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di Gualberto Alvino
Non di Paolo Del Colle si
vuol discorrere: sarebbe troppo facile dir male o malissimo del suo goffo diario
tenuemente romanzato intitolato Spregamore
(Roma, Gaffi, 2015), sul quale ha speso parole appassionate, gridando al capodopera, più d’un critico, tra cui l’impagabile
Claudio Damiani, amico d’infanzia dell’Autore, con le sue solite litanie
impressionistico-bamboleggianti che ovviamente non fan testo («libro bellissimo, un libro veramente del nostro tempo, della
nostra letteratura, della nostra lingua, della nostra anima»: a] fuori i motivi
della «bellezza» o si taccia; b] citi il Damiani un romanzo italiano dei nostri
giorni che non appartenga al «nostro tempo», alla «nostra letteratura» e alla
«nostra lingua»; c] «anima»? Favorire il significato, prego), pur trattandosi —
anche il lettore meno provveduto lo ravviserebbe a prima giunta — d’un’opera
ingenua e dilettantesca, intollerabilmente melodrammatica, zeppa di tòpoi e modismi spacciati per gemme
sapienziali, lessicalmente e sintatticamente periclitante (mai scrittura
narrativa fu più neutra e brutamente referenziale):
la vita solo la vita abbiamo
sempre qui, davanti agli occhi, fino all’ultimo sguardo o respiro è lei che
dobbiamo rispettare, che possiamo conoscere [Sorvolando
sui modismi («fino all’ultimo respiro»), esiste forse qualcosa al difuori della
vita che «abbiamo sempre qui, davanti agli occhi»?]
la speranza è una virtù
sempre bambina [Difatti, come si dice, è
l’ultima a morire]
conciliai quello che per me
era un evidente intervento miracoloso […] con il continuare a non credere a un
qualsiasi Dio [Leggasi: ‘benché quello fosse
un evento innegabilmente miracoloso io continuai a essere ateo’]
Dov’è,
dentro di noi, la vita? Sin dove arriva, dove rimane intatta, priva di residui
o rancori, quando continua senza di noi ignorando la nostra esistenza e diventa
un pensiero o almeno un’occasione mancata? [La nostra vita continua senza di
noi (e in che modo, di grazia? senza di noi la nostra vita non può non cessare)
e ignora la nostra esistenza? Dunque la vita ignorerebbe sé stessa?]
Accendo una sigaretta,
aspetto che il fumo diventi un rigo bianco, un filo sottile gettato in alto per
ricucire l’aldilà e l’aldiquà, l’età e i ricordi, la testa e l’aura
dell’emicrania, i corpi martoriati e l’altra o propria carne di cui sono pure
tenacemente innamorati, suturandoli come le due labbra di una ferita [Il filo di fumo ricuce l’aldilà e l’aldiquà
ecc., i quali sarebbero tenacemente innamorati di cosa? O è il filo di fumo a
essere innamorato dell’aldilà e dell’aldiquà ecc.?]
Oramai ognuno dimostra gli
anni che restano e non bastano più nemmeno per tirare avanti [Non si dimostrano, dunque, gli anni che si
hanno, ma solo quelli che restano da vivere? Ergo, se X ha sessant’anni quanti
anni gli resterebbero, cinque, dieci, venti, trenta, quaranta? E questi n anni non basterebbero «più nemmeno per
tirare avanti»? Ossia?]
Alla mia età mio padre aveva
già visto l’aurora boreale e il capo di Buona Speranza, visitato l’Europa
occidentale e attraversato l’est comunista, conservando un tenace odio per i
soldati con la stella rossa e uno stupore indelebile per la facilità di
conoscere le donne che lasciavano bigliettini con nomi e numeri di telefono sul
parabrezza della macchina [Certo: le
donne che lasciano bigliettini con nomi e numeri di telefono sui parabrezza non
solo sono facilissime da conoscere, ma sarebbero disposte a far carte false pur
di essere ‘conosciute’]
Bisogna seguire l’impurità dell’esistenza:
ognuno sogna all’interno del proprio insensato e solitario dolore e le visioni
nascono dalle proprie viscere [Per quale
motivo si dovrebbe seguire l’impurità e non la purezza dell’esistenza? Perché
il dolore dev’essere per tutti insensato e solitario? Non c’è forse chi alleva
dolori sensatissimi condividendoli col prossimo? Quanto alle visioni, credevamo
nascessero dal cervello, ma evidentemente ci illudevamo]
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Giacomo Verde, 2012
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Non di Paolo Del Colle, dunque,
né del suo romanzo, ma di come la “nobile arte del recensire” sia oggi umiliata
vilipesa abbrutita da gazzettieri-urlatori privi di cultura critica e di logos
non meno che di stile, nel senso più ampio del termine.
Così Aurelio Picca su Spregamore («Il Giornale», 21 aprile 2015):
«[…] Un narratore e poeta che non si fa superare dalla realtà e che nella sua
vita ha scritto poco o nulla (è ancora inutile citare le sue opere, perché ogni
raccontatore ha come imperativo quello di dimenticare ciò che ha creato) si
chiama Paolo Del Colle. E ha pubblicato, presso l’editore Gaffi (pag. 141, euro
14,00), un romanzo intitolato Spregamore.
Allora, abbiate pazienza, non voglio usare gli appunti accumulati dalla
lettura, voglio divertirmi a sfidare la lucidità (giuro!). Spregamore sta
dentro una protesi o metastasi dell’Eur. Sta tra l’Ardeatina e il Santuario del
Divino Amore (sulle pareti come ex voto c’è tra le migliaia anche la maglietta
di Antonio Cassano). Ma chi se ne frega! Spregamore è il Luna Park. Spregamore
è la storia di una madre morente e di un gatto in diarrea. È la storia di un
padre puttaniere e di un fratello maggiore mai nato. Spregamore dunque è la
storia di una specie di nosocomio? Ma chi se ne frega! […]».
Anche qui: sarebbe troppo
facile confutare parola per parola le assurdità e gli sfondoni concentrati in
un manipolo di righe (Del Colle avrebbe scritto poco o nulla? Falso: scrive e
pubblica versi da quando portava i calzoni corti; ogni raccontatore avrebbe
come imperativo quello di dimenticare ciò che ha creato? Il narratore ‒ lasciamo
la qualifica di raccontatore ai
vecchietti bevuti delle taverne fuoriporta ‒ deve ricordare «ciò che ha
creato», non foss’altro che per non ripetersi). Ci limitiamo a postillare come
segue, sforzandoci di toccare le stesse vette d’eleganza del nostro recensore:
se non «frega» niente a lei, Picca, si figuri a noi.
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