PRIMO PIANO
INEDITI
“Molte stagioni”



      

 

 

di Piero Sanavio

 

 

                    per  Angela I.,  in memoria

 

 

1.

 

aspettava che il merci rallentasse alla curva e saltava sull’ultimo vagone.  Erano le cinque, l’aria ancora bagnata. Scendeva a Vidor e pescava fino a mezzodì, verso l’una cucinava ciò che aveva pescato, dormiva un paio d’ore; tornava con il merci che da Feltre portava a Badìa Vendramin e Montebelluna.

Quell’estate viveva in un casello. Era isolato dal paese e ci si arrivava lungo un sentiero che costeggiava la ferrovia o tagliando per il bosco. Il casello era tenuto da Amalia,  una vedova, e ogni mattina, quando partiva, sopra il tavolo di cucina gli faceva trovare il thermos con il caffé.

Pescò per tutta la stagione, talvolta cambiando le zone e scendendo anche sotto Vidor, ma preferiva quel primo luogo. Il fiume era nascosto da un cespo d’alberi; oltre il primo braccio  c’era una secca e passato un tronco caduto di sghembo si raggiungeva il secondo braccio, l’acqua gelida perché scendeva dai ghiacciai. Vi si sprofondava  fin sopra il  ginocchio e malgrado gli stivali che gli  salivano all’inguine e imbottiva di paglia, dopo un po’ a star  fermi si  intirizziva.  Pescava con le  mosche ma dopo la guerra e la prigionia ne aveva perso l’abitudine sicché i primi tempi, la sera tornando al casello, aveva il polso e l’avambraccio indolenziti.

Una sera Amalia lo informò che l’orario dei treni cambiava, il merci delle cinque anticipato di un’ora. Si svegliò sentendolo passare;  come le altre mattine  andò nel ripostiglio dove teneva la bicicletta, la portò nella corte, prese le canne e le lenze che ficcò nel sacco insieme al thermos e gli stivali, si buttò il sacco in spalla pedalando verso nord.

Erano le quattro e mezza, non si era mai alzato tanto presto quella stagione. Sulla strada, presto la prima luce si profilò dietro le colline. A destra aveva il fiume. Pedalava in fretta nell’aria  fredda e alle sei era a Fener; invece di arrestasi proseguì, d’improvviso per quel giorno  la voglia di pescare se n’era andata.

La strada saliva abbandonando il fiume, traversava un torrente, dopo un tratto di foschia scendeva al Piave dove uno sperone lo costringeva in un’ansa. L’acqua scorreva scarsa, poco più di un rigagnolo, tra i sassi. Oltrepassò un passaggio a livello, le erbe alte e fitte e il casello che non serviva più, e adesso la strada discendeva, riattraversava la ferrovia lasciando a sinistra il Piave.

Entrò a Feltre, oltrepassata una segheria,  che batteva mezzodì.

Si fermò per un caffé, nel piazzale alcuni vecchi sedevano sulle panchine, un’infermiera in uniforme passò correndo verso l’ospedale. Aveva conosciuto una ragazza che vi lavorava, anche lei infermiera, tornando in treno da Sebenico, in licenza durante la guerra. Sei anni? quattro anni che erano passati?  La notte, in  albergo a Padova, i riverberi dei lampioni che correvano sul soffitto, ascoltavano l’acqua della fontana. Era di fronte all’ingresso, due conchiglie sovrapposte, i bordi  affollati di piccioni, di giorno e se c’era il sole. 

“… Mi piace questo posto” aveva detto la ragazza, infilandosi tra le lenzuola, “è come al cinema, fa scordare molte cose.”  Schiacciò la sigaretta sul portacenere del comodino, con l’altra mano guidò quella dell’uomo su una cicatrice, le percorreva il ventre tra i peli del sesso, un aborto malriuscito, aveva spiegato. “… Quasi me ne andavo. Comico, per l’amante di un medico, no?”

 

Pedalando tra i campi e la chiusa dei monti, il rettilineo che costeggiava un torrente portava da Feltre a Arten e dopo un po’, passato quest’altro paese,  si scorgeva il zigzag della strada militare aperta dagli austriaci per salire il Grappa. Non appena il torrente deviò sulla sinistra rispetto al rettifilo, apparve l’altra strada che anch’essa portava al Grappa: sfociava nel sito bruciato dal gas nell’ offensiva del 17 e a vederlo da qui  pareva soltanto una  macchia di cenere.

Si fermò a Fonzaso, passato Arten, era la prima volta che vi arrivava. In municipio, all’anagrafe, si informò della casa dei Cavagni..

“La villa?” fece l’impiegato. “Appena fuori, dopo la centrale. Quest’estate non sono ancora venuti, però.” Arricciò il naso, subitamente sospettoso, “Lo ha chiesto perché,  è un amico di famiglia?”

Inventò, “Sposo la vecchia. L’ingegnere ha tirato le cuoia e vorrei dare un’occhiata alla proprietà.”

“È morto?” chiese l’impiegato, la mascella che gli cadeva. “Davvero è morto?”

“È ciò che la vedova mi ha raccontato.”

La casa era  tozza e quadrata, sopra l’ingresso una meridiana color rosa che le piogge avevano slavato, nel giardino un labirinto di aiole di bosso; il rosso di un tennis spuntava oltre una barriera di pini. Così era qui che era capitato. Era stato la prima estate di guerra e si era fatto l’idea di qualcosa di assai più mondano e elegante, in tono con le euforie e gli ottimismi di allora.

Ridiscese a Feltre, prese una stanza sopra un’osteria e adesso era sera, salì a coricarsi subito dopo cena. Ascoltando le voci che venivano dal pianterreno pensò a Giuliana e quella lontana estate.

Si vedevano dal liceo: all’uscita di  scuola, alle partite di rugby, al bar. Con altri ragazzi e ragazze, avevano anche trascorso qualche  settimana insieme, l’anno della maturità, su a Cortina. Fu l’inverno che il padre e il fratello di lei si erano presentati a casa di Nerio e avevano chiesto a suo padre che gli ordinasse di interrompere gli incontri.

Suo padre aveva scosso le spalle, “È a lui che lo dovreste chiedere.”

Lo avevano aspettato in strada. “Devi smetterla” cominciò il fratello.

E lui, “A tua sorella io non ho imposto nulla.”

“Devi smetterla o ti piglio a schiaffi.”

“E dopo? In ogni caso, se devo smetterla, vorrei che fosse lei a dirlo. Poi, per cosa?”

Intervenne il padre di lei, l’ingegnere, basso, l’aria apoplettica, “Soldi. Guadagno in un giorno più di quanto tuo padre…” Si interruppe, la passione gli toglieva il fiato, riprese, “Se con Giuliana pensi di appendere il cappello hai sbagliato di grosso, ragazzo mio.”

Ancora il fratello, “Tuo padre s’è fatto un po’ di  galera, no?”

“Un anno, a Gaeta, per politica.”

“Appunto. Nessuna intenzione di rischiare gli appalti del governo per il figlio di un sovversivo.”

Il divieto aveva rinserrato legami che probabilmente si sarebbero sciolti da soli e gli incontri si moltiplicarono, furtivi, appassionati: in qualche alberghetto, altre volte all’aperto, nei campi lungo il fiume, altre volte ancora a Pieve, nell’altra casa di vacanze  della famiglia di lei.

Si separarono a metà estate, Giuliana partiva in Austria con i suoi e si rividero l’autunno. Il sole usciva dopo giorni di pioggia inondando il cortile dell’università.

Si baciarono. “Vorrei parlarti” disse lei e aveva il suo solito sorriso, “Sono molto cresciuta questa estate”. Camminarono verso il canale tenendosi per mano e dopo, appoggiati alla spalletta dell’argine, di un fiato, “Sono stata con un altro, a letto con un altro, fu… sconvolgente la perdita della verginità però era a te che pensavo, eri tu che avrei voluto, era a te che lo avevo promesso.”

“Va bene” disse lui. Guardava le case sull’altra riva, oltre l’argine e  la strada, sentiva l’odore del corpo di lei, l’odore dei capelli.

“Vuoi dire che mi ami comunque e mi perdoni? Ti confesso che mi hai tolto un peso. Lui è ingegnere, magari lo conosci: di una famiglia di ingegneri, come la mia.” In fretta, “Non so proprio perché l’ho fatto, fu su a Pieve. Riusciva a farmi ridere, mi faceva sempre ridere, ecco. Poi partiva e c’era questo ballo, lui  così elegante nella divisa…” Gli posò la testa sulla spalla, insisté, “Mi perdoni?”

Riuscì a dirle, “Non c’è nulla che io ti debba perdonare.” Poi, “Tuo padre lo sa? Che dice?”

“Penso che abbia capito cos’è successo e gli  farebbe piacere che ci sposassimo, anche a mia madre, anche al padre di lui, che è vedovo, però io non so…”. Seguitando, ora carezzandogli una mano, “In ogni caso, tu e io potremmo continuare a vederci come prima delle vacanze; potremmo anche prenderci quelle libertà che a Pieve ancora non osavo, ormai l’ho fatta la frittata.”

“Le frittate, come le chiami,  si fanno anche al casino: senza offesa.”

“Ma io ti amo e chi parla adesso è il tuo orgoglio maschile.” 

Si mosse, “Vieni?” La accompagnò verso casa, il sole affrettato dietro i tetti, l’aria che infreddoliva. Di ritorno al canale sedette sull’erba, ascoltava lo squittire  dei topi quando salivano a riva.

Dal ponte dei Cavai,  la primavera avanti, anche i primi giorni d’estate, prima delle grandi vacanze, andavano insieme in barca, l’acqua lenta e torbida, tra i gorghi o dove le alluvioni avevano corroso la riva. Prima di Selvazzano c’era il ponte della ferrovia e qui sciava, aspettando i treni, la luce che appariva e spariva tra l’acciaio delle traversine, nel rombo assordante delle ruote. O ammarava il sandolino a qualche barcone da sabbia ed era sempre uno choc entrare in acqua dopo il sole. Oltre Selvazzano, oltre un’osteria, il fiume derivava nei campi tra sambuchi e gramigne. Ricordava ancora l’odore del sambuco, l’odore dell’erba calpestata.

Si rividero un altro inverno, al banco del bar c’erano i panettoni di natale, cestini di frutta secca nelle vetrine delle botteghe. Gli chiese, “Questo tempo che hai fatto?”

“Esami, cos’altro? altri esami.”

La cameriera  portò due ponce al tavolino, Giuliana vuotò il suo in fretta e rabbrividì, “Pare alcol denaturato.” E poi, “Hai una nuova ragazza?”

“No, nessuna.”

“Da un po’ io mi vedo con un uomo ma è sempre te  che penso, ti amo. Anche tu mi ami, lo so.  Perché non torniamo insieme?”

“Mi è arrivata la cartolina sicché, anche lo volessi…”

Entrò un gruppetto di persone trascinando un’ondata di freddo, prima di rispondere Giuliana aspettò che si fossero sistemate nella stanza vicina. Era una festa di laurea, le voci venivano allegre, stridule.

“Se parti, suppongo che ci potremmo scrivere, potrei anche diventare la tua madrina di guerra. Ti ricordi di Paolo Mercalli, l’ingegnere? A Tobruk l’hanno dato per disperso, un’altra parola per morto, secondo suo padre, prigioniero alla meglio, ed è con Paolo che l’altr’anno…”

La interruppe, “Io ballo malissimo, lo sai, e  ancora non mi sono presentato al distretto, ancora non porto la divisa.”

“Sono sarcasmi inutili, è che non sei capace di perdonare.”

“L’ho già detto l’altr’anno,  non c’è nulla da perdonare.”  Pensava al sole tra le foglie quando andavano in barca e le illusioni di complicità ma  non lo riusciva a dire. Era come se ne provasse  vergogna e disse, invece, “Non mi importa se quel tuo ingegnere è stato dato per disperso e se è morto mi dispiace per lui ma non cambia  le cose.” 

“È sempre il tuo orgoglio, non crescerai mai.”  Dopo, “Il padre di Paolo mi fa la corte, dice che è vedovo da troppi anni.”

Mentì, “Lo so, qualcuno me l’ha raccontato.”

Nell’albergo a Feltre,  l’orologio  della  chiesa  che  batteva le  ore, si chiedeva se bastasse l’ignoranza sentimentale a spiegare i comportamenti dei suoi vent’anni – non era mai riuscito  a controllare le cose e spesso, anche adesso, finiva sconfitto nei rapporti umani.





The Labyrinth, Venezia 2015


2.

 

molti anni avanti, la guerra che nessuno ancora se la sognava, nerio passava le  estati a Badìa Vendramìn da una zia. La casa era lunga  e  bianca, la facciata  che dava sui campi, e una roggia correva lungo la proprietà. Il dipinto votivo fatto all’epoca di un bisnonno e stravolto da un  ambulante verso il 44, stava sopra l’ingresso alle stalle. Dopo il portico c’erano gli alberi di gelso e oltre gli alberi un cesso di canne per i vignaioli, spurgato ogni anno. Una volta c’era scivolato, affondando fino al ginocchio.

La proprietà era in via Trevignano, dopo l’incrocio con via di Sotto, tra la fontana austriaca e la bottega del fornaio che faceva il pane con due teste. Se le mattine erano fresche,  l’odore  tiepido invitava.

I giorni di mercato andava a vedere le vacche nei recinti dietro il campo sportivo o vagava tra le bancarelle dei venditori di formaggio. A accodarsi ai  compratori, i formaggiari davano anche a lui  una fetta d’assaggio.

Non seppe mai se amasse quel paese ma lo amasse o meno gli sarebbe rimasto più famigliare di ogni altro luogo dove fosse stato. La zia che non si era mai sposata lo riceveva ogni anno con felicità e passati i giorni della trebbiatura andavano insieme a pesca; o lo portava in biroccio sul Montello o il Grappa, alle trincee e gli ossari del 17, altre volte anche fin giù a Possagno dove due secoli avanti era nato Canova e vi era stato seppellito. La zia ne parlava come se  tra passato e presente non esistessero interruzioni e il passato non fosse mai più lontano di ieri.

Badìa non è ancora le montagne, sta sulle colline. Ad arrampicarsi sulla “rampera” si arriva a Mercato Vecchio dove sorge ancora, nella piazza passata la chiesa, la colonna della Serenissima a testimonianza delle franchigie concesse dal doge Pasquale Cicogna. Dietro alla chiesa resiste il vecchio cimitero, da anni sconsacrato. Oltre i cancelli arrugginiti tenuti chiusi da una catena, tra gli sterpi cresciuti ormai a petto d’uomo, c’erano un suo nonno e un bisnonno, tutti gli altri dal 1421 quando erano calati da assai più a nord.

La zia morì che egli aveva quindici anni. Sua madre era a Badìa Vendramìn dall’inizio della malattia ma quando con suo padre egli era venuto al funerale non gli aveva permesso di vedere la morta. Poco dopo la proprietà fu venduta, poi anche sua madre morì.

Nel lager presso Cracovia, nella baracca dal tetto di latta dove ciò che restava del suo reparto era tenuto in prigionia, i bombardamenti avvenivano di notte cessando all’alba e allora, intruppati, erano i prigionieri che spalavano le macerie. Nella quiete dopo gli scoppi le cose che nell’infanzia aveva visto e scordate riapparivano come giocattoli nel fondo di una piscina; aiutava contro la fame e il freddo, anche a convivere con le pile dei morti che bisognava trasferire ai carrelli, per il crematorio.

Il figlio di Amalia, la casellante presso la quale Nerio viveva questa estate, era scomparso in Russia con la ritirata e la donna gli aveva affittato la sua stanza. Sulla cornice dello specchio di fronte al letto erano infilate due fotografie – una del figlio, l’altra della ragazza che aveva sposato in una breve licenza. Si conoscevano da sempre ma come marito e moglie si erano amati soltanto i giorni del matrimonio.

In cucina, in una cornice sopra la credenza, c’era una terza fotografia: la nuora della casellante teneva in braccio un bambino ed era il figlio che aveva avuto dal marito e  il marito non aveva mai conosciuto.

“Adesso dove vivono?” aveva domandato.

“Lei è giovane e come è giusto si è risposata. Di tanto in tanto, mi passa a salutare con mio nipote.” E, “Da un po’ ospita un reduce dalla Russia, era sul Don con mio figlio, un disgraziato che ha perso la favella e aiuta in stalla.”

Al casello, le stanze sapevano di mele, i pavimenti di legno di pino. I treni che passavano avevano l’aria di mistero delle prime  volte che egli li aveva visti. La gente ai finestrini mostrava volti antichi, le donne con gli scialli sulla testa e gli uomini masticando tabacco o le punte dei baffi, i cappelli  con la penna d’aquila abbassati sugli occhi, i corpi avvolti in ampi mantelli.

 

… “Mi piace questo posto” ripeté l’infermiera, ” vorrei starci per sempre.” Si tirò il lenzuolo fino al mento,  “Questa dove hai preso l’albergo  è una bellissima città.”

“Che faresti, a viverci?”

“Starei al caldo. Feltre è molto fredda e l’ospedale è mal riscaldato.”

“Può essere  molto fredda anche questa città, è come ci vivi.”

“Allora stasera mi è andata bene: siamo arrivati in tassì e non ho dovuto rifare il letto né portare il pappagallo a nessuno. Neppure sorridere a nessuno, qualcun altro ci ha sorriso.”

“Il ragazzo che ci ha aiutato con le valigie? non sorrideva a noi due ma alla mancia.”

“Non vuol dire.” Allungò le  mani paffute verso il corpo al suo fianco, “Ho l’abitudine a toccare uomini, ne lavo diecine ogni giorno, vecchi perlopiù. O feriti, ragazzi che sono stati feriti in Grecia, in Russia…. Stasera è diverso, non ti tocco perché fa parte del mestiere.” Si mise di fianco. “Vorrei innamorarmi, mi piacerebbe innamorarmi perché allora a far l’amore ti sciogli. Il guaio è che dura sempre poco e alla lunga non vale mai la pena.”

“Non ce l’hai il fidanzato?”

“In tempo di questa guerra?  partono, non sai se tornano… Poi l’ ultimo mi costò troppo, un disgraziato.  Non ne voglio più.”

Sempre il rumore della fontana, oltre i vetri. “Sposarti non ci pensi?”

“Sposarsi è avere l’uso stabile di un cazzo e già ce l’ho. E da vecchia, quando quello non ti importa più, ciò che vale è un po’ di soldi e perciò è dei soldi che mi preoccupo già adesso.” Cambiò tono, “Il mio amante, il primario dell’ospedale, ogni mese mi mette in  mano una cifra e mi sto comprando una casa. Sarà mia prima che finisca la guerra, ho già dato una rata.”

“I tuoi risparmi per la vecchiaia?”

“Dovrei mettere i soldi in banca? la pietra sale sempre e si può sempre vendere o  si può affittare,  è ciò che diceva mio padre.”

Aveva  una delicatezza infantile nel taglio delle labbra e la forma del viso. Aveva anche un bel corpo.

“Hai un bel corpo.”

Lei sollevò il lenzuolo quasi a verificare se non fosse una menzogna. “Anche con quella cicatrice? Ti ho detto che fu  un aborto ed è ciò che racconto di solito ma si trattò di una malattia, il fidanzato, l’ultimo, che me l’ha regalata e non potrò più aver figli.” Poi, “Gli uomini! trentacinque ne ho avuti fino a stasera, tu sei il numero trentasei. Dicono che far l’amore ingrassa e il ventre si sforma ma non è vero, di grasso non ho neppure un dito. A te guardarmi ti piace?”

“Certamente che mi piace. Il primario che pensa dei tuoi viaggi? Immagino che questo non sia il primo.”

Scivolò sotto il corpo dell’uomo. “Sto andando a Rovigo da mia sorella, ha partorito. Tu sei l’imprevisto, una vacanza, siete tutti una vacanza, voi ragazzi… Adesso spegni la luce,   è  più romantico al buio.”

                                                                      

Caricò la bicicletta nel treno per Agordo, il capotreno la appese al gancio nel suo sgabuzzino e gli diede il tagliando.

“Il biglietto per lei ce l’ha?” domandò da sotto la visiera.

 “Adesso glielo mostro. Posso salire da questa parte?”

Gli tese una mano e lo tirò su.

Dal bagagliaio passò al vagone passeggeri , si sistemò presso un finestrino di fronte a due vecchi, uno con la barba. Chiacchieravano sottovoce e appena sedette interruppero la conversazione.

Per un poco guardò oltre il vetro e poi provò a dormire. I due sul sedile di fronte ripresero a parlottare, discutevano del prezzo della legna.

“Va su, va su” diceva una voce e spiegava di quanto e perché.

Adesso, nel sonno, era con Giuliana,  a Pieve. Di fronte a lui,  l’uomo con la barba rideva nei suoi occhi di diamante, lo sorpassava sulla Tofana e subito dopo era solo: era affondato nella neve fino al collo e aveva le gambe spezzate.

Non era successo a quel modo, le gambe se l’era rotte sul Pocol e a Pieve, l’inverno dopo la maturità, in casa di amici, tutto era stato abbastanza piacevole anche se non proprio come lo avrebbe desiderato. A letto, il corpo di Giuliana ardeva.

“Vorrei che fossimo sposati” disse.

“Non è affatto necessario.”

“Se lo facessimo, non oserei guardare più in faccia mia madre.”

“Perché quello che facciamo di già… E ti dovrà pur succedere una volta dalla parte giusta.”

“Lo voglio con le regole, dalla parte giusta. Voglio sposarmi con il velo bianco e i fiori d’arancio.”

“Puoi sempre farlo.”

“No, invece. Ma a volte lo desidero al punto che mi sembra che non posso aspettare.”

“Magari sarà con un altro che non resisterai più.”

“No, con te o nessuno, voglio che  sia tu il primo, promesso. Sei tu che io amo.”

Qualcuno gli toccava le ginocchia ed era uno dei passeggeri: mangiavano, gli avevano sparso le briciole sui pantaloni, l’uomo con  la barba cercava di spazzarle con le mani. Quando si accorse che lo aveva svegliato gli offrì del pane e salame che teneva in un cartoccio ma lui scosse il capo.

“Fin dove va?” chiese l’uomo, e quando l’ebbe saputo, “A Sedico dovrà cambiare.”

“Manca tanto?”

“Non tanto. Questa che passiamo è Santa Giustina.”

Guardò dal finestrino il paese, lontano dalla ferrovia e ai piedi del monte.

“Quello è il Pizzaccio” l’uomo proseguì. Accennò alla montagna con il mento. Dopo un poco, il treno attraversò un ponte di pietra su un torrente. “E questo è il Cordevole. Il ponte è nuovo, lo rifecero dopo la guerra.” Si lisciò la barba, “L’altra, voglio dire, quella, grande, ero abbastanza grande anch’io da farla e così mi ricordo.” E dopo,  passando al tu, “Tu sei stato nell’ultima?  Devi avere l’età per esserci stato.”

Si alzò che il treno entrò a Sedico e si diresse al bagagliaio.

“Quello della bicicletta” disse il capotreno. “Per Agordo si cambia.”

“Lo so.”

“Cambiare stazione, sa anche questo? La bicicletta sull’altro treno gliela passiamo noi, basta si ricordi di pigliarsela quando arriva.”

Sbarcò ad Agordo verso le due, fece colazione prima di rimettersi in sella; oltre Cencenighe, verso sera, pedalando tra gli abeti dopo le ultime case di Masaré, il lago comparve sotto la piramide del Col di Lana. L’inverno gelava e per trasportare il legname sull’altra riva i montanari lo attraversavano in slitte a cavalli.

Arrivò a Caprile in tempo per la corriera per Selva, era qui che voleva giungere. Preferiva fare di notte questa parte del viaggio, riscoprire ogni cosa la mattina.





Pino Volpi, Senza titolo, dalla mostra "Appunti di viaggio", 2013


3.

 

teneva il volto contro la parete del vagone piombato e dapprima fu  un fruscio, poi un fiato caldo gli sfiorò il viso.

“Chi sei?” disse senza girarsi.

“Contin. Vuole dell’acqua, signor tenente?”

“Voglio una pillola contro il dolore e per tornare a dormire.”

“Non ce n’è.”

“ Lo so. Se ce la fai  prova anche tu a  dormire.”

Sentì il fruscio che si allontanava, da sveglio il dolore al fianco era insopportabile  e per non urlare si morse una mano. Giaceva sul ventre, poggiò la fronte contro i bulloni alla base della parete del vagone sperando che il freddo del ferro lo calmasse.

Era a Giànina che il viaggio era cominciato, trasferiti da Cefalonia dove il 9 settembre  erano stati mitragliati. Era stato raccolto da sotto un paio di morti. Provò a pensare a quando andava in barca, la spinta del remo, poi sciare, poi una nuova spinta,  ma il battere al fianco gli rimbalzava negli occhi, sulle giunture delle rotaie il rumore del treno rintronava. Era come se qualcuno lo colpisse e lui cercasse di difendersi colpendolo a sua volta però senza riuscirvi, cieco.

“Sei della Colonia” disse la bambina, “lo si capisce dalla blusa.”

Tentava di riconquistare il sonno come una terra promessa, brancolando nel buio.  Si alzò, si mise a correre, sul prato verso gli alberi la bambina lo seguì. Sedette sotto i pini, sul tappeto d’aghi che copriva l’erba.

“Io sono di  Milano” disse la bambina, “e tu?”

Non rispose.

Lo guardò aggrottando le ciglia, “Sei muto” decise, “o stupido.”

Balzò in piedi grattandosi una gamba furiosamente, una formica lo aveva punto, la bambina scoppiò in una risata.

Il treno rallentò in una curva, seguì lo strappo di quando riprendeva velocità, la bambina seguitava a ridere.

“Sei una troia” le disse.

“Cos’è?”

Continuava a grattarsi, “Non lo so.”

“È perché sei stupido che non lo sai.”

Si avventò su di lei, picchiandola. Non pianse, mordeva, gli tirava i capelli, gli afferrò con i denti una manica della blusa strappandola, lui la colpì sul naso facendola sanguinare. Rotolarono contro un albero, egli sbatté la testa contro una pietra, lasciò la presa.

Dopo. Teneva le spalle contro il tronco, il cranio che gli doleva, e lei sedeva a gambe larghe tentando di fermare il sangue che dal naso le colava sul vestito.  Si cercò in tasca un fazzoletto e glielo tese. “Sei tutta sporca, quando torni a casa  tuo padre ti picchia.”

“Mio padre non mi picchia mai.”

Il sangue si era arrestato, “Ci laviamo al torrente?” disse lei.

“È lontano.”

“Se andiamo di corsa arriviamo prima.”

Al Boite  si immersero nella corrente e l’acqua gli entrò negli occhi. Li riaprì, nel pestare delle ruote del treno, qualcuno gli aveva rovesciato un secchio d’acqua addosso. “Aufstehe, alzati!” abbaiò una voce.

Contin gli tese una mano. Il dolore al fianco lo spinse all’indietro,  sul pavimento del vagone, daccapo.

Giorni dopo era all’infermeria. Sulla parete di fronte al letto,  la luce che per tratti penetrava attraverso l’unica finestra della baracca veniva dai riflettori delle torri di guardia. Nel lungo cortile che portava al piazzale una squadra di slavi caricava  i morti sui carrelli, per il crematorio.

Sulla strada che da Selva portava  a Santa Fosca  l’alba sapeva di  freddo e camminando verso il paese  si batteva le braccia per non rabbrividire. A destra, presto, comparve la prateria che finiva al Boite, al piede del monte il cui nome non ricordava. Giunse alla frana di cent’anni avanti che aveva distrutto una borgata; una chiesa di legno su una gobba di terra commemorava l’accaduto, la campana oscillava suonando nel fragile campanile. Poi la Colonia. Saltò lo steccato e entrò nel recinto, camminò oltre la facciata fino alla porticina che un tempo portava al refettorio. Dopo il cortile e il campo da football c’era la chiesa con la canonica. La facciata della chiesa era rosa. La luce del sole giungeva sull’erba e la cima del Pelmo ne era inondata fino all’ansa del ghiaione.

Si appoggiò a un tronco, annusava l’odore della corteccia, si curvò a raccogliere una manciata di aghi di pino, sapevano di formica. Nel tappeto sotto l’albero, qualche pigna si decomponeva.

Fu di qua, tra i tronchi dei pini e le brecce di sole scavate nel bosco che scorse l’altra casa sull’altro pendio. In origine era stata una baita, ne conservava ancora la struttura malgrado le alterazioni operate dai milanesi. Avanzò di qualche albero; dove il sole non giungeva l’umido rendeva più densi gli odori di terra e dell’erba.

Tornavano da una passeggiata, egli era l’ultimo della fila, giocava da solo dando calci a una palla. All’altezza della casa dei milanesi la palla scivolò nel cortile. Corse a raccattarla, si piegò, tornò di corsa verso gli altri ragazzi ma la fila era già in fondo al pendio.

Alle sue spalle sorse la voce di una bambina, “Sei della Colonia, si capisce dalla blusa…”

Sotto il bosco l’erba era carica di rugiada, si distese. Una formica gli si dibatteva tra le  dita, si arrampicò su uno stelo e corse via.

 

Tra i muri delle baracche nere di pioggia un uomo correva impazzito sotto le bombe, il braccio destro staccato e sanguinante stretto nella sinistra come un bastone. Nella baracca dal tetto di latta, tra le zaffate di luce che venivano dalle esplosioni, si udiva il guaire dei cani nelle pause tra gli scoppi. Solo l’alba portava il silenzio. Erano gli ultimi giorni e i soldati del campo ormai pensavano soltanto a fuggire,  non  intruppavano più i prigionieri sopravvissuti che impaccassero i morti nelle fosse comuni.

Mentre attendeva il sonno, il fiume gli entrava nel letto, una donna che appoggiasse il volto sul suo e il cui corpo sapeva che non avrebbe mai posseduto. O era come dopo una corsa,  disteso sull’erba: pensava all’altro tratto di bosco che doveva attraversare per giungere a destinazione.

Il fiume dentro il suo letto stabiliva un contrappunto tra il battere dei polsi e il ritmo del respiro e pareva allora che si allargasse, erano le note del vento sul pentagramma di una chitarra. Pescava dentro di esso ricordi di cose mai viste, avvenute nel passato – il volto di Massimiliano sulla strada coperta del Pusterthal, i passi delle divisioni Serra e Barbon su Porcia e Sacile,  o Durando, del 48, che calava da Bassano verso Cornuda. Tornavano le divise grigioverdi del 17, coperte di polvere o chiazzate di fango rosso.  Pescava vecchie scarpe militari marcite dall’acqua se l’amo non si impigliava in qualche radice, trascinato dalla corrente.                                               

… Doveva piovere, i pesci abboccavano con troppa facilità quest’altra mattina. All’una ne cucinò un paio conservando gli altri per la donna del casello e si distese per una sigaretta. Lo svegliò il vento; si preparò in fretta a partire ma lo scoscio lo colpì che traversava il secondo braccio. Quando raggiunse la casa colonica dove aveva lasciato la bicicletta era bagnato fino all’osso.

Le donne vollero che si togliesse i vestiti, li avrebbero asciugati al fuoco. Si spogliò nella stalla, indossò una delle tute che pendevano da un piolo e uscì sotto il portico, i contadini che  si riparavano dalla pioggia scoppiarono in una risata.

“Pare un annegato.”

“Dia qua, dia qua” fece una ragazza uscendo di cucina, “Quelli sono dei burloni, non ci badi” però anche lei rideva.

Le tese i vestiti bagnati e il sacco e la ragazza  portò tutto in cucina.

“Il sacco non lo metta vicino al fuoco” la avvertì, “anzi , lo tenga lontano.”

I contadini chiesero quanti pesci avesse pescato.

“Me ne restano cinque. Perché non li facciamo cucinare dalle donne e ce li mangiamo?”

“Vado a dirglielo” disse uno. “Dove sono?”

“I pesci? Nel sacco, in cucina con le donne.”

“È il posto giusto” fece un altro che parlava con un accento.

“Lui è di Bergamo” un terzo spiegò. “Lì chiamano pesce un certo arnese.”

Daccapo tutti risero insieme smettendo bruscamente.

Il vento veniva molto freddo, pareva inverno e si spostarono verso il fondo del portico. Poi fu notte. Uno degli uomini uscì nella corte, “Tra poco smette” annunciò, guardando il cielo.

La ragazza venne a dire che in cucina la cena era pronta, la tavola  preparata.

In centro alla tavola c’erano due boccali di rosso, qualcuno, al focolare, versava la polenta sul tagliere. La  ragazza portò un contorno di patate e sedé accanto al fuoco dove le altre donne consumavano il loro pasto girate di schiena.

“Stia attento” fece la più anziana, all’ospite, come lo vedesse dentro uno specchio, mentre lui si versavo un quarto bicchiere di vino, “se torna a casa stasera quel vino è traditore.”

“Può anche star qua” protestarono gli uomini. “Dormirà nel granaio se gli piglia la ciucca.”

“Non posso restare.” Si alzò, “La signora ha ragione, ho bevuto un po’ troppo e si è fatto tardi.  Se ha smesso di piovere e i vestiti sono asciutti…”

“Senta” fece la ragazza, “casa nostra complimenti non se ne fanno, se vuole restare il posto c’è. Quanto a piovere non piove più.”

“Ti piacerebbe, ah?” fece il bergamasco, “che restasse.”

Nuovamente tutti risero in coro e la ragazza arrossì,  minacciò l’uomo con una ciabatta.

Disse l’ospite, “Grazie di tutto ma devo andare. Come sono questi vestiti?”

“Quasi secchi” rispose la più anziana e indicò con il mento la sedia dove erano stesi.

Tornò nella stalla e li indossò; anche la bicicletta era nella stalla e la portò in cortile. Ritornò in cucina, si infilò il sacco in spalla, ringraziò un’altra volta e ripartì.

La notte era molto umida e molto fredda. Pedalava sul sentiero lungo il fiume, l’acqua ingrossata per gli scrosci del pomeriggio, e alla fine del sentiero  si arrestò, sull’erba c’era una grande macchia chiara. Accese un cerino, pareva una bambina, giaceva a braccia aperte e pancia in giù.

Il cerino gli bruciò le dita, lo lasciò cadere. Scese dalla bicicletta, si inginocchiò sull’erba, accese un altro cerino, con le dita dell’altra mano sfiorò l’oggetto – una bambola enorme, mostruosa, portata dall’acqua da chissà dove. Le sfiorò il collo, la plastica crepata dietro le orecchie, i capelli di stoppa, e la rivoltò,  erano crepati anche gli occhi, la bocca un buco.

Si spense anche il secondo cerino. Nel buio carezzò ciò che restava del volto della bambola come fosse un volto umano e  rimontò in bicicletta, lasciò il sentiero, salì in strada.  Da qui era perlopiù in discesa e arrivò al casello meno di due ore dopo.

 

                                                                                             

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