di Piero Sanavio
per Angela I., in memoria
1.
aspettava che il merci rallentasse alla curva
e saltava sull’ultimo vagone. Erano
le cinque, l’aria ancora bagnata. Scendeva a Vidor e pescava fino a mezzodì,
verso l’una cucinava ciò che aveva pescato, dormiva un paio d’ore; tornava con
il merci che da Feltre portava a Badìa Vendramin e Montebelluna.
Quell’estate
viveva in un casello. Era isolato dal paese e ci si arrivava lungo un sentiero
che costeggiava la ferrovia o tagliando per il bosco. Il casello era tenuto da
Amalia, una vedova, e ogni mattina,
quando partiva, sopra il tavolo di cucina gli faceva trovare il thermos con il caffé.
Pescò per tutta
la stagione, talvolta cambiando le zone e scendendo anche sotto Vidor, ma
preferiva quel primo luogo. Il fiume era nascosto da un cespo d’alberi; oltre
il primo braccio c’era una secca e
passato un tronco caduto di sghembo si raggiungeva il secondo braccio, l’acqua
gelida perché scendeva dai ghiacciai. Vi si sprofondava fin sopra il
ginocchio e malgrado gli stivali che gli
salivano all’inguine e imbottiva di paglia, dopo un po’ a star fermi si
intirizziva. Pescava con le mosche ma dopo la guerra e la prigionia ne
aveva perso l’abitudine sicché i primi tempi, la sera tornando al casello,
aveva il polso e l’avambraccio indolenziti.
Una sera Amalia
lo informò che l’orario dei treni cambiava, il merci delle cinque anticipato di
un’ora. Si svegliò sentendolo passare;
come le altre mattine andò nel
ripostiglio dove teneva la bicicletta, la portò nella corte, prese le canne e
le lenze che ficcò nel sacco insieme al thermos e gli stivali, si buttò il
sacco in spalla pedalando verso nord.
Erano le quattro
e mezza, non si era mai alzato tanto presto quella stagione. Sulla strada, presto
la prima luce si profilò dietro le colline. A destra aveva il fiume. Pedalava
in fretta nell’aria fredda e alle sei
era a Fener; invece di arrestasi proseguì, d’improvviso per quel giorno la voglia di pescare se n’era andata.
La strada saliva
abbandonando il fiume, traversava un torrente, dopo un tratto di foschia
scendeva al Piave dove uno sperone lo costringeva in un’ansa. L’acqua scorreva
scarsa, poco più di un rigagnolo, tra i sassi. Oltrepassò un passaggio a
livello, le erbe alte e fitte e il casello che non serviva più, e adesso la
strada discendeva, riattraversava la ferrovia lasciando a sinistra il Piave.
Entrò a Feltre,
oltrepassata una segheria, che batteva
mezzodì.
Si fermò per un caffé,
nel piazzale alcuni vecchi sedevano sulle panchine, un’infermiera in uniforme
passò correndo verso l’ospedale. Aveva conosciuto una ragazza che vi lavorava, anche
lei infermiera, tornando in treno da Sebenico, in licenza durante la guerra.
Sei anni? quattro anni che erano passati?
La notte, in albergo a Padova, i
riverberi dei lampioni che correvano sul soffitto, ascoltavano l’acqua della
fontana. Era di fronte all’ingresso, due conchiglie sovrapposte, i bordi affollati di piccioni, di giorno e se c’era
il sole.
“… Mi piace
questo posto” aveva detto la ragazza, infilandosi tra le lenzuola, “è come al
cinema, fa scordare molte cose.” Schiacciò
la sigaretta sul portacenere del comodino, con l’altra mano guidò quella
dell’uomo su una cicatrice, le percorreva il ventre tra i peli del sesso, un
aborto malriuscito, aveva spiegato. “… Quasi me ne andavo. Comico, per l’amante
di un medico, no?”
Pedalando tra i
campi e la chiusa dei monti, il rettilineo che costeggiava un torrente portava
da Feltre a Arten e dopo un po’, passato quest’altro paese, si scorgeva il zigzag della strada militare
aperta dagli austriaci per salire il Grappa. Non appena il torrente deviò sulla
sinistra rispetto al rettifilo, apparve l’altra strada che anch’essa portava al
Grappa: sfociava nel sito bruciato dal gas nell’ offensiva del 17 e a vederlo
da qui pareva soltanto una macchia di cenere.
Si fermò a
Fonzaso, passato Arten, era la prima volta che vi arrivava. In municipio,
all’anagrafe, si informò della casa dei Cavagni..
“La villa?” fece
l’impiegato. “Appena fuori, dopo la centrale. Quest’estate non sono ancora
venuti, però.” Arricciò il naso, subitamente sospettoso, “Lo ha chiesto
perché, è un amico di famiglia?”
Inventò, “Sposo
la vecchia. L’ingegnere ha tirato le cuoia e vorrei dare un’occhiata alla
proprietà.”
“È morto?” chiese
l’impiegato, la mascella che gli cadeva. “Davvero è morto?”
“È ciò che la
vedova mi ha raccontato.”
La casa era tozza e quadrata, sopra l’ingresso una
meridiana color rosa che le piogge avevano slavato, nel giardino un labirinto
di aiole di bosso; il rosso di un tennis spuntava oltre una barriera di pini.
Così era qui che era capitato. Era stato la prima estate di guerra e si era
fatto l’idea di qualcosa di assai più mondano e elegante, in tono con le
euforie e gli ottimismi di allora.
Ridiscese a
Feltre, prese una stanza sopra un’osteria e adesso era sera, salì a coricarsi
subito dopo cena. Ascoltando le voci che venivano dal pianterreno pensò a
Giuliana e quella lontana estate.
Si vedevano dal
liceo: all’uscita di scuola, alle
partite di rugby, al bar. Con altri ragazzi e ragazze, avevano anche trascorso
qualche settimana insieme, l’anno della
maturità, su a Cortina. Fu l’inverno che il padre e il fratello di lei si erano
presentati a casa di Nerio e avevano chiesto a suo padre che gli ordinasse di
interrompere gli incontri.
Suo padre aveva scosso
le spalle, “È a lui che lo dovreste chiedere.”
Lo avevano
aspettato in strada. “Devi smetterla” cominciò il fratello.
E lui, “A tua
sorella io non ho imposto nulla.”
“Devi smetterla
o ti piglio a schiaffi.”
“E dopo? In ogni
caso, se devo smetterla, vorrei che fosse lei a dirlo. Poi, per cosa?”
Intervenne il
padre di lei, l’ingegnere, basso, l’aria apoplettica, “Soldi. Guadagno in un giorno
più di quanto tuo padre…” Si interruppe, la passione gli toglieva il fiato,
riprese, “Se con Giuliana pensi di appendere il cappello hai sbagliato di
grosso, ragazzo mio.”
Ancora il
fratello, “Tuo padre s’è fatto un po’ di galera, no?”
“Un anno, a
Gaeta, per politica.”
“Appunto.
Nessuna intenzione di rischiare gli appalti del governo per il figlio di un
sovversivo.”
Il divieto aveva
rinserrato legami che probabilmente si sarebbero sciolti da soli e gli incontri
si moltiplicarono, furtivi, appassionati: in qualche alberghetto, altre volte
all’aperto, nei campi lungo il fiume, altre volte ancora a Pieve, nell’altra
casa di vacanze della famiglia di lei.
Si separarono a
metà estate, Giuliana partiva in Austria con i suoi e si rividero l’autunno. Il
sole usciva dopo giorni di pioggia inondando il cortile dell’università.
Si baciarono.
“Vorrei parlarti” disse lei e aveva il suo solito sorriso, “Sono molto
cresciuta questa estate”. Camminarono verso il canale tenendosi per mano e dopo,
appoggiati alla spalletta dell’argine, di un fiato, “Sono stata con un altro, a
letto con un altro, fu… sconvolgente la perdita della verginità però era a te
che pensavo, eri tu che avrei voluto, era a te che lo avevo promesso.”
“Va bene” disse
lui. Guardava le case sull’altra riva, oltre l’argine e la strada, sentiva l’odore del corpo di lei,
l’odore dei capelli.
“Vuoi dire che
mi ami comunque e mi perdoni? Ti confesso che mi hai tolto un peso. Lui è
ingegnere, magari lo conosci: di una famiglia di ingegneri, come la mia.” In
fretta, “Non so proprio perché l’ho fatto, fu su a Pieve. Riusciva a farmi
ridere, mi faceva sempre ridere, ecco. Poi partiva e c’era questo ballo, lui così elegante nella divisa…” Gli posò la testa
sulla spalla, insisté, “Mi perdoni?”
Riuscì a dirle,
“Non c’è nulla che io ti debba perdonare.” Poi, “Tuo padre lo sa? Che dice?”
“Penso che abbia
capito cos’è successo e gli farebbe
piacere che ci sposassimo, anche a mia madre, anche al padre di lui, che è
vedovo, però io non so…”. Seguitando, ora carezzandogli una mano, “In ogni
caso, tu e io potremmo continuare a vederci come prima delle vacanze; potremmo
anche prenderci quelle libertà che a Pieve ancora non osavo, ormai l’ho fatta
la frittata.”
“Le frittate,
come le chiami, si fanno anche al
casino: senza offesa.”
“Ma io ti amo e
chi parla adesso è il tuo orgoglio maschile.”
Si mosse,
“Vieni?” La accompagnò verso casa, il sole affrettato dietro i tetti, l’aria
che infreddoliva. Di ritorno al canale sedette sull’erba, ascoltava lo
squittire dei topi quando salivano a
riva.
Dal ponte dei
Cavai, la primavera avanti, anche i
primi giorni d’estate, prima delle grandi vacanze, andavano insieme in barca,
l’acqua lenta e torbida, tra i gorghi o dove le alluvioni avevano corroso la
riva. Prima di Selvazzano c’era il ponte della ferrovia e qui sciava,
aspettando i treni, la luce che appariva e spariva tra l’acciaio delle
traversine, nel rombo assordante delle ruote. O ammarava il sandolino a qualche
barcone da sabbia ed era sempre uno choc entrare in acqua dopo il sole. Oltre
Selvazzano, oltre un’osteria, il fiume derivava nei campi tra sambuchi e
gramigne. Ricordava ancora l’odore del sambuco, l’odore dell’erba calpestata.
Si rividero un
altro inverno, al banco del bar c’erano i panettoni di natale, cestini di
frutta secca nelle vetrine delle botteghe. Gli chiese, “Questo tempo che hai
fatto?”
“Esami,
cos’altro? altri esami.”
La
cameriera portò due ponce al tavolino,
Giuliana vuotò il suo in fretta e rabbrividì, “Pare alcol denaturato.” E poi,
“Hai una nuova ragazza?”
“No, nessuna.”
“Da un po’ io mi
vedo con un uomo ma è sempre te che
penso, ti amo. Anche tu mi ami, lo so.
Perché non torniamo insieme?”
“Mi è arrivata
la cartolina sicché, anche lo volessi…”
Entrò un gruppetto
di persone trascinando un’ondata di freddo, prima di rispondere Giuliana
aspettò che si fossero sistemate nella stanza vicina. Era una festa di laurea,
le voci venivano allegre, stridule.
“Se parti, suppongo
che ci potremmo scrivere, potrei anche diventare la tua madrina di guerra. Ti
ricordi di Paolo Mercalli, l’ingegnere? A Tobruk l’hanno dato per disperso,
un’altra parola per morto, secondo suo padre, prigioniero alla meglio, ed è con
Paolo che l’altr’anno…”
La interruppe, “Io
ballo malissimo, lo sai, e ancora non mi
sono presentato al distretto, ancora non porto la divisa.”
“Sono sarcasmi
inutili, è che non sei capace di perdonare.”
“L’ho già detto
l’altr’anno, non c’è nulla da
perdonare.” Pensava al sole tra le
foglie quando andavano in barca e le illusioni di complicità ma non lo riusciva a dire. Era come se ne provasse
vergogna e disse, invece, “Non mi
importa se quel tuo ingegnere è stato dato per disperso e se è morto mi
dispiace per lui ma non cambia le
cose.”
“È sempre il tuo
orgoglio, non crescerai mai.” Dopo, “Il
padre di Paolo mi fa la corte, dice che è vedovo da troppi anni.”
Mentì, “Lo so,
qualcuno me l’ha raccontato.”
Nell’albergo a
Feltre, l’orologio della
chiesa che batteva le
ore, si chiedeva se bastasse l’ignoranza sentimentale a spiegare i
comportamenti dei suoi vent’anni – non era mai riuscito a controllare le cose e spesso, anche adesso,
finiva sconfitto nei rapporti umani.
|
The Labyrinth, Venezia 2015
|
2.
molti anni avanti, la guerra che nessuno ancora
se la sognava, nerio passava le estati
a Badìa Vendramìn da una zia. La casa era lunga
e bianca, la facciata che dava sui campi, e una roggia correva
lungo la proprietà. Il dipinto votivo fatto all’epoca di un bisnonno e stravolto
da un ambulante verso il 44, stava sopra
l’ingresso alle stalle. Dopo il portico c’erano gli alberi di gelso e oltre gli
alberi un cesso di canne per i vignaioli, spurgato ogni anno. Una volta c’era
scivolato, affondando fino al ginocchio.
La proprietà era
in via Trevignano, dopo l’incrocio con via di Sotto, tra la fontana austriaca e
la bottega del fornaio che faceva il pane con due teste. Se le mattine erano
fresche, l’odore tiepido invitava.
I giorni di
mercato andava a vedere le vacche nei recinti dietro il campo sportivo o vagava
tra le bancarelle dei venditori di formaggio. A accodarsi ai compratori, i formaggiari davano anche a
lui una fetta d’assaggio.
Non seppe mai se
amasse quel paese ma lo amasse o meno gli sarebbe rimasto più famigliare di
ogni altro luogo dove fosse stato. La zia che non si era mai sposata lo
riceveva ogni anno con felicità e passati i giorni della trebbiatura andavano
insieme a pesca; o lo portava in biroccio sul Montello o il Grappa, alle
trincee e gli ossari del 17, altre volte anche fin giù a Possagno dove due
secoli avanti era nato Canova e vi era stato seppellito. La zia ne parlava come
se tra passato e presente non
esistessero interruzioni e il passato non fosse mai più lontano di ieri.
Badìa non è
ancora le montagne, sta sulle colline. Ad arrampicarsi sulla “rampera” si
arriva a Mercato Vecchio dove sorge ancora, nella piazza passata la chiesa, la
colonna della Serenissima a testimonianza delle franchigie concesse dal doge
Pasquale Cicogna. Dietro alla chiesa resiste il vecchio cimitero, da anni
sconsacrato. Oltre i cancelli arrugginiti tenuti chiusi da una catena, tra gli
sterpi cresciuti ormai a petto d’uomo, c’erano un suo nonno e un bisnonno,
tutti gli altri dal 1421 quando erano calati da assai più a nord.
La zia morì che
egli aveva quindici anni. Sua madre era a Badìa Vendramìn dall’inizio della
malattia ma quando con suo padre egli era venuto al funerale non gli aveva
permesso di vedere la morta. Poco dopo la proprietà fu venduta, poi anche sua
madre morì.
Nel lager presso
Cracovia, nella baracca dal tetto di latta dove ciò che restava del suo reparto
era tenuto in prigionia, i bombardamenti avvenivano di notte cessando all’alba
e allora, intruppati, erano i prigionieri che spalavano le macerie. Nella
quiete dopo gli scoppi le cose che nell’infanzia aveva visto e scordate
riapparivano come giocattoli nel fondo di una piscina; aiutava contro la fame e
il freddo, anche a convivere con le pile dei morti che bisognava trasferire ai
carrelli, per il crematorio.
Il figlio di
Amalia, la casellante presso la quale Nerio viveva questa estate, era scomparso
in Russia con la ritirata e la donna gli aveva affittato la sua stanza. Sulla
cornice dello specchio di fronte al letto erano infilate due fotografie – una
del figlio, l’altra della ragazza che aveva sposato in una breve licenza. Si
conoscevano da sempre ma come marito e moglie si erano amati soltanto i giorni
del matrimonio.
In cucina, in
una cornice sopra la credenza, c’era una terza fotografia: la nuora della
casellante teneva in braccio un bambino ed era il figlio che aveva avuto dal
marito e il marito non aveva mai conosciuto.
“Adesso dove
vivono?” aveva domandato.
“Lei è giovane e
come è giusto si è risposata. Di tanto in tanto, mi passa a salutare con mio
nipote.” E, “Da un po’ ospita un reduce dalla Russia, era sul Don con mio
figlio, un disgraziato che ha perso la favella e aiuta in stalla.”
Al casello, le
stanze sapevano di mele, i pavimenti di legno di pino. I treni che passavano
avevano l’aria di mistero delle prime
volte che egli li aveva visti. La gente ai finestrini mostrava volti
antichi, le donne con gli scialli sulla testa e gli uomini masticando tabacco o
le punte dei baffi, i cappelli con la
penna d’aquila abbassati sugli occhi, i corpi avvolti in ampi mantelli.
… “Mi piace
questo posto” ripeté l’infermiera, ” vorrei starci per sempre.” Si tirò il
lenzuolo fino al mento, “Questa dove hai
preso l’albergo è una bellissima città.”
“Che faresti, a
viverci?”
“Starei al
caldo. Feltre è molto fredda e l’ospedale è mal riscaldato.”
“Può essere molto fredda anche questa città, è come ci
vivi.”
“Allora stasera
mi è andata bene: siamo arrivati in tassì e non ho dovuto rifare il letto né
portare il pappagallo a nessuno. Neppure sorridere a nessuno, qualcun altro ci
ha sorriso.”
“Il ragazzo che
ci ha aiutato con le valigie? non sorrideva a noi due ma alla mancia.”
“Non vuol dire.”
Allungò le mani paffute verso il corpo
al suo fianco, “Ho l’abitudine a toccare uomini, ne lavo diecine ogni giorno,
vecchi perlopiù. O feriti, ragazzi che sono stati feriti in Grecia, in Russia….
Stasera è diverso, non ti tocco perché fa parte del mestiere.” Si mise di
fianco. “Vorrei innamorarmi, mi piacerebbe innamorarmi perché allora a far
l’amore ti sciogli. Il guaio è che dura sempre poco e alla lunga non vale mai
la pena.”
“Non ce l’hai il
fidanzato?”
“In tempo di
questa guerra? partono, non sai se
tornano… Poi l’ ultimo mi costò troppo, un disgraziato. Non ne voglio più.”
Sempre il rumore
della fontana, oltre i vetri. “Sposarti non ci pensi?”
“Sposarsi è
avere l’uso stabile di un cazzo e già ce l’ho. E da vecchia, quando quello non
ti importa più, ciò che vale è un po’ di soldi e perciò è dei soldi che mi
preoccupo già adesso.” Cambiò tono, “Il mio amante, il primario dell’ospedale,
ogni mese mi mette in mano una cifra e
mi sto comprando una casa. Sarà mia prima che finisca la guerra, ho già dato
una rata.”
“I tuoi risparmi
per la vecchiaia?”
“Dovrei mettere
i soldi in banca? la pietra sale sempre e si può sempre vendere o si può affittare, è ciò che diceva mio padre.”
Aveva una delicatezza infantile nel taglio delle
labbra e la forma del viso. Aveva anche un bel corpo.
“Hai
un bel corpo.”
Lei sollevò il
lenzuolo quasi a verificare se non fosse una menzogna. “Anche con quella
cicatrice? Ti ho detto che fu un aborto
ed è ciò che racconto di solito ma si trattò di una malattia, il fidanzato,
l’ultimo, che me l’ha regalata e non potrò più aver figli.” Poi, “Gli uomini!
trentacinque ne ho avuti fino a stasera, tu sei il numero trentasei. Dicono che
far l’amore ingrassa e il ventre si sforma ma non è vero, di grasso non ho
neppure un dito. A te guardarmi ti piace?”
“Certamente
che mi piace. Il primario che pensa dei tuoi viaggi? Immagino che questo non
sia il primo.”
Scivolò
sotto il corpo dell’uomo. “Sto andando a Rovigo da mia sorella, ha partorito.
Tu sei l’imprevisto, una vacanza, siete tutti una vacanza, voi ragazzi… Adesso
spegni la luce, è più romantico al buio.”
Caricò la
bicicletta nel treno per Agordo, il capotreno la appese al gancio nel suo sgabuzzino
e gli diede il tagliando.
“Il biglietto
per lei ce l’ha?” domandò da sotto la visiera.
“Adesso glielo mostro. Posso salire da questa
parte?”
Gli tese una
mano e lo tirò su.
Dal bagagliaio
passò al vagone passeggeri , si sistemò presso un finestrino di fronte a due
vecchi, uno con la barba. Chiacchieravano sottovoce e appena sedette
interruppero la conversazione.
Per un poco
guardò oltre il vetro e poi provò a dormire. I due sul sedile di fronte
ripresero a parlottare, discutevano del prezzo della legna.
“Va su, va su”
diceva una voce e spiegava di quanto e perché.
Adesso, nel sonno, era con
Giuliana, a Pieve. Di fronte a lui, l’uomo con la barba rideva nei suoi occhi di
diamante, lo sorpassava sulla Tofana e subito dopo era solo: era affondato nella
neve fino al collo e aveva le gambe spezzate.
Non era successo
a quel modo, le gambe se l’era rotte sul Pocol e a Pieve, l’inverno dopo la
maturità, in casa di amici, tutto era stato abbastanza piacevole anche se non
proprio come lo avrebbe desiderato. A letto, il corpo di Giuliana ardeva.
“Vorrei che
fossimo sposati” disse.
“Non è affatto
necessario.”
“Se lo
facessimo, non oserei guardare più in faccia mia madre.”
“Perché quello
che facciamo di già… E ti dovrà pur succedere una volta dalla parte giusta.”
“Lo voglio con
le regole, dalla parte giusta. Voglio sposarmi con il velo bianco e i fiori
d’arancio.”
“Puoi sempre
farlo.”
“No, invece. Ma
a volte lo desidero al punto che mi sembra che non posso aspettare.”
“Magari sarà con
un altro che non resisterai più.”
“No, con te o
nessuno, voglio che sia tu il primo,
promesso. Sei tu che io amo.”
Qualcuno gli
toccava le ginocchia ed era uno dei passeggeri: mangiavano, gli avevano sparso
le briciole sui pantaloni, l’uomo con la
barba cercava di spazzarle con le mani. Quando si accorse che lo aveva
svegliato gli offrì del pane e salame che teneva in un cartoccio ma lui scosse
il capo.
“Fin dove va?”
chiese l’uomo, e quando l’ebbe saputo, “A Sedico dovrà cambiare.”
“Manca tanto?”
“Non tanto.
Questa che passiamo è Santa Giustina.”
Guardò dal
finestrino il paese, lontano dalla ferrovia e ai piedi del monte.
“Quello è il
Pizzaccio” l’uomo proseguì. Accennò alla montagna con il mento. Dopo un poco, il
treno attraversò un ponte di pietra su un torrente. “E questo è il Cordevole.
Il ponte è nuovo, lo rifecero dopo la guerra.” Si lisciò la barba, “L’altra,
voglio dire, quella, grande, ero abbastanza grande anch’io da farla e così mi
ricordo.” E dopo, passando al tu, “Tu
sei stato nell’ultima? Devi avere l’età
per esserci stato.”
Si alzò che il
treno entrò a Sedico e si diresse al bagagliaio.
“Quello della
bicicletta” disse il capotreno. “Per Agordo si cambia.”
“Lo so.”
“Cambiare
stazione, sa anche questo? La bicicletta sull’altro treno gliela passiamo noi,
basta si ricordi di pigliarsela quando arriva.”
Sbarcò
ad Agordo verso le due, fece colazione prima di rimettersi in sella; oltre
Cencenighe, verso sera, pedalando tra gli abeti dopo le ultime case di Masaré,
il lago comparve sotto la piramide del Col di Lana. L’inverno gelava e per
trasportare il legname sull’altra riva i montanari lo attraversavano in slitte
a cavalli.
Arrivò a Caprile
in tempo per la corriera per Selva, era qui che voleva giungere. Preferiva fare
di notte questa parte del viaggio, riscoprire ogni cosa la mattina.
|
Pino Volpi, Senza titolo, dalla mostra "Appunti di viaggio", 2013
|
3.
teneva il volto contro la parete del vagone
piombato e dapprima fu un
fruscio, poi un fiato caldo gli sfiorò il viso.
“Chi
sei?” disse senza girarsi.
“Contin. Vuole
dell’acqua, signor tenente?”
“Voglio una
pillola contro il dolore e per tornare a dormire.”
“Non ce n’è.”
“ Lo so. Se
ce la fai prova anche tu a dormire.”
Sentì il fruscio
che si allontanava, da sveglio il dolore al fianco era insopportabile e per non urlare si morse una mano. Giaceva
sul ventre, poggiò la fronte contro i bulloni alla base della parete del vagone
sperando che il freddo del ferro lo calmasse.
Era a Giànina
che il viaggio era cominciato, trasferiti da Cefalonia dove il 9 settembre erano stati mitragliati. Era stato raccolto
da sotto un paio di morti. Provò a pensare a quando andava in barca, la spinta
del remo, poi sciare, poi una nuova spinta,
ma il battere al fianco gli rimbalzava negli occhi, sulle giunture delle
rotaie il rumore del treno rintronava. Era come se qualcuno lo colpisse e lui
cercasse di difendersi colpendolo a sua volta però senza riuscirvi, cieco.
“Sei della
Colonia” disse la bambina, “lo si capisce dalla blusa.”
Tentava di
riconquistare il sonno come una terra promessa, brancolando nel buio. Si alzò, si mise a correre, sul prato verso
gli alberi la bambina lo seguì. Sedette sotto i pini, sul tappeto d’aghi che
copriva l’erba.
“Io sono di Milano” disse la bambina, “e tu?”
Non rispose.
Lo guardò
aggrottando le ciglia, “Sei muto” decise, “o stupido.”
Balzò in piedi
grattandosi una gamba furiosamente, una formica lo aveva punto, la bambina
scoppiò in una risata.
Il treno
rallentò in una curva, seguì lo strappo di quando riprendeva velocità, la
bambina seguitava a ridere.
“Sei una troia”
le disse.
“Cos’è?”
Continuava a
grattarsi, “Non lo so.”
“È perché sei
stupido che non lo sai.”
Si avventò su di
lei, picchiandola. Non pianse, mordeva, gli tirava i capelli, gli afferrò con i
denti una manica della blusa strappandola, lui la colpì sul naso facendola
sanguinare. Rotolarono contro un albero, egli sbatté la testa contro una
pietra, lasciò la presa.
Dopo. Teneva le
spalle contro il tronco, il cranio che gli doleva, e lei sedeva a gambe larghe
tentando di fermare il sangue che dal naso le colava sul vestito. Si cercò in tasca un fazzoletto e glielo
tese. “Sei tutta sporca, quando torni a casa
tuo padre ti picchia.”
“Mio padre non
mi picchia mai.”
Il sangue si era
arrestato, “Ci laviamo al torrente?” disse lei.
“È lontano.”
“Se andiamo di
corsa arriviamo prima.”
Al Boite si immersero nella corrente e l’acqua gli
entrò negli occhi. Li riaprì, nel pestare delle ruote del treno, qualcuno gli
aveva rovesciato un secchio d’acqua addosso. “Aufstehe, alzati!” abbaiò
una voce.
Contin gli tese
una mano. Il dolore al fianco lo spinse all’indietro, sul pavimento del vagone, daccapo.
Giorni dopo era
all’infermeria. Sulla parete di fronte al letto, la luce che per tratti penetrava attraverso
l’unica finestra della baracca veniva dai riflettori delle torri di guardia.
Nel lungo cortile che portava al piazzale una squadra di slavi caricava i morti sui carrelli, per il crematorio.
Sulla strada che
da Selva portava a Santa Fosca l’alba sapeva di freddo e camminando verso il paese si batteva le braccia per non rabbrividire. A
destra, presto, comparve la prateria che finiva al Boite, al piede del monte il
cui nome non ricordava. Giunse alla frana di cent’anni avanti che aveva
distrutto una borgata; una chiesa di legno su una gobba di terra commemorava
l’accaduto, la campana oscillava suonando nel fragile campanile. Poi la Colonia. Saltò
lo steccato e entrò nel recinto, camminò oltre la facciata fino alla porticina
che un tempo portava al refettorio. Dopo il cortile e il campo da football
c’era la chiesa con la canonica. La facciata della chiesa era rosa. La luce del
sole giungeva sull’erba e la cima del Pelmo ne era inondata fino all’ansa del
ghiaione.
Si appoggiò a un
tronco, annusava l’odore della corteccia, si curvò a raccogliere una manciata
di aghi di pino, sapevano di formica. Nel tappeto sotto l’albero, qualche pigna
si decomponeva.
Fu di qua, tra i
tronchi dei pini e le brecce di sole scavate nel bosco che scorse l’altra casa
sull’altro pendio. In origine era stata una baita, ne conservava ancora la
struttura malgrado le alterazioni operate dai milanesi. Avanzò di qualche
albero; dove il sole non giungeva l’umido rendeva più densi gli odori di terra
e dell’erba.
Tornavano da una
passeggiata, egli era l’ultimo della fila, giocava da solo dando calci a una
palla. All’altezza della casa dei milanesi la palla scivolò nel cortile. Corse
a raccattarla, si piegò, tornò di corsa verso gli altri ragazzi ma la fila era
già in fondo al pendio.
Alle sue spalle
sorse la voce di una bambina, “Sei della Colonia, si capisce dalla blusa…”
Sotto il bosco
l’erba era carica di rugiada, si distese. Una formica gli si dibatteva tra
le dita, si arrampicò su uno stelo e
corse via.
Tra i muri delle
baracche nere di pioggia un uomo correva impazzito sotto le bombe, il braccio
destro staccato e sanguinante stretto nella sinistra come un bastone. Nella
baracca dal tetto di latta, tra le zaffate di luce che venivano dalle
esplosioni, si udiva il guaire dei cani nelle pause tra gli scoppi. Solo l’alba
portava il silenzio. Erano gli ultimi giorni e i soldati del campo ormai
pensavano soltanto a fuggire, non intruppavano più i prigionieri sopravvissuti che
impaccassero i morti nelle fosse comuni.
Mentre attendeva
il sonno, il fiume gli entrava nel letto, una donna che appoggiasse il volto
sul suo e il cui corpo sapeva che non avrebbe mai posseduto. O era come dopo
una corsa, disteso sull’erba: pensava
all’altro tratto di bosco che doveva attraversare per giungere a destinazione.
Il fiume dentro
il suo letto stabiliva un contrappunto tra il battere dei polsi e il ritmo del
respiro e pareva allora che si allargasse, erano le note del vento sul
pentagramma di una chitarra. Pescava dentro di esso ricordi di cose mai viste,
avvenute nel passato – il volto di Massimiliano sulla strada coperta del
Pusterthal, i passi delle divisioni Serra e Barbon su Porcia e Sacile, o Durando, del 48, che calava da Bassano
verso Cornuda. Tornavano le divise grigioverdi del 17, coperte di polvere o
chiazzate di fango rosso. Pescava vecchie
scarpe militari marcite dall’acqua se l’amo non si impigliava in qualche
radice, trascinato dalla corrente.
… Doveva
piovere, i pesci abboccavano con troppa facilità quest’altra mattina. All’una ne
cucinò un paio conservando gli altri per la donna del casello e si distese per
una sigaretta. Lo svegliò il vento; si preparò in fretta a partire ma lo
scoscio lo colpì che traversava il secondo braccio. Quando raggiunse la casa
colonica dove aveva lasciato la bicicletta era bagnato fino all’osso.
Le donne vollero
che si togliesse i vestiti, li avrebbero asciugati al fuoco. Si spogliò nella
stalla, indossò una delle tute che pendevano da un piolo e uscì sotto il
portico, i contadini che si riparavano
dalla pioggia scoppiarono in una risata.
“Pare un
annegato.”
“Dia qua, dia
qua” fece una ragazza uscendo di cucina, “Quelli sono dei burloni, non ci badi”
però anche lei rideva.
Le tese i
vestiti bagnati e il sacco e la ragazza portò tutto in cucina.
“Il sacco non lo
metta vicino al fuoco” la avvertì, “anzi , lo tenga lontano.”
I contadini
chiesero quanti pesci avesse pescato.
“Me ne restano
cinque. Perché non li facciamo cucinare dalle donne e ce li mangiamo?”
“Vado a
dirglielo” disse uno. “Dove sono?”
“I pesci? Nel
sacco, in cucina con le donne.”
“È il posto
giusto” fece un altro che parlava con un accento.
“Lui è di Bergamo”
un terzo spiegò. “Lì chiamano pesce un certo arnese.”
Daccapo tutti
risero insieme smettendo bruscamente.
Il vento veniva
molto freddo, pareva inverno e si spostarono verso il fondo del portico. Poi fu
notte. Uno degli uomini uscì nella corte, “Tra poco smette” annunciò, guardando
il cielo.
La ragazza venne
a dire che in cucina la cena era pronta, la tavola preparata.
In centro alla
tavola c’erano due boccali di rosso, qualcuno, al focolare, versava la polenta
sul tagliere. La ragazza portò un contorno
di patate e sedé accanto al fuoco dove le altre donne consumavano il loro pasto
girate di schiena.
“Stia attento”
fece la più anziana, all’ospite, come lo vedesse dentro uno specchio, mentre
lui si versavo un quarto bicchiere di vino, “se torna a casa stasera quel vino
è traditore.”
“Può anche star
qua” protestarono gli uomini. “Dormirà nel granaio se gli piglia la ciucca.”
“Non posso
restare.” Si alzò, “La signora ha ragione, ho bevuto un po’ troppo e si è fatto
tardi. Se ha smesso di piovere e i vestiti
sono asciutti…”
“Senta” fece la
ragazza, “casa nostra complimenti non se ne fanno, se vuole restare il posto
c’è. Quanto a piovere non piove più.”
“Ti piacerebbe,
ah?” fece il bergamasco, “che restasse.”
Nuovamente tutti
risero in coro e la ragazza arrossì,
minacciò l’uomo con una ciabatta.
Disse l’ospite,
“Grazie di tutto ma devo andare. Come sono questi vestiti?”
“Quasi secchi”
rispose la più anziana e indicò con il mento la sedia dove erano stesi.
Tornò nella
stalla e li indossò; anche la bicicletta era nella stalla e la portò in
cortile. Ritornò in cucina, si infilò il sacco in spalla, ringraziò un’altra
volta e ripartì.
La notte era
molto umida e molto fredda. Pedalava sul sentiero lungo il fiume, l’acqua
ingrossata per gli scrosci del pomeriggio, e alla fine del sentiero si arrestò, sull’erba c’era una grande
macchia chiara. Accese un cerino, pareva una bambina, giaceva a braccia aperte
e pancia in giù.
Il cerino gli
bruciò le dita, lo lasciò cadere. Scese dalla bicicletta, si inginocchiò
sull’erba, accese un altro cerino, con le dita dell’altra mano sfiorò l’oggetto
– una bambola enorme, mostruosa, portata dall’acqua da chissà dove. Le sfiorò
il collo, la plastica crepata dietro le orecchie, i capelli di stoppa, e la
rivoltò, erano crepati anche gli occhi,
la bocca un buco.
Si spense anche
il secondo cerino. Nel buio carezzò ciò che restava del volto della bambola come
fosse un volto umano e rimontò in bicicletta,
lasciò il sentiero, salì in strada. Da
qui era perlopiù in discesa e arrivò al casello meno di due ore dopo.
■
□ ■