gli aspetti formali abbiano avuto un'evoluzione rispetto al tuo comporre.

 

Il problema della forma musicale per Debussy e il suo modo di leggere Beethoven è veramente un passaggio cruciale. Debussy, anche grazie alla frequentazione di Mallarmé, ha potuto affrontare aspetti concernenti i rapporti tra cultura tedesca e cultura francese tali da trascendere la formatività musicale pura e semplice, relativi a quello che Mallarmé chiamava il rapporto con l’Idea, e che si differenziava dall’Idealismo tedesco del primo Ottocento e dalle sue ricadute artistiche e musicali. Al fondo, probabilmente, c’era il rapporto con la forma musicale dopo Wagner, ma se ci pensiamo bene potremmo veder esteso questo dibattito a linee di tendenza ben più ampie, pensando anche a Bach piuttosto che a Couperin. Hugo von Hofmannsthal, in un suo scritto su Beethoven successivo alla Prima Guerra Mondiale (venato da una polemica indiretta con il giovane Ravel), rivendicherà ancora, proprio a Beethoven, un primato dell’Idea sulla Forma che ne faceva, secondo lui, il più grande rappresentante della cultura tedesca, superiore – sempre a suo dire – allo stesso Goethe o a Schiller, e tale da esprimere la quintessenza irriducibile della cultura tedesca. Ravel risponderà a Hofmannsthal in un modo magistrale e non privo di tratti sarcastici, con quel grande affresco sul mondo della Grande Vienna appena sconfitto dalla Guerra, che è La Valse’. Come ci si può rendere conto, si tratta di un intreccio “alto” di riferimenti, che attraversa musica, filosofia e storia tra Ottocento e Novecento, ma che ha lasciato traccia sui modi successivi di rapportarsi alla forma musicale; e che ha aspetti d’attualità ancora molto forti. Ogni tipo di idealismo formale (che muova da forme storicamente precostituite o che sia di pura invenzione) è destinato a scontrarsi contro esigenze di naturalezza che possono esprimersi attraverso una maggiore attenzione al suono (si pensi a Xenakis o a Grisey), attraverso una maggiore apertura verso l’estemporaneità dell’esecuzione (penso al Jazz o alle esperienze americane ed europee successive a Cage, come quelle di Feldman o di Maderna) o attraverso modi di concepire la forma che ritrova nella scrittura stessa sempre nuove possibilità di raccordare il nostro ascolto con infinite continuità e discontinuità del tempo in cui siamo immersi.

 

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Margini esplorativi e costanti nella strutturazione musicale.

Intervista a Daniele Corsi

 

 

Emerge, in generale, la tua predilezione per gli organici “allargati”. Mi piace a tale proposito ricordare la composizione che porta il titolo Gioco delle parti, eseguita a Copenaghen (Danish Radio Concerthuset) ed ancora Movimenti nel bianco, incisa dall’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano sotto la direzione di Alessandro Calcagnile. Ci tengo quindi a sapere qual è la tua personale visione di suono orchestrale: ad esempio quale compattezza o rarefazione persegui, quale interesse nutri per il contenimento e/o accrescimento del suono, quali valorizzazioni ti preme dare alla dovizia di dettagli timbrici ed altro ancora….

 

Ho certamente più interesse verso gli organici ampi e ritengo che siano più congeniali al mio modo di essere e di esprimere le idee attraverso la musica. Non ho nulla in contrario alla musica per strumento solo o ai duo: è una mera questione di predilezione personale. Mi esprimo meglio se ho a disposizione più strumenti. Non mi dispiacciono neanche gli organici formati da strumenti della stessa famiglia, per esempio gli ensemble di violoncelli, di clarinetti, ecc.

Poiché un altro motivo di interesse per me è l’elemento spazio, mi piacerebbe anche scrivere qualcosa che contrapponga due ensemble diversi ma omogenei per timbro: per esempio un ensemble di percussioni e un coro (maschile o femminile), o un gruppo di violoncelli (o anche archi) e gruppo di strumentini, ovviamente studiando la disposizione nel luogo dei due ensemble.  

 

Ha preso avvio da qualche tempo un tuo nuovo progetto la cui origine si ritrova in un dipinto di Bosch. Quali possibilità e qualità di sviluppo sono ipotizzabili e quali compagni di viaggio si uniscono a te in questo percorso?

 

Si tratta di un lavoro basato sul famoso dipinto di Bosch ‘Il giardino delle delizie’. Lo scopo è quello di creare una drammaturgia dell’immagine attraverso la musica, che prevede come organico un violino, un violoncello e l’elettronica. È un lavoro a quattro mani e il mio compagno di viaggio è Federico Placidi, un musicista molto esperto e dotato che lavora soprattutto nel mondo dell’elettronica.

Tutto si origina dalla commissione che ci è stata affidata da un duo di Vienna, formato dalle musiciste Edua Zadory e Ana Topalovic. Il lavoro si articola seguendo la logica della struttura del trittico di Bosch. C’è un’introduzione che rappresenta la Creazione e che si vede solamente richiudendo i due pannelli laterali sul pannello centrale, di dimensioni più ampie. Poi c’è lo sviluppo dei tre pannelli, a cominciare da quello di sinistra che raffigura Adamo ed Eva, passando per quello di destra che rappresenta l’Inferno per poi terminare con il pannello centrale che dovrebbe raffigurare il Paradiso perduto. Lavoriamo da tempo alla stesura del pezzo, e siamo già ad un buon punto, definendo insieme ogni scelta. Procediamo, per fortuna, in piena armonia, mettendo noi stessi in discussione e cercando soluzioni che siano totalmente condivise. Va anche detto che creiamo in modo molto libero, con suggestioni che vengono non solo dalla musica colta e dall’elettronica ma anche dal mondo del cinema.

 

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Marcela Pavia


La sospensione ricorrente e la tensione che si autoalimenta.

Intervista a Marcela Pavia

 

 

Avviciniamoci in primo luogo all’elemento della TENSIONE ed alla sua valenza musicale. Come minimo alludo a quel particolare tipo di tensione che anima ogni esecuzione e che consente al pezzo stesso di sorreggersi nel corso della sua durata. Inoltre il riferimento è alla tensione soggiacente alla pagina musicale, derivante quindi da caratteristiche precipue di scrittura. Ho ad esempio potuto ascoltare il brano Mork per clarinetto in sib e pianoforte, che da questo punto di vista mi è apparso dotato di una grande “carica”. Vi sono difatti casi in cui l’ascoltatore è posto vistosamente ed in modo pronunciato di fronte a tale elemento, ma non mancano casi in cui lo si ritrova in una sorta di penombra. Quali considerazioni possono generarsi in merito?

 

TENSIONE/RIPOSO sono dialetticamente i generatori della forma musicale, in quanto questa si svolge nel tempo e questa dicotomia si verifica in tutti i livelli formali, dalla micro alla macro forma e può anche verificarsi in ogni parametro musicale (ritmo, altezza ecc.) separatamente. Da qui scaturiscono fenomeni di convergenza o divergenza fra i parametri che danno luogo a ulteriori e più sottili piani di tensione. Alcuni esempi: i fenomeni accentuali (tesis/arsis ovvero tensione/riposo) possono essere prodotti da qualsiasi parametro, dal ritmo all’altezza, dalla densità polifonica al timbro. Se c’è convergenza tutti concorrono a produrre l’accento nello stesso punto. Se c’è divergenza si verifica uno sfasamento e questo produce un altro piano di tensione. Si apre allora un ventaglio ricchissimo di possibilità oltreché una gradazione di maggiore o minore esplicitazione della tensionalità. La tensione è esplicita ad esempio se si ascolta un evento in crescendo, mentre l’ascoltatore percepisce la tensione in un altro piano di percezione nei casi in cui si verifica la divergenza sopra citata.

 

Esiste un’abbondanza di riflessioni inerenti la peculiarità del gesto musicale. È soprattutto interessante parlare della trasformabilità di tale gesto, che sempre più è indirizzato a dare esplicitazione a nuove forme di espressività. Quale freschezza e quale flessibilità può riversarsi oggi sui singoli strumenti affinché possa davvero affiorare una sofisticata aderenza tra idea di suono (frutto di incessante ricerca) e sua realizzazione?

 

La particolarità tecnica di ogni strumento e la sua tecnica esecutiva presuppongono delle potenzialità e dei limiti. Allo stesso modo che nelle lingue (che riflettono le potenzialità e i limiti della mente umana nonché una particolare visione del mondo) queste potenzialità e limiti sono una sfida a una idea di suono che può avere il compositore per una determinata opera. La tendenza è quella di andare il più in là possibile oltre questi limiti per scoprire nuove potenzialità. Ed è l’oltrepassare dei limiti consueti quello che spesso permette il passaggio da una dimensione all’altra (ritmo che diventa altezza) o, nell’ambito della musica strumentale, una timbrica tanto diversa da cambiare l’identificazione dello strumento. Nel caso specifico dei concerti si produce allora una divergenza fra ciò che si vede (un trombone per esempio) e ciò che si ascolta (una timbrica nuova che non corrisponde alla nostra idea di trombone).

 

Una mia recente rilettura di un noto saggio di Massimo Mila imperniato sulla musica pianistica mozartiana, mi ha condotta a soffermarmi, da un punto di vista storico, sull’importanza della conquista del senso di UNITà all’interno della composizione musicale, parametro – a detta di Mila – consolidatosi proprio in epoca mozartiana. Vorrei chiedere sostanzialmente quanto nella contemporaneità il criterio di unità continui a contare e ad esser rappresentativo. E magari con quali diversità di trattamento rispetto al passato.

 

L’UNITà è un aspetto importantissimo nella musica occidentale ed è inseparabile dalla VARIETà. Sebbene il senso d’unità nella nostra cultura si sia consolidato nel Classicismo, il processo è risultato di una evoluzione lunga nel tempo. Il principio “massima unità all’interno della varietà”, insito nella musica occidentale, è oggi più valido che mai, malgrado non sia sempre chiaro ad un primo livello di  percezione. Questo principio è forse l’unico che si è mantenuto costante attraverso tutti i cambiamenti di stili ed estetiche che hanno segnato il percorso della Storia della Musica. È talmente importante che è fondamento, non sempre esplicito, dei criteri di valutazione estetica. 

Nella musica contemporanea, la maggior “perdita” di riconoscibilità degli eventi a un primo livello di percezione ha fatto sì che il criterio d’unità divenisse ancora più importante. L’abbandono della sintassi tradizionale con i suoi temi e motivi riconoscibili, l’abbandono dell’ancora della tonalità, aveva già spinto Schoenberg a cercare il senso d’unità in altri modi. Oggi, dopo il ricupero del gesto e della figura, unità/varietà continuano ad essere principio inderogabile della composizione e della valutazione estetica a tal punto che spesso esso è sottinteso o implicito. Nella pratica odierna, con i mezzi (tecnici e concettuali) proporzionati dalla tecnologia, l’interrelazione fra micro e macro forma è ancora più stretta.  Ad esempio, un brano può scaturire da un singolo suono: si possono trarre i dati (quantitativi o qualitativi) dall’analisi dello stesso in ogni suo particolare macro e micro formale per essere usati nelle variabili macro o micro formali che reggeranno il percorso formale. La trasformazione del materiale ottenuta in questo modo potrà essere percepita (livello dei gesti/figure) o non (livello strutturale).

 

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L’artigianalità e il senso direzionale del Ludus Gravis.

Dialogo con Daniele Roccato

 

 

Parliamo di ORIZZONTI IMPROVVISATIVI e della particolare MAGIA DELL’ARBITRIO nelle arti. Quale interesse nutri verso tali orizzonti e procedimenti?

Sono interessata a conoscere una tua riflessione soprattutto a proposito della condizione “altra” in cui il musicista e l’artista, più in generale, si trova a fare consegna di sé (rispetto a quelli che sono i meccanismi legati alla notazione, alla scrittura e via discorrendo). Si potrebbe dire che in certi casi si sia convocati diversamente ad esplicitare i propri mondi interni.

 

L’arbitrio è una condizione sicuramente necessaria. Per quanto mi riguarda l’improvvisazione è il mio modo principale di vivere l’evento sonoro, l’evento musicale. Ho delle modalità. Sento che c’è sempre una parte di improvvisazione, anche quando si realizza musica scritta, ma è chiaro che il margine discrezionale è molto ridotto, anche se non per questo c’è meno libertà. Avendo a disposizione questo margine ridottissimo tutta l’espressione si muove e tutto succede su pochissime cose. La differenza tra un’improvvisazione ed un’esecuzione mi sembra simile alla differenza che c’è tra un pittore contemporaneo ed un pittore rinascimentale. Il pittore del 1500 o del 1600 aveva un ventaglio limitatissimo di soggetti e doveva rientrare dentro certi stilemi. Per questo, per trovare la sua espressione, l’artista del tempo si è trovato per necessità ad accrescere il livello tecnico, in modo che ogni microdettaglio, ad esempio il sopracciglio di un occhio o l’unghia di una mano, potesse determinare di per sé uno spazio di creazione. Tornando all’improvvisazione posso dire che è comunque il mio modo d’essere. Anche quando compongo (ad esempio in questo periodo sto scrivendo per il teatro Comunale di Bologna), è come se stessi facendo una “improvvisazione rallentata”, come diceva Schoenberg.

Quando si improvvisa si cerca di lasciarsi alle spalle le sovrastrutture (tecniche, compositive, strumentali) per far rimanere solo quelle spontanee, che possono sussistere e stare in piedi senza un apparato teorico. Si tratta di chiudere la parte cosciente – e questo mi riesce bene –.  Ciò non vuol dire ritrovarsi in un caos emotivo, c’è al contrario un procedimento anche molto chiaro per far affiorare le idee, per farle dialogare. La cosa che si aspetta sempre è l’imprevisto. Qualcuno sostiene che l’improvvisazione abbia senso se ci sono almeno due persone. Io non credo sia così, anche se tale affermazione ha un suo senso. Se un musicista è da solo è legato alla propria volontà, quindi anche limitato dalla propria volontà, a meno che non abbia condizionamenti esterni. Se una persona improvvisa con me sono obbligato ad interagire in vari modi, posso seguire delle idee, posso scegliere di rispondere ad esse, contrastarle o ignorarle. Anche ignorarle è una scelta. Mi ritrovo in ogni caso a fare cose che non avrei fatto. Da solista per me funziona lo stesso, perché ci sono gli imprevisti, le cose che si chiamano errori. Gli errori sono una manna dal cielo visto che si è obbligati ad intervenire in modo estemporaneo, senza progettazione. Se sto lavorando in un contesto modale di un certo tipo e viene fuori una nota che non volevo, la devo inserire, devo farci i conti, cambia improvvisamente la situazione. Anche improvvisare da soli è una cosa assolutamente salutare.





L'ensemble Ludus Gravis


L’Ensemble Ludus Gravis mi sembra stia portando avanti un buon lavoro per coltivare ed esplorare le qualità cromatiche del suono, raggiungendo strada facendo una specifica eloquenza sonora, che si bilancia con un percepibile senso di dinamismo interno.

È possibile aspirare e dirigersi costantemente verso un SUONO FRAGRANTE?

Quest’ultimo aggettivo si riferisce al fatto che la musica possa non soltanto raggiungere l’ascoltatore, ma essere in grado di pervaderlo in senso più ampio e duraturo.

 

Non so se sia possibile raggiungerlo, ma l’idea di aspirare e dirigersi verso quest’idea è possibile. Posso dire che con l’ensemble Ludus Gravis le potenzialità sonore sono pazzesche, anzi c’è sempre il pericolo di ricerca dell’effetto. Il mio approccio è comunque molto artigianale, mi comporto come un cuoco o un falegname, più un falegname, che si rovina un po’ le mani. Non ho un fine vero e proprio, cerco certamente di evitare le cose facili all’ascolto. Ma sento che il lavoro e le persone che fanno parte di questo ensemble hanno una loro implicita direzione. È una sensazione molto forte, sto seguendo quindi molto semplicemente questa direzione, costruendo pezzo dopo pezzo le cose verso cui vogliamo andare.

 

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di F. Nardacci :

 

Riflessi e dinamiche della contemporaneità nella musica.

Intervista a Paolo Cavallone

 

Si diceva della ricerca musicale che Cavallone compie e che non trova il suo limite nella tecnica compositiva propriamente detta. Ebbene, è un pensiero, il suo, che ricerca un’immagine, un suono, un’emozione; la struttura – come lui stesso dichiara – viene costruendosi pian piano; è come se ogni fase della composizione venisse nutrita dalla precedente. Potremmo assimilarlo quasi alla meticolosità di un pittore impegnato nella ricerca del giusto colore attraverso i vari impasti cromatici; sembra intenderlo proprio così, Cavallone, il lavoro del compositore; qualcuno ha voluto riconoscerlo nelle sue opere parlando di ricchezza timbrica nell’orchestrazione e definendolo per questo una sorta di pronipote di Ravel.

In effetti, l’evocazione di Ravel emerge evidente nei brani confluiti nel CD ‘Confini’, pubblicato da Tactus nel 2011: «Non c’è volontà di imitare Ravel o Debussy; questi autori sono un’eco, una memoria. Quello di cui avevo bisogno era un materiale vario, per una lettura aperta a più prospettive. Il materiale semplice usato in apertura si arricchisce attraverso le proliferazioni che gli stessi gesti musicali permettono».

 

A proposito della struttura che viene a crearsi quasi a posteriori rispetto all’idea originaria del compositore, chiediamo quale definizione possa essere usata per ‘Confini’:

«L’idea originale era la scrittura di una sonata, un pezzo per pianoforte. Ho impiegato ben due anni per portarlo a termine: da pianista non avevo mai osato scrivere un pezzo per pianoforte, guardando con timore ai colossi del passato. La maturazione è stata lenta. Dietro c’è lo sforzo di immaginare un pezzo per piano nel nostro tempo, nel XXI secolo, con i suoi ritmi, le sue dimensioni, il suo essere “senza confini”. Da un punto di vista storico, anche la sonata classica nasce da un confronto con la realtà e ne rispecchia strutturalmente le sembianze. La sonata moderna dovrebbe rispecchiare a sua volta quella realtà caleidoscopica del mondo d’oggi, fatto di poliedricità ideologica, multietnicità. Da qui la compresenza nella mia composizione di materiali diversi; non ho posto alcun limite alle scelte stilistiche che potevano intervenire nel corso del lavoro. In linea di massima, se la musica va verso una direzione, io la accolgo. Nel caso specifico di ‘Confini’, gli echi di Debussy e Ravel, cui si faceva riferimento, sono seguiti da quelli di Scarlatti, Piazzolla, dal flamenco al tango... Ecco, anche la gestualità riferita alla danza trovo sia fondamentale».

 

I riferimenti letterari costituiscono un altro elemento distintivo dell’opera di Cavallone, egli stesso poeta:

«La poesia è una parte della mia creatività e rientra nella poliedricità del mio approccio compositivo. Qualcuno l’ha definita crossing poetry, poetica dell’attraversamento. Ho iniziato a scrivere quasi vent’anni fa per una mia necessità e in alcuni casi ho utilizzato le poesie all’interno di mie composizioni. Come in apertura di ‘Hóros, per esempio, dove con alcuni versi propongo una immagine di distanza fra noi e l’oggetto interiore e musicale. In questo caso particolare, la poesia è parte integrante della composizione che altrimenti sarebbe monca. Il mio essere poeta si riferisce all’incontro dell’animo poeta con la tecnica di scrittura, da cui non si può prescindere. Non esprimo, con questo, alcun giudizio estetico sulla mia produzione poetica».

 

Oltre ad una produzione letteraria propria, Cavallone attinge a piene mani al grande patrimonio letterario che la storia ci ha consegnato, lasciandosi ispirare dalle figure e dalle immagini poetiche che più corrispondono naturalmente al suo pensiero. È il caso di ‘Mercutio’, quartetto d’archi dedicato alla figura shakespeariana apparentemente secondaria nel dramma di Romeo e Giulietta, ma che in realtà – sostiene Cavallone – contiene in sé tutte le tensioni del dramma.

«Mercutio è amico di Romeo e muore anticipando la tragedia. Il suo monologo sembra un momento di divagazione dalle trame emotive del dramma. In realtà, contiene tutti gli elementi della tragedia che sta per consumarsi. Una sorta di descrizione altra dell’ineluttabilità degli eventi. Mercutio, inoltre, evoca la regina Mab che nella tradizione celtica rappresenta un’entità nell’equinozio di primavera, ovvero, ancora il passaggio da una stagione all’altra. La stessa Mab viene descritta sia come elemento di luce, sia di tenebra.»

 

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Incontrando Giorgio Gaslini

 

 

Lei parla di immagine, di percezione, di subconscio. Ci racconti questa affascinante esperienza…

 

A volte mi sembra di vedere proprio un’immagine precisa, un disegno. A volte è la percezione di un’idea sonora, un mondo poetico sonoro. A volte è l’idea di una forma musicale – tripartita, quadripartita – o ancora il singolo movimento... come nella suite Intorno Intorno, per la quale è nato inizialmente il primo movimento da solo. Dopo averlo eseguito ho avuto la sensazione che mancasse qualcosa, che quello era l’inizio di un discorso che doveva continuare. Ho immediatamente immaginato che potessero essere aggiunti altri quattro movimenti e li ho scritti. Ogni movimento ha un titolo diverso e ha origine da alcuni versi di mie poesie.

 

Prendere un assunto poetico per specificare un evento sonoro costituisce il seme di una delle problematiche più annose della storia della musica, quella della semanticità o asemanticità di questa…

 

E. Hanslick, R. Schumann, più avanti R. Wagner… Il romanticismo ha caricato di contenuti e di significati la musica finché il musicologo si è levato in piedi e ha detto che la musica in realtà contiene solo se stessa, l’in sé. Anche I. Stravinskij riprende questo discorso in Poetica musicale’. In realtà ho l’impressione che Stravinskij abbia un po’ giocato: ha riempito la sua musica di così tanti contenuti per poi dire che di contenuti non ne aveva… deve essersi divertito!





I testi di questi songs nascono già finalizzati alla musica oppure sono sue composizioni letterarie autonome?

 

Il testo di un song non ha nulla a che vedere con un tradizionale testo poetico. Testi poetici veri e propri li ho composti invece per i Lieder (una ventina) – alcuni già su disco – e la produzione di questo genere sta aumentando col tempo. Quelle sì sono poesie, perché il Lied richiede la forma poetica. Anche la canzone si serve di un costrutto poetico, però c’è la ricerca della parola fisica, la parola che si sposa perfettamente con quella particolare nota. Credo che sia la forma più difficile della storia della composizione del Novecento. Molti compositori contemporanei l’hanno per questo disertata. Si tratta di uno snobismo culturale probabilmente motivato da un altro tipo di ricerca che  i miei colleghi stavano facendo. Di fatto c’è una difficoltà reale nel comporre questo tipo di musica.

 

Qual è la difficoltà maggiore?

 

L’essere semplici, sintetici. In tre minuti devi raccontare una storia e devi trovare quella magia della fusione tra la parola e il suono. Devono essere facilmente ricordabili e devono avere la capacità di penetrazione nell’ascolto totale. È una delle cose più difficili, mi creda. E poi bisogna creare delle melodie, il canto, il fraseggio e una ricerca armonica raffinata, una interdipendenza tra i parametri del ritmo e della melodia.

 

C’è una ricerca della corrispondenza significativa tra il suono e il valore concettuale della parola?

 

Sicuramente. Può anche esserci il caso di onomatopea. Ho anche introdotto parole nuove da me coniate. Ho fatto esperienza con testi futuristi degli anni Trenta. La musica si svolge su una serie di dodici suoni. C’è di tutto nei cento song.

Quando verranno eseguiti a Roma interverrà anche Laura Conti, una delle interpreti del cofanetto.

 

È prevista in queste serate anche l’esecuzione di un’interessante composizione che è Peintres au café sonnant, per due pianoforti e percussioni. Di che cosa si tratta?

 

È un omaggio alla pittura contemporanea, ma anche a quella antica. È un pezzo dadaista, un po’ surreale. Che corrisponde all’estetica di alcuni pittori di cui mi sono occupato. Ho immaginato una città – è evidente che si tratti di Parigi – dove nove pittori del Novecento si incontrano in un “caffè sonante”. A ciascun pittore ho dedicato un minuto di musica. Tra questi F. Bacon, J. Miró, J. M. Basquiat… Alla fine c’è una sedia vuota, riservata al pittore che verrà; rimane dunque un’apertura al futuro. Ogni qualvolta si apre la porta dalla quale fa ingresso un cameriere che porta da bere si sente il suono di un’orchestrina. Si chiude con un brindisi effervescente e con un’esplosione di musica. Il tutto dura venti minuti ed è in prima assoluta. Al pianoforte due straordinarie giovani pianiste genovesi: Paola Biondi e Debora Brunialti; alle percussioni Maurizio Ben Omar, uno dei più grandi nomi del momento.

Nel complesso le varie serate presentano composizioni di musica contemporanea secondo la concezione di Musica Totale: si lasciano penetrare dal jazz. E questo giustifica anche l’essere ospitate in quella sede. La serata conclusiva, poi, prevede proprio l’intervento della Big Band stabile di Roma diretta da Maurizio Giammarco, tra l’altro mio ex allievo al conservatorio di S. Cecilia di Roma.

 

 

 

 




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