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di Tiziana Colusso
Saggiamente,
assai saggiamente, Daniele Comberiati ha scelto
innanzitutto per sé, per la sua vita e la sua passione letteraria, la pratica
delle “vie di fuga”, la Via delle Vie
di Fuga, direbbero i Taoisti: in un’età
che nella nostra povera patria è considerata ancora da porta-borse, assistente,
o giovane-autor-servente, sballottato tra lavoretti gratuiti e doverose
genuflessioni, ha scelto di cercar vita e fortuna altrove, e l’ha trovata prima
a Bruxelles e poi a Montpellier, dove insegna e scrive. Prese le sane distanze
dalle asfittiche combriccole letterarie nostrane, in cui tirannici papi o
vescovi delle lettere dominano incontrastati nell’infinito dei decenni, disprezzando
con indifferenza o addirittura fulminando d’anatemi chiunque cerchi di
intercalare una voce dissonante o semplicemente nuova, ha trovato altrove
ambienti cosmopoliti e fecondi, nei quali la sua voce di studioso e di
narratore ha trovato man mano forza e timbro inconfondibili.
Il
suo punto di partenza è stata una passione per lo sguardo largo sul mondo,
attraverso lo studio dell’Intercultura e in particolare degli autori e delle
autrici del post-colonialismo, anche di quello misconosciuto e rimosso della
storia italiana. Tali ricerche sono confluite nel saggio “dialogico” La quarta sponda. Scrittrici in viaggio
dall’Africa coloniale all’Italia di oggi (2009). Da allora Comberiati ha alternato
pubblicazioni saggistiche, insegnamento (nelle università, appunto, di
Bruxelles e Montpellier) e scrittura narrativa, con vari titoli tra i quali
segnaliamo Di eredi non vedo traccia.
Storie di tani, mericani e tripolini, del 2012, che offre
“sguardi incrociati” sui fenomeni di immigrazione e emigrazione, con effetti
anche esilaranti.
Allo
stesso filone appartiene questo nuovo libro romanzesco, Vie di fuga (Nardò – LE, Besa Editrice,
2015, pp. 138, € 14,00). Il protagonista è un surreale e insieme serissimo
“scrittore di epitaffi”, un professionista in piena regola, con tanto di laurea
e specializzazione ad hoc, non uno di quegli “epitaffiari”
improvvisati sui quali pronuncia ad un certo punto una sua personale invettiva.
È
agevole leggere in filigrana un’allegoria divertita e originale, con punte di humour noir, del
mondo letterario tout-court, con tutti i suoi tic, i suoi diplomi, i suoi parìa sub species di
“scribacchini”, che poi spesso è epiteto che i letterati danno a tutti gli
scrittori al di fuori di sé stessi e dei propri amici e confratelli di
confraternita. L’ironia di Comberiati è leggera,
divertita, mai astiosa, e questo lo solleva al di sopra di ogni pesantezza
polemica.
Matteo
è nome biblico, ma il nostro protagonista non scrive Vangeli bensì scritture
brevi e incisive, sorta di haiku funerari, e si diletta a scrivere anche altre
scritture brevi, messaggi, messaggini, “tutto
materiale da epitaffio in definitiva”, e in fondo vien da pensare che con i
suoi 140 caratteri Twitter sia il miglior sistema
contemporaneo per creare epitaffi…
La
narrazione inizia quando Matteo viene chiamato per un lavoro – ovvero per un
epitaffio – in un imprecisato, ma molto preciso nelle descrizioni, paesino
della Sila calabrese. Alla ricerca di “ispirazione” per stilare un epitaffio che
in realtà dovrebbe riassumere addirittura due morti in un unico marmoreo
pensiero, Matteo si trova coinvolto in una serie di narrazioni paesane che,
partendo da vite piccolissime arrivano a coinvolgere il mondo intero,
attraverso storie di emigrazioni, guerre, tragedie sul lavoro, cambiamenti e
rivolgimenti del mezzogiorno d’Italia lungo almeno due secoli. Una sorta di Spoon River meridionalista, nella quale si mescolano i sopravvissuti
della tragedia mineraria di Marcinelle e delle persecuzioni contro gli ebrei,
insieme a storie di corna e di zitelle, di briganti, di piccole furbizie
paesane e di leggende locali, come quella dello “scaviaddu”, una sorta di spirito
malefico, che si impadronisce ogni tanto di un bambino predisposto e lo
accompagna lungo tutta la vita, con conseguenze sventurate per lui e per quanti
lo circondano. Come dice l’autore ad un certo punto, parlando di uno dei
personaggi delineati nel libro, si tratta di una vita e di una storia “minima, minuscola, eppure capace, nella sua
piccolezza, di toccare nodi e snodi della grande storia d’Italia, come se
quelle misere persone di quel misero paese diventassero, in un contesto più
ampio, tasselli necessari se non indispensabili”.
La
grande Storia è fatta dunque del mosaico di queste storie minuscole, di questi
nodi e snodi. A questa idea sembra rimandare anche la ricorrenza nel libro dell’“hobby” di Matteo, il quale nel tempo libero del lavoro di
“scrittore di epitaffi” – ovviamente “precario” come molto del lavoro d’oggi,
anche se la certezza della morte sembrerebbe prefigurare una committenza
infinita – si diletta a disegnare un paese immaginario, sovrapponendo e
rimandando piccole linee su fogli bianchi, tra addensamenti e vie di fuga, all’infinito.
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