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di Piero Sanavio
Il 20 febbraio 2015 è morto Enrico Panunzio, a suo tempo bibliotecario all’Istituto
culturale italiano di Parigi. La notizia mi ha raggiunto soltanto in questi
giorni. Era nato a Molfetta nel 1923, figlio del poeta Giacinto, già segretario
di Gaetano Salvemini.
Autore di romanzi di non facile
collocazione (Malfarà,
L’apofasia del Cav. Ciro
Saverio Paniscotti, I signori scaduti – tra gli altri) e di testi poetici altrettanto
non usuali, come la silloge I novantanove
nomi di Allah, Enrico si distingueva
per una scrittura personalissima, aldilà del barocco e dove il reale e
l’inventato, il terrigno, l’ironico, l’istrionico e il parametafisico
vivevano in simbiosi ‒ proiezioni di una “follia” da intendersi come chiave
musicale piuttosto che nella volgare accezione degli psicologi.
Oltre a queste scarne note c’è poco altro
che io posso e voglio dire di lui: a evitare che, per la profonda, anche
difficile, amicizia che ci legava, qualsiasi mia affermazione possa parere
determinata più dall’affetto che da rigore critico. Lui stesso, d’altra parte, nel
suo sfrenato orgoglio,
non avrebbe amato panegirici post-mortem, certo
com’era della propria grandezza.
E grande scrittore Enrico Panunzio, soprattutto in Malfarà e i deliri dell’Apofasia, e aldifuori di ogni
affetto e amicizia, senz’altro lo è stato, lo è: anche se le conventicole, i
club culturali, le aggregazioni politiche, lo hanno a
lungo ignorato. È da dire che ci aveva messo del suo: come i santi del mio personale
Calendario, aveva il dono di dire ciò che non avrebbe dovuto nei luoghi meno
adatti e alle persone sbagliate.
Di formazione francese e una delle
persone più colte e divertenti che io abbia conosciuto (una cultura che
nascondeva dietro la maschera del provinciale sprovveduto che certo non era), non
posso vietarmi di ricordare di lui nostre notturne passeggiate attraverso
Parigi gli anni a cavallo del Sessantotto, più tardi nei vicoli di Trastevere,
dove ambedue per qualche tempo siamo vissuti, e segnate da appassionate
discussioni il cui
oggetto era la scrittura.
Anche se spesso erano opposte le nostre
scelte, ci univano (oltre all’amicizia e il rispetto per l’opera) certi religiosi,
segreti omaggi a Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé (nonché a Barbey,
Villiers, l’immancabile Flaubert) e il giudizio su questo Paese. Era il nostro senhal, come per
certe conventicole lo è l’indice schiacciato sul polso a chi si stringe la
mano, e si trattava di una frase del
Generale ‒ “L’Italie n’est pas
un pays pauvre, c’est un pauvre pays.”
Giugno 2015
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