LUOGO COMUNE
RICORDI
Santità e intempestività
di Enrico Panunzio


      
È morto lo scorso febbraio a novantuno anni lo scrittore pugliese che aveva lavorato in qualità di bibliotecario all’Istituto culturale italiano di Parigi. Autore di romanzi di non facile collocazione, ma di sicura qualità, tra cui “I signori scaduti” (1966), “L’apofasia del Cav. Ciro Saverio Paniscotti” (1982), “Malfarà” (1986). Nella sua personalissima scrittura, il reale e l’inventato, il terrigno, l’ironico, l’istrionico e il parametafisico vivevano in simbiosi.
      



      

di Piero Sanavio

 

 

Il 20 febbraio 2015 è morto Enrico Panunzio,  a suo tempo bibliotecario all’Istituto culturale italiano di Parigi. La notizia mi ha raggiunto soltanto in questi giorni. Era nato a Molfetta nel 1923, figlio del poeta Giacinto, già segretario di Gaetano Salvemini.

 

Autore di romanzi di non facile collocazione (Malfarà, L’apofasia del Cav. Ciro Saverio Paniscotti, I signori scaduti – tra gli altri) e di testi poetici altrettanto non usuali, come la silloge I novantanove nomi di Allah, Enrico si  distingueva per una scrittura personalissima, aldilà del barocco e dove il reale e l’inventato, il terrigno, l’ironico, l’istrionico e il parametafisico vivevano in simbiosi ‒ proiezioni di una “follia” da intendersi come chiave musicale piuttosto che nella volgare accezione degli psicologi.   

 

Oltre a queste scarne note c’è poco altro che io posso e voglio dire di lui: a evitare che, per la profonda, anche difficile, amicizia che ci legava, qualsiasi mia affermazione possa parere determinata più dall’affetto che da rigore critico. Lui stesso, d’altra parte, nel suo sfrenato  orgoglio, non avrebbe amato panegirici post-mortem, certo com’era della propria grandezza.





E grande scrittore Enrico Panunzio, soprattutto in Malfarà e i deliri dell’Apofasia, e aldifuori di ogni affetto e amicizia, senz’altro lo è stato, lo è: anche se le conventicole, i club culturali, le aggregazioni politiche, lo hanno a lungo ignorato. È da dire che ci aveva messo del suo: come i santi del mio personale Calendario, aveva il dono di dire ciò che non avrebbe dovuto nei luoghi meno adatti e alle persone sbagliate.

 

Di formazione francese e una delle persone più colte e divertenti che io abbia conosciuto (una cultura che nascondeva dietro la maschera del provinciale sprovveduto che certo non era), non posso vietarmi di ricordare di lui nostre notturne passeggiate attraverso Parigi gli anni a cavallo del Sessantotto, più tardi nei vicoli di Trastevere, dove ambedue per qualche tempo siamo vissuti, e segnate da appassionate discussioni il  cui oggetto era la scrittura.

 

Anche se spesso erano opposte le nostre scelte, ci univano (oltre all’amicizia e il rispetto per l’opera) certi religiosi, segreti omaggi a Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé (nonché a Barbey, Villiers, l’immancabile Flaubert) e il giudizio su questo Paese. Era il nostro senhal, come per certe conventicole lo è l’indice schiacciato sul polso a chi si stringe la mano, e si trattava di  una frase del Generale ‒ “L’Italie n’est pas un pays pauvre, c’est un  pauvre pays.”

 

                                                                                                         

Giugno 2015








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